Abbiamo visto “ Dheepan – Una nuova vita “
Audiard è uno dei registi più importanti francesi, ha vinto i maggiori premi assegnati al Festival di Cannes, il Grand Prix Speciale della Giuria per Il profeta, e il Prix du scénario per Un héros très discret, ma ha vinto anche 4 Premi César, un Premio BAFTA, un National Board of Review ed è stato candidato all’Oscar per il miglior film straniero; oltre a ricevere altri premi per la sceneggiatura, la colonna sonora, la migliore attrice. Con quest’ultimo Dheepan – Una nuova vita ha vinto la Palma D’oro, sempre al Festival di Cannes. I suoi ultimi due film sono stati entrambi importanti e pluripremiati Il profeta e Il sapore di ruggine e ossa, adesso cambiando registro e stile come è di dovere per i registi curiosi e alla ricerca del nuovo punta il suo sguardo sul mondo dei Tamil dello Sri Lanka, gli ex guerriglieri definite tigri, sulla fuga verso Occidente di uno i questi e del suo inserimento nella periferia parigina, a volte violenta e cupa come il terzo mondo. Le intenzioni sono importanti ma il risultato, anche se buono, non raggiunge la potenza dei suoi due film precedenti, va troppo per ellissi ma anche per dettagli inutili, aiutandosi con una narrazione a volte prevedibile e senza sconquassi, fatta eccezione per un elegante grand-guignolesco scontro armato in uno stabile di malavitosi girato con originalità ed essenzialità, ma con un finale un po’ troppo roseo e perbenista. Forse il risultato non del tutto convincente dipende anche perché i due attori protagonisti, Antonythasan Jesuthasan ( la cui vera vita è assai simile a quella del suo personaggio, ha scritto un’autobiografia ) e Kalieaswari Srinivasan ( un’attrice indiana di teatro ) pur bravi non creano una grande empatia con lo spettatore.
Dopo anni di guerra civile nel 1999 termina la guerriglia, con la resa Tamil al governo di Colombo e con il bilancio di700.000 morti. Ma il film inizia senza essere chiaro sul tempo della storia e sulla resa da parte del guerrigliero Dheepan; inizia con il funerale, e quindi il fuoco sulla pira, dei corpi di sua moglie e delle sue due figlie uccise, brucia poi la sua divisa militare deciso ad abbandonare la sua terra e riiniziare. Per ottenere asilo più facilmente in Europa si procura, in una specie di campo profughi, una donna e una bambina come moglie e figlia e con tre passaporti falsi si imbarca per l’India assieme ad altri disperati, con l’intenzione di arrivare a Chennai e prendere un aereo per la Francia. Dopo un brevissimo periodo in Francia come clandestini, in cui le donne restano chiuse in casa e l’uomo lavora vendendo pupazzetti e oggetti luminosi da due euro per strada, finiscono legalizzati a Le Pré-Saint-Gervais, nella periferia nordest di Parigi. Qui hanno una casa che è poco più di un tugurio in uno dei tanti casermoni di periferia abitati da bravi extracomunitari e balordi francesi e lui ottiene il lavoro di portiere tutto fare. Dheepan è un uomo chiuso in sé, non parla, conserva un dolore che non riesce a manifestare con nessuno e con la donna che risulta ancora sua moglie non ha nessun tipo di rapporto; lei sembra infastidita da tutto ed ha una sola voglia liberarsi di quell’uomo e della ragazzina e fuggire in Inghilterra dove vivono dei suoi parenti. Di giorno Dheepan mette la posta nelle buche, pulisce le scale e una casa in cui si incontrano spacciatori e criminali vari, e fa mille lavoretti facendosi benvolere da tutti, mentre di notte osserva le bande di ragazzotti che spacciano e si fanno la guerra proprio davanti alla finestra di casa. L’unico momento sereno per lui e le due donne è la sera quando mangiano assieme ma sempre in silenzio e quando si dicono qualcosa stentano a capirsi. La donna vorrebbe partire ma non ha documenti e soldi e deve accettare un lavoro come badante a un uomo malato e silente in una casa frequentata anche dal figlio, appena uscito dal carcere, e da piccoli criminali del quartiere. La figlia sembra quella che si inserisce meglio, va a scuola, e parlando meglio dei genitori la lingua fa da interprete. Nonostante tutto sembra che la loro vita si stia stabilizzando ma la violenza quotidiana rientra rapidamente nelle loro vite, un colonnello Tamil convoca Dheepan e vorrebbe fargli fare una rapina per comprare armi per i Tamil ormai sconfitti ( questo blocco è il meno chiaro se collegato alla gioielleria in cui entra il protagonista senza farci capire le vere intenzioni ), lui non vuole e viene picchiato duramente dall’ufficiale, e questo gli farà uscire fuori tutta la rabbia e il dolore non espressi fino a questo momento, inizia a bere e a ritrovare il suo istinto di guerriero. Yalini invece si trova in mezzo a una sparatoria con la figlia e questo la fa decidere di scappare in Inghilterra, ma Dheepan la raggiunge, le prende il passaporto e i soldi e la costringe a tornare indietro e d è costretta anche a riprendere il lavoro di badante. Ma quando tutto sembra sfarinarsi senza speranza, ecco che l’uomo a cui Yalini fa la badante e il figlio malavitoso vengono uccisi in casa e la donna terrorizzata chiamerà Dheepan per venire a salvarla e l’uomo prendendo un machete e un cacciavite riesce a raggiungerla uccidendo tutti coloro che glielo impediscono e naturalmente questo li unirà e li farà decidere di andare via assieme e raggiungere la più tranquilla Inghilterra dove troveranno una vita decente e amorosa.
Film intenso e in parte difficile perché le intenzioni del regista restano non del tutto espresse in quanto non dichiarate come negli altri film. Anche il confronto tra i due mondi ( lo Sri Lanka e la periferia urbana metropolitana, i due tipi di violenza e di scontro etnico, i modi di comprendere differenti, anche l’umorismo o una semplice barzelletta ) emergono in un silenzio non chiaro. Ed anche il modo di parlarsi dei due protagonisti che non sembrano comprendersi pur parlando la stessa lingua, ci mostrano un’incomunicabilità oggettiva del mondo che non ha possibilità di risolvere i conflitti. Come se le parole non possano più servire e ciò che resta sono i corpi che si sfiorano, si toccano, forse comunicano più con l’istinto che con la consapevolezza. Forse il regista ci vuole comunicare proprio questo: non sono le parole che risolvono i problemi e non è con il ragionamento che si può cambiare la propria vita.