Sette David di Donatello e 6 Nastri d’Argento vinti in carriera, alter ego fotografico prima di Silvio Soldini, poi di Gianni Amelio e oggi di Paolo Sorrentino, Luca Bigazzi non ha bisogno di presentazioni: è semplicemente il direttore della fotografia più rilevante del cinema italiano contemporaneo.
Come si traduce l’idea di un regista in immagine?
Innanzitutto leggendo la sceneggiatura, da cui si ricevono delle sensazioni che poi vanno verificate con la narrazione che il regista vuole adottare. Da cosa si capiscono le sue intenzioni? Anche da stupidaggini. Quando per la prima volta s’incontra un regista, abitualmente si va nella stanza in cui si sta preparando il film, a quel punto basta guardare le fotografie che tiene appese alle pareti. A volte queste piccole cose dicono di più di quello che sono le parole.
So che sei un autodidatta.
Da quando è arrivato il digitale, tutte le mie conoscenze passate si sono rivelate inutili. Ho imparato questo lavoro con la pellicola e finalmente me ne sono liberato. Ora posso fare quello che non mi era consentito prima: ossia, rappresentare la realtà con mezzi molto semplici come lampadine e tubi a neon. Prima non erano sufficienti, allora mi dannavo per cercare di restituire la verità di una stupida lampadina amplificandola con proiettori che mi sembravano inutili e irrealistici. Adesso la lampadina è un mezzo non sufficiente ma perfino eccessivo per illuminare l’immagine digitale. Io lavoro con una macchina – la RED – che mi consente una doppia esposizione: mi permette di esporre un fotogramma A con diaframma e tempi normali e contemporaneamente un fotogramma B con un diaframma diverso, per poi unire i due fotogrammi in sede di post produzione. Questo vuol dire che una finestra sovraesposta, da cui proviene la luce del sole, non diventa un buco bianco bruciato ma ho anche la lettura delle altissime luci. Un tempo avrei dovuto illuminare gli interni in maniera molto pesante per compensare gli esterni, così non è più necessario. Questa è una svolta epocale: per una volta sono stato miracolato dalla tecnologia.
Non hai proprio nostalgia dei vecchi tempi?
Una cosa che mi piace raccontare, perché esemplificativa della mia ignoranza, è legata a Morte di un matematico napoletano di Mario Martone, con cui presto gireremo un nuovo film. Non avevamo i soldi per ricostruire la Napoli degli anni 50, così ho proposto a Mario di utilizzare un filtro giallo, di solito utilizzato per i film in bianco e nero, sulla pellicola a colori: era un modo per cercare di restituire con quel giallo dominante un’atmosfera d’epoca che altrimenti non avremmo potuto avere. Era uno dei miei primi film, ricordo ancora la reazione del tecnico del laboratorio romano che inorridito chiamò la produzione dicendo: “Ma come potete pensare di fare film con questo cretino che mette il filtro giallo sulla pellicola a colori?” Sono cose che ricordo con un certo piacere. Perché è proprio in questo rifiuto delle convenzioni che i giovani possono trovare degli spazi, sempre se non vengono uccisi dal conservatorismo della conoscenza. Soprattutto adesso col digitale. Mi fa davvero orrore questo rimpianto romantico della pellicola. Pellicola che viene difesa come qualità astratta. Si tratta di un freno alla creatività. Simile a quello che ho subito quando ero giovane, quando senza conoscenze sono arrivato a Roma da Milano e ho visto quest’atteggiamento lobbistico. Quel freno cui ho dovuto resistere e che oggi qualcuno sta cercando di riproporre.
Dopo l’Oscar a La Grande Bellezza, ti saranno arrivate molte proposte lavorative dall’estero.
Eh, sì, mi rompono spesso le scatole, però io non sono interessato per varie ragioni. Innanzitutto perché ho l’esigenza di conoscere ciò di cui si parla: quindi la conoscenza dei luoghi, della lingua, della condizione sociale che si sta raccontando. Quando abbiamo girato La stella che non c’è di Gianni Amelio ero in imbarazzo, perché sapevo poco o nulla della Cina, non ero mai stato in una casa proletaria cinese; insomma, non sapevo come fossero illuminate le case, cosa vedessero, cosa sentissero, come vivessero. Non sapevo come illuminare perché mi mancava la conoscenza della realtà. Poi io lavoro con le stesse persone da tantissimi anni: con il mio capo elettricista da trenta, con il macchinista da venti, con gli assistenti e il focuspuller da quindici. Questa è la mia troupe e, in parte, potrei dire la mia famiglia. Se facessi un film in America, con molta fatica potrei portare i miei collaboratori: dunque questa è un’altra ragione. Questo poi non è un lavoro mercenario. Pochi campi dell’attività umana credo siano così connessi alle relazioni umane come il cinema, che è uno straordinario amplificatore di rapporti.
Edward Lachman, direttore della fotografia che ha lavorato con registi come Todd Haynes e Wim Wenders, ha detto che “un film è anche, sempre, un documentario sulla realizzazione cinematografica di un preciso momento.”Mi sembra una dichiarazione in linea col tuo metodo di lavoro.
Che coincidenza. Dato che vivo lontano da Roma, non conosco personalmente quasi nessuno dei miei colleghi italiani, invece, con Ed Lachman possiamo quasi dire di essere amici. È un direttore della fotografia straordinario, Carol credo sia un capolavoro dal punto di vista formale. Lui tra l’altro viene dal documentario, per questo credo di condividere con lui le stesse idee, gli stessi principi formali. Il documentario è la forma principale di racconto della realtà; senza il documentario il cinema rischierebbe di somigliare alla cattiva televisione. Perché il cinema è un enorme specchio della realtà ed è un grande svelatore dell’ideologia che copre la realtà delle cose. Non vorrei sembrare presuntuoso, ma il cinema per me è un’attività politica. Quella che negli anni 70 mi aveva tanto appassionato. Quindi sì, verosimilmente cerco di fare cinema in termini politici. Considerata la situazione dell’Italia, penso che interpretare la realtà sia ormai l’unico atto politico che mi è rimasto.
Sei anche – soprattutto direi – operatore di macchina nei film in cui lavori. Questo suppongo comporti una maggiore intimità con gli attori.
Penso che il rapporto di comunicazione non verbale tra l’operatore e gli attori sia una realtà. Sono ateo materialista, ancora adesso marxista, eppure ritengo che sia questo l’unico aspetto spirituale di cui abbia bisogno il mondo. Spesso gli esseri umani comunicano senza aver bisogno delle parole, comunicano per desideri, volontà o aspettative. Ecco, si tratta dello stesso tipo di rapporto che si crea tra operatore di macchina e attori. Questo mi fa credere che sul set l’operatore goda di un ruolo privilegiato: è il primo spettatore ed è quello più strettamente connesso a quegli straordinari esseri umani, così fragili, che sono gli attori. L’operatore è la connessione tra la loro fragilità e la rappresentazione oggettiva della ripresa, ciò che li rende visibili. E poi è l’operatore di macchina che stabilisce qual è la corretta inquadratura, ossia quella che suggerisce allo spettatore la direzione dello sguardo e lo aiuta nella comprensione dell’immagine. Molto più della luce.
Lavoreresti come operatore per altri tuoi colleghi?
Personalmente sarei pronto a non fare la luce di un film, ma non sarei pronto a non stare in macchina. Io potrei fare l’operatore di macchina per un altro direttore della fotografia, anzi, mi piacerebbe farlo. Non ho nessun ego da difendere su questo. Sono convinto che il ruolo decisivo per la composizione dell’immagine sia quello dell’operatore di macchina. Poi, ti dico, farei anche da operatore steadycam, dronista e operatore subacqueo. Penso che perdere il controllo dell’inquadratura per me sarebbe catastrofico.
Di solito intervieni anche nella scelta delle location?
In realtà non riesco a vedermi come una figura centrale sul set. Se lo scenografo fa una scelta, magari posso cercare di chiedere certi accorgimenti rispetto al colore dei muri di un appartamento, tutto qui. Ma va detto che con lo scenografo e l’arredatore c’è un’intesa importante, perché molte delle lampadine in scena sono la fonte unica di luce, quindi sento di poter intervenire nello scegliere collettivamente un certo tipo di lampada di scena. Perché quella non sarà una lampada di scena, sarà la luce.
Hai realizzato alcuni piani sequenza memorabili: penso a Le conseguenze dell’amore, Il divo, Copia conforme. Come lavori con riprese così complesse?
Non c’è una grande differenza. Ogni volta che devo illuminare un set, lo penso come un ambiente inquadrabile a 360°: le luci devono essere nascoste, non voglio vedere stativi e bandiere in giro, ingombri che impediscono i movimenti di macchina. Siamo d’accordo che esiste una posizione di macchina in cui una luce è più interessante, no? Ti faccio un esempio. Se metto delle luci fuori da una finestra e poi metto la cinepresa con le spalle a questa finestra evidentemente avrò una luce molto piatta, ma se sposto la macchina da presa di 180° rispetto alla finestra questa luce piatta diventerà un controluce pieno, mentre se la sposto di 90° avrò una luce laterale. Allora è chiaro che, in rapporto alla luce, esiste una posizione di macchina più o meno favorevole. Ma non posso pensare di creare un’altra finestra, opposta di 180°, se questa è la realtà di quella stanza. Quindi, da questo punto di vista, il lavoro dell’operatore di macchina è sempre strettamente connesso a quello del direttore della fotografia, perché l’operatore spostandosi anche solo di 10° aiuta il direttore della fotografia a creare un certo tipo di luce. Come vedi, anche nel caso di un piano sequenza non riesco proprio a separare i due ruoli.
Rispetto ad alcuni tuoi colleghi, contraddistinti da un marchio riconoscibile, il tuo stile sembra essere camaleontico.
Io contesto la parola stile. Io pretendo di non avere stile. Io non faccio i miei film, faccio i film dei registi. E siccome i registi hanno personalità diverse e magari cambiano anche stile tra un film e l’altro, cerco di adattarmi alle loro richieste. Il mio dovere è essere aderente al progetto ed essere il più veloce possibile: la mia esperienza e l’uso del digitale mi consentono fieramente di dire che la mia maggior qualità non è fare belle immagini ma essere veloce. Questo è quello cui ambisco: essere il più veloce di tutti, non il migliore.
I ritmi televisivi sono necessariamente frenetici. Com’è andata sul set di The Young Pope?
Dovevamo fare otto episodi, ne abbiamo fatti dodici, poi ridotti a dieci. Abbiamo girato in ventiquattro settimane, il che significa un’ora di montato ogni due settimane. Se fai i conti, capirai che è stato un impegno terrificante. Però ho imparato moltissime cose: per esempio, ho imparato in maniera definitiva a concepire la luce in un ambiente come una fonte luminosa unica, che deve andare bene sia per i totali sia per i primi piani. Personalmente eviterei di fare altre serie televisive ma sono contento di com’è venuta.
Quindi non parteciperesti a un’eventuale seconda stagione?
Una seconda stagione non la farei neanche in catene. Questo è un lavoro molto complicato e impegnativo, io penso che non si possa fare per più di dieci settimane consecutive. È come se avessi fatto quattro film in ventiquattro settimane. Se vogliamo farla e pensarla con una qualità cinematografica non è umanamente sostenibile.
In The Young Pope, la luce è molto intensa. Sembra quasi essere divina.
Intenzionalmente è una serie tv molto luminosa, solare, con tende bianche e spazi sovraesposti, però ha anche delle situazioni di grande cupezza, com’è nell’immaginario ipotetico di un interno Vaticano. Si passa da solarità a oscurità, allo stesso modo di ciò che succede nelle chiese. Tutto il tempo mi chiedevo: questa roba sarà accettabile per la televisione? Ma Paolo mi ha sempre molto confortato, potrei azzardare a dire che non avevamo molto da perdere e per questo l’abbiamo affrontata con uno spirito piuttosto ardimentoso. E questo mi sembra sia visibile.
Sarà stata una bella responsabilità illuminare le stanze del Vaticano.
Beh, quando sai che il giorno dopo dovrai illuminare la Cappella Sistina, sicuramente è dura addormentarsi la notte prima. Diciamo che dopo The Young Pope non credo di avere più paura di niente. Qualunque cosa un regista mi chieda, sento di poterla fare. Questo è il lato positivo.
Se penso a Il Divo, immagino Andreotti nella sua casa perennemente buia. Lenny Belardo, invece, è avvolto da un persistente bagliore. Come nasce la scelta d’utilizzare questo effetto glow?
Abbiamo utilizzato un filtro che si chiama Pro-Mist, accentua molto l’opalescenza della luce. E ci sembrava che potesse funzionare per le immagini che volevamo dare al film. Ci sembrava giusto, bello e corretto. Personalmente io preferisco un’immagine più corposa, meno luminosa, perché più evocativa; nel buio conta di più l’atmosfera rispetto alla luce accecante, però mi auguro anche di non fare sempre la stessa fotografia. Se c’è una cosa che temo, è che qualcuno possa dire: “Appena ho visto il film, ho riconosciuto la tua fotografia”. Spero di sapermi adattare e non ripetermi. Un esempio è il mio lavoro con Ciprì e Maresco: in particolare Lo zio di Brooklyn, in cui mi sono riproposto di riprodurre in pellicola il look delle loro opere precedenti. È l’esempio perfetto di quello che intendo quando parlo di mettersi al servizio di un regista. Non si tratta di fare dei compromessi. Il film raccontava in forma cinematografica le stesse cose che avevano girato per la televisione, e mi sembrava doveroso replicare il loro immaginario estetico. Personalmente i filtri neutri degradè mi fanno schifo, tuttavia mi è sembrato giusto usarli. Perché era ciò che a loro piaceva.
Lavorare con star come Jude Law costringe a scendere a compromessi?
Tutte le volte che ho avuto a che fare con grandi star, italiane e non, mi sono trovato benissimo. Mi sono trovato molto bene anche con gli attori non professionisti, perché sono sempre persone curiose, interessate e disponibili; penso ai ragazzi di L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, oppure gli adolescenti con cui ho lavorato recentemente sul set del prossimo film di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia. Sono stati incontri meravigliosi. Una cosa che però ricordo con stupore è la generosità di Jude Law. Abbiamo girato il suo discorso finale a Piazza S. Marco all’inizio della lavorazione, realizzandolo a Cinecittà su un balcone ricostruito. Ero molto colpito dall’intensità del discorso, sia per com’era stato scritto sia per com’era stato recitato. Una cosa davvero toccante. Ma la cosa che mi ha davvero colpito è accaduta verso la fine delle riprese, quando siamo andati a Venezia per i girare i controcampi sul pubblico: in quel caso non era necessario che Jude fosse presente, perché sarebbe stato inquadrato solo di spalle, eppure lui è voluto venire lo stesso. E dopo venti settimane ha recitato quell’identico discorso nella stessa maniera, con la stessa passione, potrei dire con le stesse lacrime. Tutto questo soltanto affinché le comparse potessero reagire con le emozioni che Sorrentino desiderava. La dedizione di Jude, che recita con quella forza, non la dimenticherò mai. È stato un momento memorabile. Come non dimenticherò la commovente fatica che Silvio Orlando faceva nel recitare in inglese, senza perdere quella meravigliosa espressività che lo caratterizza. Lo dico per far capire come questo lavoro, considerato da privilegiati, sia davvero faticoso e comporti la messa in discussione della propria vita, delle proprie capacità fisiche e intellettuali. Spesso invece percepisco questo disprezzo populista e un po’ fascista per il lavoro del cinema, che poi è un disprezzo per la cultura e per il lavoro intellettuale. Credo sia uno degli atteggiamenti più reazionari che vedo oggi nel nostro paese.