Dieci anni fa moriva Cesare Garboli. Da allora, il fascino che nell’ultimo spicchio di Novecento aveva iniziato a esercitare sui critici più giovani non ha fatto che crescere. E anche tra i lettori che non studiano per mestiere la letteratura, e che non aspirano a condensare i loro studi in una raffinata arte del ritratto, c’è una categoria di happy few che cercano e ritrovano in lui quel gusto dell’avventura e della scoperta intellettuale, dell’invenzione stilistica e della penetrazione psicologica, a cui sembrano ormai impermeabili sia la narrativa che la saggistica più in voga. Certo, oggi fin troppi autori provano a trasformare la prosa in senso lato critica in una forma artistica inimitabile: e lo fanno per adattarsi a una cultura che se da un lato, in un modo tutto commerciale, ripropone la vecchia divisione tra i generi letterari, dall’altro lato invita a spalmare su qualunque tipo di scrittura le spezie del “romanzo”, unico genere in cui il senso comune rispetti ancora l’antica dignità della letteratura. Ma il caso di Garboli è diverso.
Davanti alle praterie lasciate ai saggisti che aspirano a diventare creatori, lui non ha ceduto all’euforia: e anzi ha sentito questa libertà come una minaccia. Perché se aveva una singolarità da difendere gelosamente, non stava tanto nel distacco dai generi tradizionali, quanto piuttosto nella refrattarietà del suo talento alle fantasie estetizzanti di molti colleghi. Al contrario di loro, Garboli mobilita le sue doti di scrittore solo per isolare, con rigore pari all’immaginazione, i caratteri degli artisti di cui tratta: fuori da un tale corpo a corpo, la sua “letteratura” (quasi) non esiste. Ma paradossalmente è proprio questa natura obliqua, questo modo di arrivare a risultati estetici sorprendenti attraverso un’opera di servizio, a farne lo scrittore forse più centrale dell’Italia di fine ventesimo secolo.
Esegeta mimetico e mercuriale di teatro e pittura, di critica, poesia e romanzo, Garboli si presenta di volta in volta come un attore disincarnato nella pagina o come un editore tendenzioso, come un traduttore o come uno psichiatra travestito da filologo, come un antropologo della società letteraria o come un narratore che si limita a montare storie già “scritte”, ma che poi cattura i lettori con una suspense degna dei grandi gialli. E’ un prosatore duttile ma non eclettico, chic ma non volgarmente snob, elegante e chiaroscurato eppure anche sommario, e anzi spesso lapidario nel circoscrivere un problema, quasi volesse allontanare da sé il minimo sospetto di calligrafismo. C’è in lui molta malizia, unita a una costante attrazione per il morbid; ma al tempo stesso, lo anima una violenta insofferenza per i languori decadenti.
Ogni suo segno distintivo rivela l’abile slalom con cui ha saputo smarcarsi da una pseudocreatività che oggi, per dirla coi suoi termini, dilaga come una muffa su tutta la cultura. In questa muffa s’impigliano anche i giovani critici che provano a imitarlo. Estremizzando, ossia caricaturalizzando e fraintendendo, certi suggerimenti che lui lasciava cadere con la cautela e la disinvoltura dei suoi inimitabili “a parte”, precipitano nelle trappole che il loro modello ha speso tutte le energie a evitare. Il fatto è che cercano di utilizzare un’esperienza inutilizzabile, di trasformare in un insegnamento applicabile i risultati di chi si è sempre rifiutato d’insegnare alcunché. Il loro tentativo dimostra che non si può diventare garboliani senza diventare automaticamente antigarboliani: specie se ci si perde tra i vapori di quel saggismo romanzesco che ripugnava come nient’altro all’autore della Stanza separata, intellettuale antiromantico e quindi sempre diffidente davanti agli atti di forza, creativi e prometeici, di chi anziché capire le cose vuole trasfigurarle.
In verità, non solo Garboli non crede alla critica creatrice, ma più in generale rifiuta l’estetica moderna che fa dell’arte un valore in sé, che la stacca dall’esistenza ma insieme pretende di assorbirla integralmente, di diventarne il fondamento. Opponendosi al totalitarismo estetico dei letterati italiani, inclini a reinterpretare tutta la storia in chiave romantico-decadente, ricorda spesso che i nostri sommi autori, Dante e Leopardi, non parlano mai in nome della poesia, bensì in nome della realtà e della vita.
Ma se non è un creatore di mitologie estetiche, Garboli non è neppure un critico in senso stretto. «A regnare nei miei interessi non è la critica letteraria», dice di sé, «ma un grande disordine dove nessun punto è privilegiato e tutti valgono come funzione di un’incognita che non è la “poesia”». Raboni lo giudicò un Sainte-Beuve al contrario: anziché usare le notizie biografiche sull’autore per interpretare le opere, userebbe le opere per interpretare l’autore. La battuta è suggestiva: non solo perché a volte Garboli, più che dei libri, parla delle persone, ma anche perché gli autori da lui più amorevolmente seguiti sono, con l’eccezione di Molière, uomini e donne che ha conosciuto e frequentato a lungo: Delfini, Natalia Ginzburg, Penna, Morante, Soldati, Longhi…
Eppure, a guardar bene, le cose sono meno semplici. Intanto, per usare un’altra parola tipicamente garboliana, nel suo destino di ritrattista c’è un imbroglio. A meno di rifiutare del tutto lo spirito del secolo, nel Novecento sembra impossibile utilizzare immediatamente, per dritto o per rovescio, l’eredità del principe della critica ottocentesca. Perché nell’epoca che ha dissolto i fiduciosi progetti culturali moderni, la via che collega vita e opere non è più lineare. E Garboli, che si muove dentro la sinistra cittadella novecentesca con un misto di attrazione e repulsione, ma che nelle sue angosce è comunque immerso fino al collo, non smette mai di ribadire che in quest’epoca l’atto di scrivere, e quello di leggere, si sono rivelati innaturali come mai prima. Tra esistenza e letteratura è avvenuta una separazione misteriosa. Se c’è un’affinità, sta forse nel fatto che testi e vita appaiono entrambi come «processi patologici»: e per questo, più che un ritrattista di tipi umani o un analista di opere, Garboli si sente un «diagnostico». Ma una tale affinità non implica un netto rapporto di azione-reazione tra un’opera e l’esistenza del suo autore: le due “forme” potrebbero correre in parallelo. Sembrano realtà incommensurabili: e se anche vengono risucchiate l’una nell’altra, lo fanno attraversando un diaframma segreto, scambiandosi i sintomi in una terra di mezzo intricata e informe. A Garboli interessa appunto questo paludoso luogo di passaggio, dove una vita non più realizzabile in pienezza contagia dei testi a loro volta incapaci di dare di questa vita una rappresentazione integra: e allora, per elaborare diagnosi attendibili, è logico che faccia esperimenti su chi gli è più vicino.
Dunque, se non sono le opere in quanto tali ad attrarre Garboli, non sono nemmeno, in quanto tali, le persone: è, invece, lo spazio che divide e lega vischiosamente poesia e vita. Ma quando prova a mappare un tale spazio, «la critica smette d’essere “critica”, e diventa […] odiosamente, “letteratura”». A scorrazzare su e giù in questa «zona franca», si rischia di ricadere nel romanzesco. Perché non accada, Garboli deve fare acrobazie su un filo sottilissimo. Per questo la sua prosa procede per finte, scarti e incessanti dribbling, lasciando balenare davanti al lettore delle fulminanti intuizioni critiche e tornando poi subito a seppellirle. Questo scintillio intermittente può far pensare al Debenedetti ritratto da Pampaloni: al critico che non si fissa né sul giudizio di valore né su un itinerario psicologico, ma offre un «rosario di rivelazioni» che illuminano il discorso per perdersi di nuovo nel «mare dell’essere». Solo che Debenedetti, frugando dentro forme e destini, faceva fiduciosamente la spola tra letteratura e civiltà, sperando di svelare delle verità umane universali. Invece i «processi» indagati da Garboli sono così insondabili, così disumanamente autistici e insieme così “definitivi” nella loro fatalità morbosa, da invocare non più paragoni con la psicoanalisi ma con l’astrologia.
La vocazione spuria di questo funambolo si libera quando può applicarsi a disseppellire i romanzi nascosti nella realtà, quando puo’ dar forma a destini rimasti incompiuti. E’ questo che ha fatto esplorando le scritture «famigliari» di Pascoli e curando il Journal di Matilde Manzoni, il carteggio Longhi-Berenson e i Diari di Delfini. Garboli vuol essere un ostetrico delle forme, vuole decifrare e portare alla luce i grovigli artistici ed esistenziali ancora privi di contorni e dispersi nel ventre buio che si stende tra la vita e la pagina. Date queste premesse, non stupisce che le sue «cavie» siano soprattutto scrittori che non mostrano piena consapevolezza di sé, che non dominano la loro esistenza e il loro talento. Esemplare è il caso di Delfini, che «ha vissuto e coabitato con se stesso senza mai vedersi». “Realizzando” i destini incompiuti, e riflettendo sui testi creativi dei suoi autori, Garboli li “esegue” traducendoli nel proprio linguaggio: è un interprete, non un critico. Per esorcizzare quei caratteri della sua operazione che potrebbero apparire “romantici” e gratuitamente istrionici, li estremizza e al tempo stesso li cancella assumendo su di sé il potere paradossale dell’attore: cioè di colui al quale è concesso esibire senza pagar dazio un protagonismo impudico, perché la sua libertà e il suo talento si esprimono solo attraverso l’annullamento dell’io.
Dire questo, significa riconoscere che l’unico autore davvero affine a Garboli resta Roberto Longhi: il critico-conoscitore che sa far coincidere un massimo di idealizzazione con un massimo di aderenza al dato materiale, lo scrittore che nelle sue ekphraseis brucia senza dialettica ogni rapporto con la cultura “esterna” alle opere, ma rifiuta anche ogni vaghezza fantastica. Longhi però ha un vantaggio: si occupa solo di pittura, linguaggio «muto» che permette al “traduttore” di sfogare senza rimorsi tutto il suo talento manierista. Garboli invece, oltre che di immagini, si occupa di uomini e di scritti, nonché del cordone ombelicale che li lega: cioè di oggetti che di per sé stessi già “parlano”, che sono impregnati di una cultura e di una storicità di secondo grado davanti alle quali ogni traduzione rischia di apparire una parafrasi insieme superflua e infedele. Al di là delle ontologiche differenze di generazione e di stile, è anche per questo che mentre il suo maestro fa sfoggio di una lingua virtuosisticamente antiquaria, Garboli adopera invece un tono sbarazzino, alternando finezze e modi sbrigativi, sfruttando prosaicamente certe similitudini “domestiche” (la cucina, l’artigianato, lo sport, l’infanzia), e cercando di raggiungere una «distratta eleganza» attraverso equivalenze qua e là quasi grossolane.
Come si diceva, il “mutismo” dei suoi autori preferiti è spesso la cecità, l’inconsapevolezza. Ma a volte si tratta solo di una saggia lontananza dalle intellettualizzazioni romantico-decadenti. Gli eroi letterari di Garboli subiscono le malattie del Novecento ma non le teorizzano, non le trasformano in plumbee ideologie: le vivono anzi con lo splendore dei sani, tutti un po’ simili al Delfini a cui il suo interprete diagnostica una «schizofrenia florida». In genere, non conoscono la dialettica: sono instabili ma statici, negati allo sviluppo. Rappresentano le inquietudini moderne con una radicalità tanto più estrema quanto meno è esibita. Non si preoccupano di apparire démodé, e compongono opere che se a un primo sguardo sembrano fatte di materiali conosciuti o perfino logori, nella loro struttura profonda si rivelano abnormi e letteralmente senza confronto. C’è in loro uno sdoppiamento: patiscono il Novecento, ma appartengono a una storia più antica. A volte questo sdoppiamento si traduce in una seconda natura attoriale, come in Tobino o in Soldati. In ogni caso, l’estraneità di questi scrittori alla cultura moderna non ha nulla di antagonistico: è passiva, quasi impermeabile alla sua catechistica “intelligenza”. Per Cassola, come per Soldati, la verità è anzi proprio ciò che all’intelligenza resiste. E perfino a Molière, Garboli attribuisce come ideale l’intelligenza della cecità.
Non a caso, difendendo i propri modelli, il critico-interprete inizia spesso i suoi saggi sgombrando il campo dai Problemi Moderni col gesto infastidito di chi si scrolla di dosso un po’ di polvere. Sa che se non si finge di prenderli sottogamba, se si accetta di battersi sul loro sofistico terreno, si viene subito fatti prigionieri. Così, davanti ai miti della letteratura “problemista”, si mostra gioiosamente irriverente. Mentre tutti assistono a Finale di partita con l’aria di chi prende messa, Garboli si gusta Beckett come un «mediocre pittore “pop”», sorvolando sui suoi uggiosi balbettii apocalittici. Allo stesso modo affronta i due massimi Super-Io della cultura italiana ai tempi del boom: Fortini e Pasolini. In Falbalas (1990) si trova un formidabile doppio ritratto dei due fratelli avversi, e delle loro tecniche polemiche, tutto tenuto in un paragrafetto andante. Pasolini, scrive Garboli, era un tipo da «due passaggi, una finta, e arrivava in goal, voleva vincere. Era animato da prepotente bisogno di sopraffazione, che pagava con infinita, addolorata mitezza. Fortini va più in là. Vincere non gli basta. Vuole perdere da trionfatore, scoprendo i denti nel sorriso di chi aiuta l’avversario a vincere meglio di come vincerebbe da solo […] fa tutto lui».
Di qui prosegue il discorso sull’«ospite ingrato», sadicamente isolandone una frase-spia: «caduta Saigon, cenavo con Mario Tronti», ha scritto Fortini in un saggio di Questioni di frontiera. E Garboli, ironizzando sulla «relazione forse troppo intima» che l’ablativo assoluto stabilisce tra i due fatti, parla di «un sintagma che può venire in mente solo a Quintiliano che abbia deciso di essere Lenin». Poi mostra come Fortini, così sospettoso verso ogni forma di spontaneismo e così pronto a inibire ogni libera espressione dei sentimenti, lasci dilagare la vanità puerile del suo io proprio mentre tenta di nasconderlo nei labirinti dialettici. Conclusione: per il più sottile dei marxisti eretici italiani la realtà non è che un «commento», un libro di glosse: e della sua trama politico-letteraria questo ideologo si sente «un portavoce a metà fra il segretario di stato e il poeta».
Un ritratto più completo di Pasolini lo si può invece ottenere accostando alla citazione da Falbalas il saggio della Stanza separata (1969) significativamente intitolato Il male estetico. Qui l’abitudine pasoliniana di piegare la riflessione letteraria a esigenze giornalistiche è definita efficacemente come «schema “filologia-megafono”». Ma Garboli stigmatizza soprattutto la sua tendenza a confonderla con gli esami di coscienza, con le confessioni pubbliche e le accuse tribunalizie, che alla fine si risolvono in una critica sempre immotivatamente eccitata, «eternamente sul punto di scoprire l’America». E in questo senso, con grande forza comica, canzona la mania pasoliniana di vedere una svolta storica in ogni minimo sussulto biografico, e di proporre quindi una specie di grottesca parodia dello storicismo tutta concentrata su assurde «datazioni minime». «Di questo passo, con l’andazzo del Pasolini», conclude il saggista della Stanza divertendosi a imitare uno stile da polemista della generazione precedente, «presto lo sentiremo discorrere di razionalismo dell’autunno del ’35, o di misticismo estivo del ’52».
Anche davanti a Calvino, l’atteggiamento non cambia. Recensendo Se una notte d”inverno un viaggiatore, Garboli riassume il libro come se fosse una storia qualunque, per nulla sofisticata, e la traduce in metafore anticalvinianamente corpose e gastronomiche, con un semplicismo un po’ ribaldo che mira con tutta evidenza a irritare il metodico, igienico e metaletterario autore. «Non bisogna fare le cose troppo complicate» lo ammonisce. «Viene un momento in cui bisogna chiedersi, se invece di organizzare grandi feste e parteciparvi con tanta tetraggine, non sia meglio festeggiare la propria disperazione». Così, Garboli finisce per chiedere a un intellettuale al cubo quello che chiede alle sue cavie antintellettualistiche: di vivere la malattia come una festa.
Data questa sua avversione per gli eccessi di culturalismo, si potrebbe pensare che rifiuti in blocco Moravia, massimo rappresentante italiano della modernità “intelligente”. Invece non è così. Garboli ammira Moravia perché ha rinunciato con stoica fermezza ai lussi del decadentismo, opponendogli l’aridità e leopardianamente evitando di identificare Vita e Poesia. Ma soprattutto, conta per lui il fatto che il razionalismo moraviano è così estremo da rovesciarsi paradossalmente in uno di quei meccanismi tautologici e ciechi che non smettono di sedurlo. Così, con formula simile a quella usata per l’antipode Delfini, arriva a definire il narratore della Noia «uno schizofrenico che funziona perfettamente».
Tuttavia, forse solo gli scrittori che non sono veri intellettuali convincono Garboli fino in fondo: solo in loro un’estrema modernità strutturale e un’assenza totale di moderne superstizioni arrivano a fondersi mirabilmente. Così capita in Penna, o in Marcucci, pittore che non ha il «pregiudizio mentale» dell’informale, e che dipinge le cose di tutti i giorni come fossero fantasmi. L’arte somma è per Garboli quella che tocca la grazia perché sembra non sapere nulla di sé, o aver saputo e poi dimenticato tutto. E’ un’arte che brucia ogni scoria romantica in una leggerezza antipsicologica, antistorica, e quindi anche monotona, seriale: quella dei Sillabari di Parise e dei motivetti solari ma atroci di Penna, ispirati da un eros che con lo stesso invariabile meccanismo continua a drogare il poeta, e poi lo abbandona facendolo ricadere giù stecchito come un burattino.
Ma alla monotonia, alla serialità e alla cecità Garboli non si accosta solo quando coincidono con la grazia artistica: lo colpiscono anche se rimangono mera ottusità, non-stile, brandello di realtà piatto e osceno come una bistecca dal macellaio. Si appassiona ugualmente a due assoluti: la forma suprema, e la totale mancanza di forma. Ciò che detesta è quel che sta in mezzo: il volontarismo dell’estetica romantico-decadente e intellettualistico-nichilistica. E’ la passione per l’ottusità informe che lo porta a riflettere sul desiderio come ripetizione totalizzante e sulla cecità del sesso; è la fame di brutalità allo stato puro che lo convince a costruire piccole teorie sulla pornografia e sul fumetto, due linguaggi la cui “nobilitazione estetica”, in forma di erotismo o graphic novel, approda giocoforza al ridicolo. Per la stessa ragione studia la prosa piatta e buia di Casanova, che «non riesce mai a vedersi», e ama un film come Falbalas, che a differenza del pomposo cinema del secondo Novecento non sa niente di sé.
Conta dunque, per Garboli, ciò che sta per così dire al di sotto e al di sopra della cultura moderna: da una parte il prosaico libertino veneziano, dall’altra don Giovanni, sublime funzione teatrale irriducibile a ogni psicologismo romantico. Del resto, nelle vere opere d’arte come nella materia grezza scopre sempre con piacere una certa dose di «volgarità»: adora il modo in cui Soldati sfida l’ovvio, assapora l’animalità inintelligente di Courbet, e perfino in Rembrandt isola la «pacchianeria».
Sia la verità della grazia artistica che quella annidata nella mera ottusità emergono dall’assenza o dalla rimozione del soggetto romantico. Per questo molti dei ritratti garboliani sono dedicati a uomini che a un certo punto dell’esistenza hanno amputato il loro io in nome di una funzione pubblica o di una vocazione tirannica: Gallo, Agnelli, Eduardo, Antonioni… Rinunciare all’io vuol dire anche «servire», e in parte degradarsi, come sanno bene Penna e Soldati. Ma nella vita reale, uno sperpero di sé totale non è concesso neppure ai “mostri”: «appena si comincia a vivere, si comincia a costruire tutto ciò che non ha valore», si diventa un po’ borghesi. Perciò è pericoloso esaltare i “puri” e opporli ai gretti imprenditori di sé stessi, come fanno la Morante e Pasolini, trascinati dall’odio per la piccola borghesia da cui provengono. Le due figure convivono in ognuno di noi. La stessa esaltazione della purezza, col suo presupposto contestatorio, è impensabile in un “puro”: e infatti scaturisce dall’intellettualismo contemporaneo.
Ma alle soglie della modernità, c’è un personaggio che ha vissuto questa doppiezza in modo singolare. E’ Tartuffe, «servo che vuol farsi padrone», medico che è anche malato. Diventa una vittima, perché Molière giudica impossibile far coabitare le due tendenze: «Non si può vivere da protagonisti, e, nello stesso tempo, agire da servi». Ma alla fine della modernità, dice Garboli, Tartuffe forse sta vincendo. Dagli anni Sessanta del Novecento, si è preso atto che l’intelligenza coincide col male: che l’innocenza esclude dalla vita, mentre la perversità e la simulazione ci rendono protagonisti. Così si può servire il male e insieme dominare: si può essere servi, sì, ma servi dell’intelligenza che fa padroni; e nello stesso tempo si può vivere la violenza o la frode con inebriante cecità. Criminalità, gioia e salute sono tutt’uno. Si dissolve la dialettica romantica, col suo ping pong tra finzioni estetiche e poteri borghesi, e si torna a un mondo antiromanzesco, integralmente “teatrale”. Ma se tutto è recita, il vero teatro sparisce. E se l’irrealtà occupa l’intero campo, qualunque fiction non ha più senso.
Tuttavia, malgrado questa consapevolezza amara, neppure Garboli può fare a meno del romanzesco senza ammutolire: è sulla contraddizione tra una irresistibile tendenza “estetica” e una violenta volontà di soffocarla che la sua saggistica si regge. E se i paragoni domestici tendono a sminuire il suo lato stregonesco, altre spie ci dicono quanto vicino a questa prosa corra l’estetismo. Si pensi all’inflazione dell’aggettivo «supremo»: che Garboli non usa solo per definire capolavori o qualità umane, ma lascia cadere perfino su una giacca di Longhi.
Anche là dove introduce dilemmi netti e bruschi, o conclusioni perentorie appena travestite da domande, il suo discorso rivela una drammatizzazione assai “letteraria”: anzi, più è schematico e più è seduttivo. E non è certo un caso se questo antiromantico usa così spesso, e così bene, lo stratagemma desanctisiano dell’opposizione frontale tra due persone o due opere che s’illuminano a vicenda per somiglianza e per contrasto. Ecco ad esempio un epigramma su Moravia e Parise, scrittori dalla fama precoce: «Moravia, dopo il successo degli Indifferenti, non ha fatto che guarire. Parise è stato più coerente. Non ha fatto che ammalarsi». Notevole anche il confronto tra Croce, uomo dalla vita tragica, e Gentile, che ha escluso dalla sua vita la tragedia per incontrarla nella morte; o quello tra il nobile decaduto Delfini e il suo accorto «gemello» Landolfi, che a differenza di lui aveva piena coscienza del proprio caso, e quindi ha saputo organizzare dei proficui fallimenti metaletterari.
Altrove, il Lessico familiare si oppone al Giardino dei Finzi-Contini, la Morante alla Ginzburg, Fortini a Penna, Penna a Montale, Tartufo a Don Giovanni, e Agnelli a Feltrinelli. Anche certe potenti e immaginose scorciature definitorie sul canone occidentale fanno pensare a un organatore ottocentesco garbolianamente gettato tra le malattie e le sofisticazioni del Novecento. Così, per questo analista degli istinti più luminosamente distruttivi, la Commedia è un monumento «alla capacità di odiare», e l’Ulisse il «grande poema goliardico di tutti i defraudati di qualcosa, poema di epica miserabile e derisoria “per giovani soli” nato dal disgusto e dal disprezzo di vivere, da un’euforia immaginaria unita a un magone inconsolabile e a un leggero, ma inestirpabile, odore di water di campagna».
Come si vede, Garboli cammina sul ciglio senza cadere. E senza forzare il senso delle opere, senza aggredirle dall’esterno, fa rientrare nelle sue “esecuzioni” tutti gli umori e i sentimenti primari della vita quotidiana. Sintesi del genere sono già cellule di romanzo. E la sua attitudine narrativa è accentuata dal vezzo di “temporalizzare” i saggi, di mimare un discorso in fieri correggendo le affermazioni appena fatte, lasciando cadere qua un «ah sì, ora ricordo» e là un «ma prima ho sbagliato, dovevo dire invece…». Infine, dei creatori di mondi romanzeschi Garboli ha due tratti essenziali: l’ossessiva coerenza tematica, e l’esatta definizione di personaggi ricorrenti quanto inconfondibili.
Con «suprema» e «brutale» accortezza, questo interprete ha allontanato da sé i fantasmi demiurgici dell’Otto-Novecento, distinguendosi subito da quel Citati nelle cui pagine «tutti i salmi finiscono in Gloria», e tutti gli autori evaporano in un gas neoplatonico dal quale si leva solitaria l’impudente ricreazione del critico. E tuttavia, neanche Garboli ha potuto evitare di contrabbandare un talento di romanziere sotto mentite spoglie. Senza quel talento, il suo rigore conoscitivo sparirebbe: eppure le due cose non possono mai coincidere del tutto. D’altronde, per concludere garbolianamente, cos’è mai il suo miraggio di grazia antintellettualistica e antipsicologistica, antiestetizzante e antiromantica, se non il sogno che l’intelletto, la psicologia e l’estetismo romantico coltivano di un bene e di un male del tutto puri, e nella loro purezza irrimediabilmente perduti?