Cent’anni fa, il 1° novembre 1921, nasceva uno dei maggiori narratori del nostro Novecento, autore di opere memorabili come Il sergente nella neve, Il bosco degli urogalli, Storia di Tönle, Quota Albania, Arboreto salvatico, Stagioni. I motivi per leggerlo sono moltissimi. Abbiamo provato a enumerarne dieci.
L’appassionata difesa della natura
Rigoni ripeteva spesso l’avvertimento di Giacomo Leopardi: L’uomo che distrugge la natura taglia le radici del proprio futuro. Presupposto indispensabile per amare e difendere la natura è la conoscenza – sosteneva – l’ambiente naturale dovrebbe essere studiato sin dai primi anni di scuola. I più giovani non devono abituarsi al deserto e al grigiore del cemento, devono sapere che un altro mondo è possibile.
Il suo libro Arboreto salvatico, racchiude capitoli ognuno dedicato a un albero diverso, dove la conoscenza naturalistica si intreccia a storie di guerra, di caccia, di passioni umane e letterarie.
Rigoni spiegava che della natura dovremmo cogliere parte dell’interesse senza intaccare il capitale. La sua difesa dell’ambiente, con l’invito a fermare il consumo di suolo, la diffusione della plastica, l’inquinamento dell’acqua e dell’aria, è più attuale che mai.
Una scrittura chiara, poetica e antiretorica
La qualità letteraria del suo stile venne compresa e apprezzata subito da Italo Calvino, sin dalla prima lettura del dattiloscritto del Sergente nella neve. Colse bene l’originalità di un testo che amalgamava concretezza e incalzante ritmo narrativo, con un sorprendente lirismo.
E verso la fine della sua vita, nelle Lezioni americane, Calvino sostenne ancora una volta la bellezza e la necessità di una lingua chiara e fluida, ricca di vocaboli e priva di retorica, concreta e comunicativa. Come quella del narratore di Asiago.
Rigoni racconta le sue storie con parole nitide, comprensibili ma precise, specialmente quando si tratta di descrivere la storia e la natura.
Il suo narrare segue il passo sicuro dell’uomo che cammina per le montagne, ha un andamento ritmico, musicale perfino. Dava grande importanza a due qualità della scrittura: la precisione e la chiarezza lessicale. Pensava che perseguirle fosse un dovere di lealtà e di verità verso i lettori, la sobrietà e l’assenza di enfasi un dovere di serietà verso sé stessi.
Era una volontà stilistica consapevole e ragionata, non a caso invitava a far leggere nelle scuole il breve saggio dell’amico Primo Levi Dello scrivere oscuro, contenuto nel libro L’altrui mestiere. Un testo in cui Levi sostiene la bellezza e il valore civile della scrittura chiara.
L’etica civile
Rigoni Stern pensava che la nostra esistenza, inevitabilmente destinata a finire, avesse un senso solo se vissuta con dignità e sobrietà, affiancando l’amore per la libertà al senso di responsabilità verso gli altri. Quando incontrava i ragazzi delle scuole, Rigoni Stern li incitava a leggere e a giocare all’aria aperta, e a non perdere tempo in cose futili: Mettete passione in tutto ciò che fate; ragionate con la vostra testa e imparate a dire di no; siate ribelli per giusta causa, difendete sempre la natura e i più deboli; non siate conformisti e non accodatevi al carro del vincitore; siate forti e siate liberi, altrimenti quando sarete vecchi e deboli rimpiangerete le montagne che non avete salito e le battaglie di civiltà che non avete combattuto.
Le sue pagine sono un antidoto alla superficialità, alla banalizzazione dei problemi e del linguaggio; un invito alla conoscenza e all’esercizio della ragion critica, sempre e comunque.
Il dovere della memoria
Mario Rigoni Stern e i suoi amici Primo Levi e Nuto Revelli avevano attraversato le peggiori tragedie del Novecento restando integri, immuni dal cinismo e dalla rassegnazione. La memoria come un dovere: Dobbiamo ricordare, anche se facendolo torneranno incubi e orrore, sia per dare voce a chi è scomparso in guerra o nei lager sia perché valga come monito per il futuro.
All’inizio Rigoni ne sente l’urgenza e la necessità per dare voce ai dimenticati, ai tanti giovani rimasti tali per sempre, perché scomparsi in guerra e in prigionia. Poi, sempre di più, il dovere della memoria diviene monito per il futuro.
Perché se ciò che è stato non viene raccontato e ricordato, quelle tragedie potranno ripetersi. Senza retorica e prediche, raccontando i fatti; per capire l’orrore è necessario conoscere la storia. E non dimenticarla.
Per rileggere i classici
Quando si parlava con Rigoni nel suo arboreto salvatico, il boschetto che aveva piantato nel corso degli anni attorno alla sua casa in Valgiardini, gli piaceva stimolare l’interlocutore a riprendere in mano i classici della letteratura europea e non solo. I racconti di Anton Čechov, La steppa su tutti; La morte di Ivan I’lic, I cosacchi, Guerra e pace di Lev Tolstoj; Addio alle armi di Ernest Hemingway; Tifone e Lord Jim di Joseph Conrad; La guerra nel Peloponneso di Tucidide e l’Anabasi di Senofonte.
E poi la poesia: la Divina Commedia di Dante Alighieri e Primavera e fiore della lirica italiana a cura di Giosuè Carducci, nelle piccole edizioni Hoepli e Sansoni che Rigoni portava nello zaino negli anni dell’addestramento alpino e della guerra; Giacomo Leopardi, Giuseppe Ungaretti, Garcia Lorca, i poeti russi del Novecento, Pasternak ed Esenin su tutti, ma anche Thomas Eliot e la sua Terra desolata.
L’ultimo classico letto da Rigoni mentre, colpito da un male incurabile stava aspettando la fine, fu L’idiota di Fëdor Dostoevskij. Forse per ritrovare un passo del libro con le riflessioni del condannato a morte prima di salire sul patibolo, secondo lui un appassionato inno alla vita:
Gli restavano da vivere cinque minuti, non di più. Egli diceva che quei cinque minuti gli erano parsi interminabili, una ricchezza enorme. Gli pareva che in quei cinque minuti avrebbe vissuto tante vite, che per il momento non bisognava ancora pensare all’ultimo istante, cosicché prese varie risoluzioni: calcolò il tempo occorrente per dire addio ai suoi compagni, e per quello stabilì due minuti, altri due minuti per pensare un’ultima volta a sé stesso, e poi per guardarsi intorno un’ultima volta. […] L’incertezza e la repulsione per quella nuova cosa che sarebbe diventato, e che stava per sopraggiungere, erano orribili, ma egli diceva che in quel momento nulla era stato più penoso del pensiero incessante: se potessi non morire, se potessi far tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto questo sarebbe mio! Io allora trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno.
Montagne e orizzonti lontani
Rigoni nasce tra le montagne aspre e dolci dell’Altipiano dei Sette Comuni: Cima Portule, la più amata, Cima Caldiera e Cima XII, Monte Fior e Castelgomberto, Piz Levico e il passo Vezzena. Ma aveva conosciuto e amato anche le montagne e le valli delle Alpi Occidentali: la Grivola, le Grandes Jorasses, il Mont Dolent, il Monte Bianco, il Gran Paradiso, i piani del Nivolet, la Rosa dei Banchi, le cime della Val Formazza e della Val Soana. La lettera dell’11 luglio 1930 nella quale racconta agli amici lasciati ad Asiago la sua scalata alla Grivola è un vero e proprio récit d’ascension; la descrizione dell’ascesa e del paesaggio sono particolarmente evocative. Viveva la montagna come immersione nella natura, desiderio di libertà e di ampi orizzonti, tensione e coraggio nella salita, quiete e infinito silenzio nelle notti stellate.
Ma delle sue montagne vanno ricordate anche quelle della privazione della libertà e della sofferenza, quelle dell’ultimo lager dei suoi venti mesi di prigionia in Austria, tra i boschi e le montagne della Stiria. I prigionieri, di varia nazionalità, lavorano nell’imponente miniera a cielo aperto scavata sul monte Erzberg. Del lager 12A/60 oggi resta solo una baracca, chiusa e abbandonata; nulla ricorda quei giorni: né un monumento, né un libro, né una targa. La cittadina più vicina alla miniera, Vordernberg, è graziosa e linda come allora, quando la vita scorreva tranquilla accanto a sopraffazioni e abusi.
Il coraggio di dire no
La sua etica del coraggio è un valore per nulla scontato. Coraggio e senso di responsabilità nel guidare i settanta uomini del suo plotone attraverso la steppa immensa e gelata durante la ritirata di Russia; coraggio nel dire no a chi, dopo l’8 settembre, avrebbe voluto arruolarlo nella Repubblica Sociale di Mussolini, dando l’esempio agli altri commilitoni e pagando quel diniego con venti mesi di prigionia nei lager tedeschi, insieme a tanti altri giovani soldati italiani; coraggio nel difendere la natura e l’ambiente del suo altipiano e di altre montagne. Per Rigoni, la viltà, l’esercizio della forza nei confronti dei più deboli, è la colpa peggiore di cui possa macchiarsi un essere umano.
Il senso dell’amicizia
È noto il legame di Rigoni con Primo Levi e Nuto Revelli, durevole nei decenni e forte di convinzioni ed esperienze comuni. Tre uomini che avevano attraversato le peggiori tragedie del Novecento, uscendone irrimediabilmente feriti ma integri nell’animo. Meno noto ma importante il rapporto con gli amici di gioventù, quasi tutti scomparsi nel conflitto mondiale, mai dimenticati. Dal primo, Rino, il più caro, compagno di giochi tra le strade di Asiago e disperso dopo la battaglia di Nikolajewka, agli amici dell’addestramento tra le Alpi Occidentali: Raoul Achilli, che gli recitava a memoria Jacopone da Todi, e che muore anch’egli a Nikolajewka, Renato Chianale che voleva portarlo sul Monviso a guerra finita, e che cade in Russia combattendo con il battaglione Cervino, e Arno De Monte, grande scalatore, ucciso a bastonate dalle SS perché, sudtirolese, si era rifiutato di entrare nella Wermacht dopo l’Armistizio.
Un libro da riscoprire: Quota Albania
Quota Albania è il libro meno letto di Mario Rigoni Stern, forse per il titolo, certo non evocativo come Il sergente nella neve o Il bosco degli urogalli, ma lo scrittore era particolarmente affezionato a quest’opera.
Rigoni racconta le sue peripezie tra due fronti di guerra: le Alpi Occidentali, nel giugno del 1940, quando Mussolini decise di attaccare la Francia e le montagne albanesi, tra l’autunno dello stesso anno e la primavera del 1941.
Si tratta di un’opera scritta con compattezza e scorrevolezza narrativa, forse uno degli esiti letterari più alti del suo stile. In quelle montagne desolate e innevate, Rigoni supera la sua linea d’ombra, acquisisce maturità e consapevolezza. I paesaggi e il mondo naturale che lo circondano si amalgamano alle vicende di guerra determinando un risultato unico e originale nel panorama narrativo del nostro Novecento.
Un mondo senza confini
La casa e l’arboreto salvatico di Mario Rigoni Stern non sono recintati. Il piccolo gruppo di alberi, abeti, larici, tigli, frassini, betulle, sequoia, piantati da Mario e dai suoi figli nel corso dei decenni sono aperti verso la strada sottostante e il bosco dietro casa. Tönle, il protagonista di uno dei suoi libri più noti, è un uomo in fuga per necessità e per amore di libertà, tra l’altipiano e i paesi che un tempo componevano l’Impero Austro-Ungarico. C’è una pagina di Lord Jim, di Joseph Conrad, che illustra bene il senso dell’etica civile di Rigoni e della sua insofferenza per muri e confini: Non importa dove ci si trovi. La virtù è la stessa in tutto il mondo, e c’è una sola morale, una sola condotta di vita, un solo modo di morire. È una visione aperta e tollerante del mondo, c’è la consapevolezza di essere tutti parte di un’unica umanità, di essere tutti compaesani quando si condividono valori come la generosità, il coraggio, la sobrietà, il senso di giustizia, l’amore per la ragione e per la libertà.