Tutto, in Dino Campana, è leggenda, vince la legge dell’ebbrezza, vige una specie di angusta agiografia, l’artigliata del mito. In sostanza, è tutto, per lo più, reso al frantoio del frainteso. Così, il personaggio Campana ha finito per sostituire, malauguratamente, il poeta; l’Orfeo di Marradi ha preso il posto dei Canti Orfici, il “libro” assoluto del secolo. Campana è stato, di volta in volta, eroe da romanzo – nel libro di Sebastiano Vassalli, La notte della cometa, ad esempio – e icona di brutti film – Un viaggio chiamato amore (2002), con Michele Placido alla regia –, amante selvaggio (l’infoiato di Sibilla Aleramo) e matto, l’uomo elettrico di Castel Pulci. Il tutto tenendo a premurosa distanza un’opera unica: prenderla sul serio – e non come un repertorio di folgoranti ‘mattane’ – avrebbe significato riformulare i canoni della poesia italiana del Novecento. Se Dino Campana è “uno dei pochi davvero grandi del nostro Novecento” (così Edoardo Sanguineti in Poesia italiana del Novecento, Einaudi, 1969), l’iniziatore del canone ‘inverso’ della nostra lirica (rispetto alle linee consolidate, aperte da Ungaretti-Montale-Saba), oscuro bombarolo del linguaggio, lettore barbarico che rifugge dagli infingimenti letterari non in virtù di una presunta ingenuità ma di una geniale presunzione dello sguardo ‘all’infinito’, oltre il metronomo dell’ombelico, del cuore, dell’anima in ghiaccio, i nostri giudizi letterari vanno scardinati.
Ghiannis Ritsos
Lo Scandagliatore

Dino Campana – “il solo esempio radicale, nella poesia novecentesca, di un’arte tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie”, Sanguineti – è il punto di scaturigine, il Mosè e il profeta, di una genia di ribelli al linguaggio che tiene insieme, in ordine sparso – per dire –, Onofri, Boine e Rebora, Lorenzo Calogero e Dario Villa, Ivano Fermini e Alessandro Ceni. Non avanguardisti, bensì lirici inadempienti ai modi del mondo, immondi alle mode, spesso nutriti di letture aliene – additare a ‘provinciale’ uno come Dino Campana, lettore di Whitman e Nietzsche, di Baudelaire, di Edgar Allan Poe e di John Ruskin, fu avventatezza da provinciali. In questo senso, la critica letteraria ha da lavorare con la cazzuola e il martello.

Ma tutto è frainteso quando si parla di Dino Campana. Il gadget del ‘poeta pazzo’, l’etichetta da “Rimbaud italiano” (Sanguineti) per non dire da “Rimbaud della Romagna” (così Paolo Toschi nel 1926), il poeta “passato come una cometa” (Cecchi) hanno arricchito le chiacchiere minando l’assunzione critica. Un significativo istrionismo del caso ha fatto sì che una delle fotografie più divulgate di Dino Campana non gli appartenga: raffigura un compagno di classe, Filippo Tramonti, poi cancelliere di tribunale. L’ultimo appello del Centro studi di Marradi “per rimuovere la foto dal web” è stato diffuso dal “Corriere Fiorentino” il gennaio scorso. Dino Campana pare sempre sfuggire a chi vuole circoscriverlo in aggettivi, immagini, giudizi.

Così, fino a ieri Campana era additato a poeta per lo più ottocentesco, dannunziano (la tesi, in sintesi, di Pier Vincenzo Mengaldo, che chiude le paginette dedicate a Dino nei Poeti italiani del Novecento con una battutaccia: “Probabilmente si può dire di lui quello che Debussy disse – a torto – di Wagner: che era un tramonto che poté sembrare un’alba”). Ci è voluto lo studio trentennale di Gianni Turchetta per avere un degno ‘Meridiano’ Mondadori a raccogliere L’opera in versi e in prosa di Dino Campana, strumento decisivo (son quasi duemila pagine) per leggerlo come si deve, così com’è. Molti poeti con l’alloro si sono nutriti dell’orfico canto di Campana (Eugenio Montale – “In lui nulla fu mediocre”, scrisse in un saggio del 1942 – e Mario Luzi tra gli altri). Giovanni Boine ne riconobbe il timbro immediato, inaudito (leggendo Campana, scrisse nel 1915 su “La Riviera Ligure”, “entri in un’atmosfera d’ansia, sei a balzi via trascinato di là dai confini del tuo consueto andare, chissà dove, chissà dove per disperazioni d’irrealtà”); Bino Binazzi, nel 1922, sul “Resto del Carlino”, trasse dal precipizio di Campana un monito:

“Povero Campana! Chissà chi, fra tutti, sia il pazzo? Egli è in fondo un tradito dalla vita e dagli uomini. Troppo vasta fu la sua visione e troppo anguste le strettoie, ove la meschinità altrui lo costrinse. La sua fatica fu ultra-umana; e la sua angoscia non ha limiti”.

Quell’anno, in altri luoghi, con altri esiti, uscivano La terra desolata di Eliot e l’Ulisse di Joyce. Libri destinati, come si dice, ‘a fare la storia’. Campana, inesausto al proprio tempo, inesauribile, deve ancora compiere la propria storia. Nasce oggi.

Lei apre il ‘Meridiano’ dedicato a Campana con una asserzione che pare provocatoria: “ancora aspettiamo una sua serena assimilazione al canone della poesia italiana del Novecento”. A cosa si deve l’ispida solitudine critica attorno a Campana? Ricordo che Edoardo Sanguineti, tuttavia, nella folgorante Poesia italiana del Novecento, aveva issato Campana nel cuore del canone. Non è forse lui, al di là della nota trimurti – Saba-Ungaretti-Montale – l’eroe di un canone ‘alternativo’ della nostra lirica, il cui ‘effetto’ è più pervasivo di quanto non appaia?

Non credo che la mia affermazione sia provocatoria. Mi pare abbastanza evidente che Campana non è stato assimilato in modo sereno e organico alle interpretazioni più consuete della nostra storia letteraria e conseguentemente non ha ancora trovato una serena collocazione nei manuali del triennio delle superiori. Certamente questo è avvenuto per svariate ragioni. La prima è sicuramente una ragione di tipo culturale: Campana ha una formazione decisamente atipica rispetto a quella più consueta dei nostri letterati, una formazione Internazionale, fondata su vastissime letture dei testi originali, complessivamente non ben decifrata dalla maggior parte degli intellettuali italiani. Certo ha poi influito in negativo l’interpretazione, solo apparentemente ovvia, della sua biografia in chiave di maledettismo, un’interpretazione che ha confuso il territorio, ostacolando una rigorosa lettura formale dei suoi testi e schiacciando Campana sulla sovrapposizione tra poesia e follia: stereotipa, e di fatto profondamente fuorviante. Infine, da questo punto di vista mi pare che la critica abbia fatto troppa fatica a cogliere nei procedimenti della sua poesia, e soprattutto nella proliferazione capillare dei procedimenti di ripetizione, non una dissoluzione dei significati (come ipotizzato più per ragioni biografiche che per un’attenta lettura dei testi), ma, tutt’al contrario, una tecnica a suo modo rigorosa di costruire significati molto complessi e sfumati, ad alta densità, dove la dimensione verbale si fonde organicamente con la costruzione sonora, diciamo pure con la musicalità.

“Canti Orfici”: un titolo al contempo leopardiano e profetico (penso ai Sonetti orfici di Rilke). Le chiedo dunque: come dobbiamo intendere l’orfismo di Campana?; in che senso Campana è leopardiano?

Direi che dobbiamo anzitutto intendere l’orfismo di Campana come aspirazione a un sapere assoluto, di natura intuitiva e irrazionale, una specie di misticismo laico, che ha al centro la poesia come strumento di una conoscenza superiore. In questo senso, l’orfismo campaniano si riallaccia al recupero della tradizione magica ed esoterica avviato col Romanticismo e proseguito con il Simbolismo: Novalis, Nerval, lo stesso Rimbaud. Su questa linea l’Orfismo si incontra con la sperimentazione avanguardistica. Per altri versi, è vero, Campana è profondamente leopardiano: ma il suo leopardismo ha ben poco della dimensione “orfica”. La dimensione di verità assoluta e irrazionale, portante nella poesia campaniana, mette radici nel Romanticismo, ma è molto lontana dal peculiare Romanticismo di Leopardi, intriso profondamente di razionalità illuministica. Se può servire una formula: Campana è un nietzschiano coerente, e come tale non è illuminista. Per molti altri aspetti, tuttavia, la poesia di Campana è tutta intrisa di Leopardi, che funziona, insieme a Dante, come il principale raccordo con la tradizione poetica italiana. Per Campana, Leopardi è inoltre anche un esemplare modello di moralità, una moralità che fa tutt’uno con la vocazione rigorosa alla poesia. D’altra parte, proprio la dedizione alla poesia permette di mettere in scena l’indefinito, la lontananza, se vuole anche l’infinito e la grandiosità del cosmo. In questo penso che Campana debba molto a Leopardi. Campana ha inoltre assimilato in profondità e ripreso con rigore e originalità proprio la musica leopardiana, intesa anche in senso strettamente tecnico, come metrica: l’analisi dei testi evidenzia una presenza costante, profondissima, del modello della canzone libera leopardiana, cioè di una libera alternanza di endecasillabi e settenari, con una presenza assai variabile della rima. In questo senso va dato un peso davvero molto considerevole alla presenza leopardiana, che compare un po’ dovunque nella poesia campaniana.

Gioco con le W doppie. Ergo: in Campana agisce, per ammissione, la forza di Walt Whitman – ma anche quella di Wagner. Come questi due ‘titani’ entrano nell’immaginario di Campana?

Comincio da Wagner, che certo ha contato molto come suggestione musicale, e anche con la poetica del Gesamtkunstwerk (Opera d’arte totale), in linea con una prospettiva di rimescolamento di parole, musica e immagini. Inoltre Campana condivide con Wagner e Nietzsche l’idea della necessità di un incontro fra la Kultur tedesca e la Civilisation francese, e più in generale fra la dimensione della mediterraneità, del Meridione, e quella della germanicità o del Nord, con cui deve convivere. Sappiamo però che Campana legge molto presto (in tedesco) gli scritti tardi di Nietzsche, dove Wagner viene attaccato duramente: certamente li apprezza, ed è probabile che ne derivi qualche tratto di critica al wagnerismo e alle sue mitologie: si legga per esempio una lettera all’amico Aldo Orlandi, dove parla di “paradisi asfittici wagneriani”. Il discorso su Whitman è ancora più complesso, perché il grande Bardo americano è per Campana un modello capitale, come dichiarato più volte, e come testimoniato in modo inequivocabile dalla scelta di usare versi di Whitman per l’epigrafe finale dei Canti Orfici. Ricordiamo anche che Leaves of Grass è l’unico libro che Campana porta con sé in Argentina. Per il Meridiano ho ristudiato a fondo la presenza di Whitman nella memoria poetica campaniana, una presenza molto più capillare di quanto non si sia finora notato, come si può vedere nelle note. Whitman comunica a Campana la profonda esaltazione di fronte alla inesauribile varietà e bellezza del mondo. Anche quel tanto di profetico che troviamo nei Canti Orfici ha molto di whitmaniano, così come l’aspirazione a un rinnovamento complessivo dell’Uomo: come si legge alla fine di Pampa, in un contesto non a caso americano: “l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio”. Ancora, c’è molto di whitmananiano nella costante messa in scena di un io che cammina per il mondo e si sforza di renderne la dinamica molteplicità, che lo entusiasma: a suo modo, anche Campana scrive un Song of Myself. C’è infine una profonda sintonia con Whitman anche nell’atteggiamento di chi attribuisce grandissima importanza alla poesia, specialmente alla propria, come diretta espressione della sua vita stessa, della sua creaturale corporeità; nella sua poesia, come ci dice parecchie volte, Campana lascia letteralmente il sangue, “the boy’s blood”, che sono non a caso le ultime parole del Libro della vita.

A tratti, Campana pare il Gauguin della poesia italiana. Il poeta che ritorna al bosco, tenta il ‘selvaggio’ per innovare le forme liriche? È così?

L’ostentazione della primitività, che fa tutt’uno con la possibilità di cogliere l’origine, quindi, di nuovo, una dimensione di verità assoluta, è certo una mitologia fondamentale della cultura del tempo, una mitologia che ha avuto un peso molto notevole fino ai nostri giorni. D’altro canto, se lasciamo da parte il folklore e le ostentazioni biografiche (come il fatto che Campana stesso si definisce e a volte si firma, “uomo dei boschi”), si tratta largamente di un mito, che rischia di essere a sua volta fuorviante. La poesia di Campana è incredibilmente intrisa di cultura letteraria, ma anche pittorica e filosofica: l’evidenza di un fittissimo tessuto di citazioni non può essere in nessun modo sottovalutata. In questo senso, Campana è tutto tranne che “selvaggio”. D’altro canto, è vero che Campana rimette in gioco alla radice la materia culturale iniettandovi la forza di un’esperienza vissuta travolgente e certo molto particolare, che fa saltare le convenzioni nel profondo. L’effetto di rivitalizzazione del linguaggio poetico è innegabile. Ma è frutto di una miscela molto originale di raffinata cultura e esperienza vitale, che piega la cultura in forme nuove e inattese: non certo di una regressione pre-culturale.

…ma: è davvero andato in America Latina Campana?

Certo che ci è andato! Sono davvero molto cervellotici e un po’ capziosi i dubbi avanzati sulla verità del viaggio in Argentina, nientedimeno che da Giuseppe Ungaretti. Ma i documenti a nostra disposizione, pur non offrendoci una certezza assoluta, ci portano comunque molto vicini alla certezza. Abbiamo infatti un Registro dei Passaporti da cui risulta che il padre di Campana, Giovanni, ritira un passaporto per Buenos Aires intestato a suo figlio Dino nel settembre del 1907 (allora i passaporti si rilasciavano per destinazioni specifiche). Ci sono poi le testimonianze di suo zio Torquato e del fratello Manlio, che lo hanno accompagnato a Genova fino alla nave e lo hanno visto partire. Gli eredi possiedono poi delle carte che certificano l’indirizzo della famiglia italiana di Buenos Aires, amica dei Campana, da cui Dino si è recato (raccomandato e con una lettera di accompagnamento che chiedeva di farlo lavorare in farmacia per le sue competenze universitarie in Chimica), salvo poi sparire dopo appena un paio di giorni. Un notevole dato indiretto sta inoltre nel fatto che dovunque andasse Campana lasciava evidenti tracce burocratiche del suo passare, documentate dalle carte a nostra disposizione: fermi di polizia, arresti, fogli di via. Ebbene, dal settembre 1907 (si noti bene, cioè da pochi giorni dopo il rilascio del passaporto) fino al marzo 1909 non c’è più nessuna traccia di Campana né in Italia né nel resto d’Europa: una circostanza a dir poco sorprendente. Siamo dunque pressoché sicuri che in quel periodo Campana non fosse in Europa. Infine, non abbiamo neanche cominciato a prendere in considerazione l’evidente fondatezza delle rappresentazioni campaniane del viaggio e poi della vita in Argentina: in particolare, quelle relative al viaggio (soprattutto in Viaggio a Montevideo, ma anche in altri testi, come la più antica poesia del Quaderno intitolata Buenos Aires) e al suo lavoro come sterratore per la costruzione della ferrovia nella Pampa, di cui ci parla nel brano omonimo, già citato. Ci vuole più fantasia a immaginare Campana che si procura una bibliografia sull’argomento (e dove poi? In Europa difficilmente l’avrebbe trovata in biblioteca, sono libri argentini…) che ad ammettere, come pare inevitabile, che sta parlando di un’esperienza vissuta direttamente, che ha lasciato in lui ricordi intensi e profondi, come del resto mostrano i testi. L’unica ragione per dubitare del viaggio argentino è il pregiudizio su quanto racconta un uomo che è morto in manicomio. Ma quello che racconta Campana è quasi sempre vero.

Nel lungo peregrinare sulle tracce di Campana, nel perpetuo indagare, che cosa l’ha sorpresa di più? Qual è l’episodio nella vita di Campana che ha avuto per lei il senso di una rivelazione?

Studio professionalmente Campana dal 1982. In tutti questi anni sono molte le scoperte fatte, ma faccio fatica a dare a qualche episodio una specie di primato, appunto come di una “rivelazione”. Molte cose certamente emergono dalle lettere, dove il poeta si mette a nudo e alle volte ci rivela aspetti illuminanti, in modo più o meno volontario. Trovo per esempio rivelatore quanto scrive in una lettera a Prezzolini del gennaio 1914: “io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato.” Qualche anno prima, nel 1910, in una lettera alla rivista «La difesa dell’arte», aveva scritto: “Io sono un uomo ancora inedito”. Siamo al limite del lapsus: evidentemente erano inediti i suoi testi, non lui stesso come “uomo”… Campana sente di essere poeta vero, ma sa anche, lucidamente, che per essere “poeta” fino in fondo è necessario essere riconosciuto come tale dalla comunità letteraria, dai cosiddetti “detentori del gusto”. Vive però questa condizione con drammatica radicalità, come se dalla pubblicazione dipendesse la sua stessa esistenza: “per provarmi che esisto”. Sono parole che mostrano l’intensità e profondità sconvolgenti con cui Campana vive la poesia, facendola tutt’uno con se stesso. Se non capiamo bene questo punto faremo fatica a cogliere in maniera adeguata quanto siano per lui psicologicamente terribili le vicende riguardanti i suoi testi, a cominciare dallo smarrimento del manoscritto di Il più lungo giorno, quanto possano andare a incidere direttamente e dolorosamente sulla sua vita affettiva. Voglio però aggiungere un altro episodio della vita di Campana che molto raramente è stato letto nella maniera corretta, cioè come un elemento sdrammatizzante: la pubblicazione stessa dei Canti Orfici, grazie a una sottoscrizione di amici a Marradi. Anzitutto, non sono pochi i grandi libri del Novecento pubblicati a pagamento e in modo avventuroso; in questo senso, il mitico libro di Campana non è affatto un’eccezione. Non è questo il punto: dobbiamo invece piuttosto prendere atto che non ci sono stranezze dovute alla pazzia dell’autore e alla sua condizione precaria, nei primi decenni del secolo era normale che le cose andassero così. Anche Gli indifferenti di Moravia, tanto per fare un esempio davvero molto lontano, è stato pubblicato a pagamento… Sarebbe il caso semmai di rendersi conto che non è affatto così scontato che in un paese come Marradi ci siano poco meno di cinquanta persone che tirano fuori dei soldi per far pubblicare un libro di poesia! Possiamo escludere drasticamente che avessero tutti capito l’importanza del Libro di Campana. Però forse, nonostante tutto, egli aveva fra i suoi concittadini più amici di quanto non ci dicano la vulgata e lui stesso, parlando sempre, in modo stereotipo, della persecuzione e della solitudine del genio incompreso. Ci vorrebbe un po’ più di equilibrio e di attenzione ai dettagli, cioè alla realtà concreta, per leggere le vicende, evitando di trasformarla in storielle consolatorie…

Vengo a uno dei momenti capitali: Soffici perde il manoscritto del Più lungo giorno. Eppure, pochi anni prima, aveva scritto una tonante biografia su Rimbaud. Come si coniuga una quasi pregiudiziale affinità con i ‘maledetti’ alla spavalda cecità nei confronti del “Rimbaud italiano”?

Temo che non ci sia molto da capire: Soffici era un uomo intelligente, colto, aperto alla cultura internazionale, che conosceva come pochi, specie per le sue frequentazioni parigine; ma era anche snob, presuntuoso, tutto centrato su se stesso, certo del tutto distaccato dai problemi altrui e men che meno a quelli di uno sconosciuto che gli portava un libro. Chissà quanti altri gliene capitavano… Di Campana e del Più lungo giorno non gli importava granché, insomma: questo basta sicuramente a spiegare la sua mostruosa, comunque stupefacente distrazione. Sono certo che perse il manoscritto non per qualche complicazione psicologica (come l’invidia per un poeta di fatto più bravo di lui), ma semplicemente per indifferenza, orribile superficialità, disinteresse. Non so fino a che punto ci fosse affinità fra di loro, a parte, certo, la comune partecipazione a un contesto artistico e culturale: in questo Soffici rappresentava, per Campana e per molti altri, un punto di riferimento, specie per la tempestività e la competenza con cui scrisse di avanguardie, di Futurismo e Cubismo, come pittore oltre che come studioso. Ma penso proprio che Soffici… non si sia mai accorto di affinità fra lui e il povero Campana. Solo quando i Canti Orfici sono usciti ha recitato la parte di chi era ammirato dalla loro poesia (forse un po’ lo era davvero) e ha poi messo in piedi il colorito ritrattino di Campana che leggiamo nei suoi ricordi: ma non ci vuole particolare sensibilità o finezza interpretativa per cogliere nelle parole di Soffici un atteggiamento sprezzante, con tratti di malcelato cinismo, l’atteggiamento, è evidente, di un ricco aristocratico verso un poveretto venuto dalla provincia, che gli pareva un poco tollerabile cafone e evidentemente gli faceva un po’ schifo. Questa è la questione centrale. Aggiungiamo poi che Campana, anche se nei suoi testi ci sono non poche citazioni testuali da Rimbaud, non lo amava affatto, come ha scritto più volte: i suoi poeti francesi di riferimento erano Baudelaire e Verlaine, assolutamente non Rimbaud. Campana, inoltre, ha poco a che fare con la poetica del Maledettismo, cui non ha mai aderito. È vero che ha vagabondato tanto, ma, al di là di questa somiglianza biografica, sul piano letterario il paragone con Rimbaud è davvero molto vago. Con ogni probabilità Campana lo avrebbe rifiutato con sdegno.

In tanti subodorano il genio di Campana – penso a Boine, poeta che sarebbe giusto, per eccessivo talento, far riemergere dall’oblio – ma chi davvero crede nei Canti Orfici, imbracciandolo come un libro decisivo?

Inizialmente forse solo il suo amico Luigi Bandini, detto Gigino, intellettuale marradese di notevole spessore, autore di testi filosofici. Gigino fu il promotore della sottoscrizione per la pubblicazione del Libro di Campana. Campana aveva profonda fiducia in lui, tanto da spedirgli la versione quasi definitiva delle sette poesie dei Notturni dei Canti Orfici, che possediamo appunto nei fogli manoscritti detti Carte Bandini. Certamente credette subito e pienamente nel valore della poesia di Campana anche Federico Ravagli, che a Bologna gli fece pubblicare i primi testi. Dopo l’uscita del Libro, certo quelli che credettero in lui furono un po’ più numerosi, a cominciare da Mario Novaro, che gli pubblicò vari testi su «La Riviera Ligure». Ma avevano grande considerazione di Campana altri liguri, come Boine e Sbarbaro, e altri poeti e artisti, fra i quali Cardarelli e Carlo Carrà. C’erano poi alcuni giovani che già cominciavano a costruire il mito di Campana: Bino Binazzi, Francesco Meriano, Lorenzo Montano, Renato Fondi. Sono, certo, figure di spessore minore, ma già ne avevano una considerazione che sfiorava la venerazione e certo ebbero un ruolo importante nell’avviarne la fama. Dobbiamo comunque sottolineare come fu Attilio Vallecchi, con l’edizione del 1928 (Canti Orfici ed altre Liriche. Opera completa, con prefazione di Bino Binazzi), a tramandare di fatto la poesia di Campana alla generazione degli Ermetici, che ne fece un riferimento imprescindibile: Bargellini, Fallacara, Luzi.

Il mito del ‘poeta pazzo’: ha giovato o ‘maledetto’ la ricezione critica di Campana?

Gli ha enormemente nuociuto, non c’è dubbio, e non è ancora finita. Molti critici, a cominciare da Papini, semplicemente non lo hanno preso in considerazione perché lo hanno identificato con il suo squilibrio e soprattutto con la tragica vicenda dell’internamento definitivo. Altri hanno continuato a scrivere interventi magari anche di livello, ma visibilmente sempre influenzati da resistenti pregiudizi sulla mancanza di controllo, sulla perdita di significato, sulla scarsa consapevolezza, sulla cultura “vecchia”. L’elenco sarebbe lungo. Ma è chiaro che sono ancora ricadute della troppo resistente mitologia del poeta pazzo, pericolosa anche quando viene virata al positivo, con l’immagine, pure fuorviante, del mistico trascinato all’assoluto dal demone della poesia, che farebbe tutt’uno con la follia. Sono davvero convinzioni pervicaci, che ignorano in gran parte l’evidenza dei dati filologici e testuali, dai quali si può vedere bene come Campana scrivesse seguendo una cosciente progettualità. Aggiungo inoltre che quando stava male non riusciva a scrivere: quindi, non Poesia e Follia, ma Poesia o Follia. Quando la Follia si affermava, la Poesia non esisteva più. Anche questo Campana lo ha segnalato varie volte, con una lucidità e un equilibrio che sarebbe bello ritrovare anche nei suoi critici…

Chi rimane vicino a Campana durante i lunghi, lunghissimi anni dell’internamento a Castel Pulci? Campana si occupa dei Canti Orfici, chiede mai notizie delle sue poesie?

Non sono moltissime le persone che andavano a trovarlo. Anzitutto, sua madre, che pure era stata l’oggetto primo delle sue pulsioni aggressive. Suo padre invece non ebbe mai il coraggio di andarlo a visitare in manicomio. Comunque, Dino non gradiva molto le visite e certo le scoraggiava. Fra le poche persone che lo andarono a trovare nei lunghi anni di Castel Pulci ci sono il fratello Manlio, lo zio Torquato, il cugino Raffaello “Lello”, Leonetta Cecchi Pieraccini, l’amico pittore Primo Conti, il critico Fernando Agnoletti. Molto recentemente abbiamo poi scoperto, attraverso la pubblicazione del carteggio fra Conti e Corrado Pavolini (pubblicato nel 2023, per le cure di Marcello Verdenelli e Costanza Geddes da Filicaia), che c’era anche chi, come Pavolini, gli scriveva in manicomio, chiedendogli pareri su vicende culturali: non sappiamo però se Campana abbia mai risposto. Per molti anni Campana pare avere un atteggiamento di rifiuto nei confronti della sua poesia, come sappiamo già dalla fine degli anni Trenta dai resoconti dello psichiatra Carlo Pariani, che lo guida in una specie di commento a tutta l’edizione Vallecchi del 1928. Sono dichiarazioni comunque utilissime, anche se Pariani ha lo sguardo un po’ angusto di un medico positivista. Infine, nelle due lettere inviate nel 1930 a Bino Binazzi e al fratello Manlio, in un periodo in cui sta meglio, tanto da far addirittura ipotizzare un suo ritorno alla vita libera.

Ultima. Qual è la poesia di Campana che continua a emozionarla, che vale innumeri riletture?

Sarà banale, ma io continuo a emozionarmi leggendo La Chimera, con la sua straordinaria progressione finale. Vorrei però ricordare anche un piccolo gioiello al di fuori dei Canti Orfici,Donna genovese, che ci fa ben capire come per Campana le donne fossero anche tramite per la felicità, non solo per la sofferenza. Lo mostra anche uno dei più incredibili passi di tutto Campana, il finale del paragrafo 19, e penultimo, di La Notte, la cosiddetta “sinfonia in viola”. Davanti a passi del genere mi domando come sia possibile non riconoscere che siamo davanti a un grande, grandissimo poeta.

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