Tutti amano disquisire sul punk, a freddo. Tutti si sono ampiamente nutriti dell’estetica punk, che troneggia come fosse sempre fresca nei grandi archivi dell’immaginario contemporaneo. E gli stilisti a corto di idee, i costumisti di Hollywood in crisi d’ispirazione, i romanzieri di fantascienza, gli sceneggiatori di serie televisive noir, i giovani musicisti che si ostinano a rinnovare disperatamente il rock, tutti hanno facoltà di pescare in quel solaio di fine anni Settanta, di ripassare alla moviola Jello Biafra, di analizzare i prolissi testi di Steve Ignorant, ma ovviamente nessuno è disposto a dare credito al ragionamento punk, assolutamente grossolano, schematico, ottuso. In effetti, il punk come sintomo, è uno dei temi prediletti degli avvenenti critici della cultura. Un tipo con la colla nei capelli, la maglietta strappata, cicatrici sulle braccia, anelli vari lungo il padiglione auricolare, e altri segni distintivi come gli immancabili anfibi a punta rinforzata di metallo, è ancora oggi bene accolto presso qualche brillante saggista, se accetta di sdraiarsi sul lettino, nello studiolo con i volumetti di Foucault e Žižek in bella vista. Un marcio portatore di sintomi, non più giovane, da un lato, che blatera con la voce roca, e un giovane e silenzioso analista, dall’altro, a sbrogliare la matassa, a glossare finemente. Il minimalismo ideologico del punk, invece, è stato uno dei suoi punti di forza maggiori. Magnifica, inattacabile, tetragona contropropaganda. Nulla da decifrare, tutto chiarissimo e da prendere in faccia come un ceffone. Di esperti della complessità sottile, gente molto qualificata e plurilingue, ma che parla solo a ragion veduta, ne abbiamo pieni gli studi televisivi e le redazioni dei giornali. È la controparte rassicurante di tutti coloro che sbraitano per erigere forche ai quattro angoli del paese. Quelli sbraitanti tengono bene la piazza, ma uomini e donne della complessità sottile tengono i posti di comando. Di fronte alla poche idee confuse di chi sbraita, e alle tante idee confuse di chi argomenta, la modalità punk proponeva pochi concetti chiari, calati in una veste espressiva devastante. Prendiamo i Discharge, uno dei gruppi più fragorosi del punk inglese fine anni Settanta. Tempo dell’enunciato: due minuti e quindici secondi. Componenti materiali: chitarra, microfono, batteria, basso, sistema di amplificazione. Idee: una. Espressione che veicola l’idea: frase di cinque parole, Free speech for the dumb (“Libera parola per i muti”). Livelli di lettura: due. Il primo metaforico e politico con riferimento a situazioni storicamente determinate: libera presa di parola per coloro le cui vite non contano. Il secondo letterale e millenaristico: i muti finiranno per parlare. La frase-slogan è urlata quattro volte di fila in due momenti della canzone, per un totale di otto ripetizioni del medesimo concetto. Qualsiasi velleità di controbattere a un così grezzo argomentare, introducendo sottigliezza e complessità nel discorso, è completamente impedita dalla quantità di frastuono con il quale i musicisti proteggono l’idea semplice da possibili minacce dialogiche. Per dialogare bisognerebbe venire sotto il palco, nel carnaio dei corpi che scalciano e si tuffano da ogni parte, arrampicarsi sulla scena, e strappare il microfono al cantante per urlarci dentro una brillante e circostanziata replica. Tutto ciò in un concerto punk è qualcosa che si può sempre tentare, a patto di non temere il dolore fisico. L’efficacia contropropagandistica del punk mi sembra che non abbia preso una ruga, e la immagino applicata ad un talk-show attuale, di fattura francese però, più civilizzato di quelli italiani, dove gli sbraitanti si sbracciano sulle sedie come colpiti da scossa elettrica, no, penso a un talk-show che predilige gli esperti di complessità sottile e dove tutti siedono su degli sgabelloni da discoteca, intorno a un tavolo trasparente di forma organica, con delle pareti traslucide alle spalle. Sono i talk-show di seconda serata, con ospiti più o meno fissi, in generi plurisessantenni, che io definisco “teste di morto”, perché senza neanche farlo apposta, senza averci pensato espressamente sul piano del trucco e dell’arredo, o dei consigli di regia, è assolutamente evidente che si tratta di programmi di propaganda con zombie, dove tutti parlano con voce trattata, ma dalla medesima fossa, con il pensiero corporeo completamente spento, e un pensiero giornalistico, afferente a una centralina elettronica ultima generazione, perennemente attivo, monotono, sottile, complesso. In circostanze tali, immaginatevi il semplice esperimento mentale. Una sera, assieme alle teste di morto, vengono invitati in studio i componenti dei Discharge, non quelli di oggi, invecchiati e resi più sottili anche loro, ma quelli del primo album, giovanissimi, per partecipare a un dibattito sulla libertà di espressione. Ognuno degli invitati ha un quarto d’ora di tempo di parola. I Discharge, che sono in quattro, se ne stanno quieti per tutta la prima parte del programma, esibiscono silenziosamente le loro creste, i giubbotti chiodati, e tutto il resto. Poi decidono di prendere anche loro la parola. Per due minuti e quindici secondi, non di più. Si spostano in un angolo dello studio, dove hanno sistemato batteria, chitarre e amplificatori. Infilano i jack e la base ritmica comincia la sua corsa frastornante, il chitarrista cerca di imitare con un certo successo cosa può accadere in un’acciaieria quando tutto comincia ad andare storto, il cantante si è già tuffato sul tavolone di vetro che spero a questo punto sia infrangibile. Free speech free speech for the dumb!!! Free speech freee speech for the dumb !!!, ecc. La cosa dura davvero poco, però qualche testa di morto si è preso una pedata sullo sterno, ci sono cose in pezzi sparse per terra, uno degli invitati sta chiamando polizia e pompieri, gli altri si sono messi al riparo, e protestano indignati con tecnici e truccatori, con le mani ancora tremanti dallo spavento. Non è stata un’agressione fascista, solo un esempio di contropropaganda punk con tutti i crismi. Certo, siamo nella società dello spettacolo, ci ricorda l’avvenente critico della cultura, tutto viene recuperato. Ma un equivalente dei Discharge nei talk-show della sottile complessità non credo che funzionerebbe. Forse gli spettatori risponderebbero positivamente, ma non le teste di morto, loro non si presterebbero al gioco, non ce la farebbero, anche per ragioni di semplice paura animale. Quanto agli sbraitanti italiani, la loro propensione cinetica non farebbe che eccitare ancora di più la furia degli interlocutori punk. Come è noto a chi ha conosciuto il circolo virtuoso della poga (danza punk poco raffinata), più la musica pesta più uno si getta a toro sui corpi vicini, e più il pogatore è spintonato e calpestato più l’adrenalina gli regala la forza per rendere la pariglia. Prima del sangue e delle contusioni, in genere la musica cessa. È anche una delle ragioni della brevità dei componimenti punk. Bisogna salvaguardare, per quanto possibile, l’integrità del pubblico e del cantante.
[da Materiali per un libro su Parigi] – da Nazione Indiana