L’altro giorno in libreria ho scoperto che Einaudi ha pubblicato un nuovo libro di Kawakami Hiromi, narratrice cinquantaseienne di Tōkyō. Un supercorallo dalla copertina molto elegante: ritrae una ciotola nera senza spigoli poggiata sopra una superficie rosso acceso che la riflette, con una decorazione sul coperchio che s’intravede; le passa davanti un ramoscello che sembra di pesco, con fiori bianchi; lo sfondo nero si dissolve nel bianco, una luce opaca che cala dall’alto.
Un paio di anni fa ho letto La cartella del professore, il primo libro di Kawakami edito da Einaudi, sempre tradotto da Antonietta Pastore, precedentemente uscito sotto forma di graphic novel nella traduzione di Vincenzo Filosa per Rizzoli Lizard. Non l’ho mai dimenticato. Quando ho visto in libreria questo Le donne del signor Nakano l’ho subito preso, pagato e portato a casa.
Sulla quarta di copertina c’è una citazione da «L’Indice dei libri del mese»: «Era ora che, accanto ai mondi interiori di Ogawa Yoko e a quelli surreali di Murakami Haruki, vi fosse spazio per la sublime leggerezza di Kawakami Hiromi».
Quei tre nomi messi lì insieme, non sarà una grande coincidenza ma mi hanno ricordato che poco dopo aver letto La cartella del professore avevo letto anche La formula del professore, cioè proprio un libro di Ogawa Yoko (edito dal Saggiatore). Era successo forse anche per la consonanza dei titoli, e comunque sia avevo preso degli appunti, ripensando pure a due racconti di Ogawa che avevo letto prima dei due romanzi, e ai romanzi di Murakami Haruki, che leggo con regolarità da qualche anno.
Per prima cosa mi ero trascritto due passaggi da La formula del professore:
«Non appena arrivai a casa, io e Rūto ci mettemmo subito al lavoro. Io tagliavo la bustina con le forbici e mio figlio ne estraeva il contenuto per esaminarlo. Era l’unica cosa da fare, ma unendo le nostre forze ed eliminando i passaggi inutili riuscimmo a progredire con precisione in quel lavoro. In un breve lasso di tempo acquistammo un’abile tecnica per maneggiare le figurine. Rūto arrivò addirittura a distinguere i diversi tipi al tatto.» (p. 176)
«Il professore sistemò l’asse da stiro accanto alla poltrona e si mise subito al lavoro. Era sorprendente che sapesse alla perfezione cosa fare: da come estrarre il filo elettrico e accendere il ferro a come regolare la temperatura. Allargò la tovaglia, da buon matematico la divise in sedici parti uguali, che stirò poi a una a una. Spruzzò due volte con il vaporizzatore, avvicinò la mano al ferro per controllare che non fosse troppo caldo e lo posò sulla tovaglia. Lo teneva ben stretto in mano e lo faceva scivolare con prudenza, attento a non rovinare il tessuto, ma sempre con un certo ritmo. Aggrottava la fronte, allargava le narici e controllava bene che le pieghe fossero sparite come lui voleva. In quel gesto si intuiva gentilezza, decisione e perfino amore.» (p. 180)
Notavo che la trama di quel libro è semplice e sembra pretestuosa. Questo succede non solo in Ogawa. La cartella del professore di Kawakami è incantevole e ispirato come un lungo canto, e ciò a partire da una base piana: una trama evanescente che non crea aspettative di sviluppi, tutt’al più li fa temere. Una donna ormai matura rincontra un suo vecchio professore, i due riaprono un dialogo e cominciano a condividere delle abitudini – la principale consiste nel pasteggiare accompagnando il cibo con lunghe dosi di sake (la consumazione del cibo è un elemento centrale in entrambi i libri di Kawakami; se La cartella del professore celebra il sake, Le donne del signor Nakano si concentra sui rāmen e il pollo).
L’arte del racconto di Kawakami non sta nell’incalzare il lettore appellandosi alla sua curiosità e stupendolo; lo irretisce con altre armi, spostando il fuoco su microdinamiche, eventi che non muovono la storia e la trama del racconto, ma arricchiscono la scenografia. La narrazione di Kawakami tratteggia una fenomenologia della quotidianità, che sovverte la quotidianità, la elegge e la porta all’attenzione. La leggerezza di cui parla quel passaggio riportato in quarta di copertina consiste nello spazio che è donato ai dettagli, dettagli di situazioni ordinarie che smettono di essere banali perché a notarle è un personaggio consapevole, l’eroe del romanzo.
I due libri di Kawakami, e La formula del professore di Ogawa, raccontano più la postura dei loro personaggi che delle storie indimenticabili. Anzi, se le storie diventano indimenticabili è proprio per come i loro personaggi le hanno vissute e cioè, mi ripeto, consapevolmente, dando dignità a tutto ciò che accade. Lo stesso vale all’incirca anche per i libri di Murakami, ed è ciò che fa sì che non mi scocci quando mi accorgo di ricordare a fatica anche solo una trama delle sue. Che si racconti un personaggio positivo o un personaggio spregevole, ogni cosa nominata è toccata dalla grazia solo in virtù del fatto che è nominata. Lo scrittore la nomina, la cosa si mostra come “nascente”: così la vede il lettore. Ciò avviene quando si affida un potere straordinario alla parola. La parola nobilita il mondo. Questo è il senso della poesia, se non la si giudica come un genere letterario, ovvero se la si intende come una tensione, un’intenzionalità, un’intenzionalità che ricrea il mondo ripetendolo in uno sguardo. Quando anche un romanzo sa compiere questo miracolo, allora la trama perde d’urgenza e i confini tra i generi decadono con giustizia.
Le donne del signor Nakano si svolge prevalentemente in un «negozio di roba vecchia», la bottega del signor Nakano, e racconta le vicende di un gruppo di personaggi gravitanti attorno a Hitomi, la giovane protagonista. Giorno dopo giorno, fatto dopo fatto, nello scorrere ordinario degli eventi nasce un amore. La voce del romanzo, Hitomi, al tempo presente (ma la seconda parte dell’ultimo capitolo volge emblematicamente al passato) registra la nascita di questo amore come farebbe un sismografo, avvertendo le più leggere oscillazioni, descrivendole, non chiosandole.
Ciò che manca nella prosa di Kawakami e in quella di Ogawa (ma ci infilo dentro pure Murakami) è l’interpretazione dei fatti narrati. Manca del tutto la pretesa stessa di interpretare. Nei romanzi di Kawakami, per limitare il discorso, non c’è affanno nel cercare soluzioni, non si prefigura una verità nascosta dall’intrico dei fatti e dei pensieri. Fatti e pensieri vengono lasciati su uno stesso piano nella loro qualità di fenomeni. Accadono, la voce li registra. Il dualismo non c’è, ma nel senso che un piano non supera mai l’altro, il pensiero non sovraccarica la realtà, né si verifica il rischio che la realtà possa mangiarsi il pensiero, il piano spirituale, con una capriola del pensiero stesso. Non c’è campo per lo spiritualismo né per il materialismo. La sapienza è messa in scacco. La sapienza mistificatoria, la ragione che illude la coscienza di poter agire irreversibilmente e tornare sui fatti scoprendo la presunta legge che li sottendeva.
C’è un “motto” (suo malgrado) di Wittgenstein, chiarissimo. Forse lo fraintendo, sicuramente lo piego a favore del mio discorso; ad ogni modo dice: «non pensare, guarda!». E questo fa la voce di Kawakami: descrive, chiarisce, registra i fenomeni. E ogni fenomeno che registra è un evento, perfino il crrr della carta stagnola posata sul tavolo quando un leggero spostamento d’aria la muove.