No, è vero. Se avessi detto o scritto: “il sentimento amoroso”, questo sarebbe già suonato più serio, perché avrebbe fatto appello a qualcosa di importante nella psicologia del XIX secolo. Ma la parola “amore” è maneggiata da tutti, è in tutte le canzoni, e amour può far rima con toujours come tutti sanno. Allora, evidentemente, parlare dell’“amore”, così, non sembra serio.

 

È un libro molto personale, ma vi domina tuttavia un riferimento: il Werther di Goethe. Questo romanzo, che scatenò la famosa ondata di suicidi “alla Werther” è del 1774. Non ci sono dunque più, oggi, grandi romanzieri dell’amore.

Ci sono, certo, delle descrizioni di sentimenti amorosi, ma è molto raro che il romanzo contemporaneo descriva una passione. Almeno non ne ho il ricordo.

 

L’amore è fuori moda?

Sì, senza alcun dubbio. L’amore è fuori moda negli ambienti intellettuali. Dal punto di vista dell’“intellighenzia”, di quell’ambiente intellettuale che è il mio, in cui io vivo, di cui mi nutro… e che amo, ho avuto la sensazione di fare un atto di scrittura abbastanza fuori moda.

 

Ma al di fuori di questo ambiente intellettuale?

C’è anche un sentimento popolare che si esprime nelle osservazioni, negli scherzi, nelle battute salaci. Questi svalutano il soggetto innamorato che viene assimilato a un lunare, a un folle. Bisogna però dire che le svalutazioni enormi di cui soffre l’amore sono quelle imposte dai linguaggi teorici. O non ne parlano affatto, come il linguaggio politico, il linguaggio marxista, o ne parlano con sottigliezza, ma in maniera riduttiva, come la psicoanalisi. Che cos’è questa “svalutazione” di cui oggi soffre l’amore? L’amore-passione (quello di cui ho parlato) non è “ben visto”; lo si considera come una malattia di cui bisogna guarire; non gli si attribuisce, come una volta, un potere di arricchimento.

 

Questo innamorato “svalutato” chi è, ora che non lo si riconosce più dal “costume di Werther”?

Sì, l’abito blu e il gilet giallo…

 

Come fare? Da che cosa lo riconosce lei?

Perfidamente, dirò che ho scritto il libro per poterlo riconoscere. Per ricevere delle lettere e delle confidenze che mi permettano di pensare, ora, che ci sono molti più soggetti amorosi di quanti non pensassi…

 

E se non le scrive?

Non si riconosce esteriormente. Perché nella vita urbana attuale non c’è più nessuna delle pose dell’innamorato patetico.

 

Per “pose” intende la scena del balcone, per esempio? “Giulietta abita al venticinquesimo piano, non c’è più un Romeo…” Era in un’anti-canzone d’amore, poco tempo fa.

È questo. Non c’è più la scena del balcone. Ma non si ha neppure più la morfologia dei tratti dell’innamorato, le sue espressioni, la sua mimica; laddove nel XIX secolo c’erano certe litografie, certe pitture, incisioni, che lo rappresentavano. Quindi non si può riconoscere un innamorato per la strada. Siamo circondati da esseri di cui non possiamo sapere se sono innamorati, perché se lo sono si controllano enormemente.

 

Di fronte al suo innamorato c’è l’“oggetto amato”. Perché questa curiosa espressione di “oggetto amato”?

Prima di tutto per una ragione di principio: il sentimento amoroso è un sentimento unisex, come i jeans e i capelli, adesso. Ai miei occhi è molto importante.

 

Per lei l’innamorato eterosessuale e l’innamorato omosessuale amano allo stesso modo?

Penso che si ritroverà esattamente la stessa tonalità nell’uomo che ama una donna, nella donna che ama un uomo, nell’uomo che ama un uomo e nella donna che ama una donna. E quindi ho avuto cura di sottolineare il meno possibile la differenza dei sessi. Purtroppo la lingua francese non facilità questo genere di esercizio. L’“oggetto amato” ha il vantaggio di essere un espressione che non prende posizione sul sesso di chi ama.

 

Ma “oggetto” si oppone così a “soggetto”?

Sì. È inevitabilmente un oggetto. Non lo si vede affatto come soggetto. “Oggetto” è la parola giusta, perché indica la spersonalizzazione dell’oggetto amato.

 

Per lei, non è la “persona” dell’altro che si ama?

Credo che questo sia il grande enigma del sentimento amoroso. Perché questo oggetto privato di ogni personalizzazione diventa al tempo stesso la persona per eccellenza, che non si può paragonare a nessun’altra. È quello che la psicoanalisi chiama oggetto unico.

 

Sarebbe allora più giusto dire che si ama un’immagine?

Sicuramente. Non si è innamorati che di un’immagine. Il colpo di fulmine, quello che si chiama “invaghimento”, si compie attraverso un’immagine.

 

Al limite, attraverso una “vera” immagine? Una fotografia di «Playboy».

C’è da domandarselo. Ma direi di no comunque. Perché l’immagine che ci rapisce è un’immagine viva, un’immagine in azione.

 

Come quella di Carlotta che taglia le tartine per i fratelli, nel Werther…

Sì. Aggiungerei, prudentemente, che la passione non conosce limiti. Un essere può innamorarsi perdutamente di una fotografia. Ma in generale il meccanismo del colpo di fulmine non scatta su un’immagine priva di qualunque contesto: bisogna che sia “in situazione”.

 

Ecco il suo innamorato “rapito”… è quello che un sondaggio dell’anno scorso chiamava il “grande amore”. E una maggioranza impressionante di francesi interrogati diceva di “crederci” e che durava tutta la vita. Che ne pensa il suo innamorato?

Risponderebbe “sì”, certo, alla domanda del “grande amore”. Ma “tutta la vita”? Esito. Implica un ottimismo che non è nel soggetto innamorato come io l’ho simulato. Per lui l’espressione “tutta la vita” non ha senso. È in una sorta di assoluto del tempo. Non fraziona il tempo lungo tutta una vita da prevedere…

 

Nella vita amorosa di questo soggetto, fra le “figure” che descrive, la sofferenza ha una parte importante. È così presente che si ha l’impressione che l’innamorato quasi non ne rifugga granché.

Infatti, la sofferenza è assunta da lui come una sorta di valore. Ma nient’affatto nel senso cristiano. Al contrario: come una sofferenza pura da ogni colpa.

 

Come reagisce a questa sofferenza?

Tenderebbe ad accettare questa sofferenza, senza accettare la colpevolezza.

 

Il dispiacere d’amore sembra dunque inevitabile?

Sì, credo che sia inevitabile. O meglio, direi che il sentimento amoroso si definisce appunto così: perché la sofferenza è inevitabile. Ma si può sempre immaginare che il sentimento possa trasformarsi…

 

E cessi di essere amoroso?

È il più grosso problema, su cui il libro si ferma. Il buon senso dice che c’è un momento in cui bisogna staccare “essere innamorati” e “amare”. Si lascia da parte “essere innamorati”, con il suo corteggio di lusinghe, illusioni, imprese tiranniche, scenate, difficoltà, addirittura suicidi… per accedere a un sentimento più pacificato, più dialettico, meno geloso, meno possessivo.

 

Lei ha evocato la gelosia. Nei romanzi come indubbiamente nella vita, la sofferenza più spettacolare è legata alla gelosia. Non nel suo libro.

Sì, se ne è accorto, nel mio libro questa figura cardinale della passione è molto breve. Ho persino pensato di sopprimerla…

 

Perché le è estranea?

No, non mi è estranea, al contrario. Ma è un sentimento che, benché vissuto atrocemente, non si radica nella mia esistenza. In realtà non ho idee sulla gelosia. Sì, ho le idee di tutti. Ed è la sola figura per cui non ho dato una definizione personale. Mi sono contentato di riprodurre quella del Littré, perché è perfetta. Gelosia: “sentimento che nasce nell’amore e che è prodotto dal timore che la persona amata preferisca qualcun altro”. È, tra tutte le figure, quella che mi dà la maggior impressione di banalità.

 

Tutti sono gelosi?

Direi – mi cimenterò con delle parole grosse – che è un movimento di ampiezza antropologica. Nessun individuo al mondo è privo di certe ondate di gelosia. E non mi sembra possibile essere innamorati, neppure nella maniera lassista e rilassata come oggi si può immaginare lo siano i giovani, senza che alla fine, in certi momenti, la gelosia non attraversi il sentimento amoroso.

 

Lei è scettico su questi tentativi di “rilassamento”?

Sì. Vivo tra amici più giovani di me, molto spesso sono stupefatto per quella che, a prima vista, è un’assenza di gelosia nei loro rapporto, e mi dico che io stesso, in una data situazione, sarei terribilmente geloso. Mi stupisco, li ammiro molto per come condividono i beni sensuali, i beni sessuali, i beni di coabitazione, sembra, senza grossi problemi. Se li si guarda vivere con più attenzione ci si accorge però che tra loro ci sono dei moti di gelosia. In effetti, un innamorato che non fosse geloso – stavo per dire: sarebbe il mistico per eccellenza; ma no, appunto: abbiamo testi mirabili in cui il mistico testimonia di una certa gelosia, nei confronti di Dio e nei confronti degli altri. No: sarebbe, letteralmente, un “santo”.

 

In mancanza – se posso dire così – di essere gelosi, si può amare più di una persona per volta?

Credo che, per un certo tempo, in ogni caso, si possa. Si possa… e penso anzi che sia un sentimento – per usare un termine classico – delizioso. Sì, un sentimento delizioso immergersi in un clima di amori molteplici, di flirt generalizzato – dando a “flirt” una certa forza.

 

Solo un certo tempo?

Non credo che possa durare molto quella sovranità che danno investimenti multipli. Perché per l’innamorato c’è un momento in cui la cosa si cristallizza.

 

Ed è la fine dello “sfarfallamento”, o del volteggiamento?

Sì, dal momento in cui l’innamorato è sprofondato nella passione, il volteggiamento è escluso. Il volteggiamento dell’altro lo fa soffrire orribilmente, e lui stesso non ha più voglia di volteggiare.

 

È il rapporto tirannico di cui parlava poco fa…

Sì. L’innamorato si sente dominato, imprigionato, sequestrato dall’oggetto amato. Ma, in realtà colui che ama esercita anche lui un potere tirannico su colui che è amato. Non è divertente essere amato da qualcuno che è innamorato… Suppongo che non sia divertente.

 

Dunque niente amore senza scontro, senza rapporto di forze, lotte, vittorie, sconfitte?

L’innamorato lotta per non essere assoggettato. Ma fallisce. Constata con umiliazione, e talvolta con delizia, di essere interamente assoggettato all’immagine dell’amata. E d’altra parte, nei momenti buoni, soffre molto per non assoggettare l’altro; cerca di non farlo.

 

È quello che lei chiama il “non voler sequestrare”. È la soluzione?

Sì. La soluzione ideale è di porsi in uno stato di non voler sequestrare. È una nozione ripresa dai filosofi orientali. “Non sequestrare” l’oggetto amato, e lasciar circolare il desiderio. Nello stesso tempo non “sublimare”: dominare il desiderio per non dominare l’altro.

 

È quindi, se non un programma, almeno una proposta?

Sì è una proposta. Forse un’utopia…

 

Verso un nuovo mondo amoroso…

Sì, è così.

 

Ma questo nuovo mondo amoroso sarebbe tutt’altra cosa, suppongo, dalla “sessualità liberata” di cui si parlava tanto dieci anni fa Si ha l’impressione che oggi ci sia una reazione a quelle ideologie. Che ci sia una diffidenza nei confronti del desiderio. Lei colloca il suo libro in questa corrente o controcorrente?

Sì, in certo modo lo situo in questa corrente. Il punto comune è che l’essere innamorati permette una distanziazione dalla sessualità.

 

E dal desiderio?

C’è del desiderio nel sentimento amoroso. Ma questo desiderio è deviato, e si orienta verso una sessualità diffusa, verso una sorta di sensualità generalizzata.

 

Che cosa direbbe dell’erotismo in questo rapporto?

È complicato parlare dell’erotismo, diciamo, “riuscito”. Mettiamo delle virgolette perché la riuscita dipende da ogni soggetto. Non ci sono ricette. Un erotismo “riuscito” è un rapporto sessuale e sensuale con l’essere che si ama. Questo, comunque, succede. Ed è qualcosa di così bello, così buono, così perfetto, così sconvolgente, che a quel punto l’erotismo stesso è una sorta di accesso a una trascendenza della sessualità. La sessualità resta nella pratica, e più grande è l’erotismo più questa pratica è acuta. Ma c’è un plusvalore sentimentale a far sì che l’erotismo sia completamente staccato da ogni pornografia.

 

L’Impero dei sensi è un film d’amore?

Sì, direi che è un film d’amore. Forse non ne sono stato molto toccato, per ragioni mie personali. Ma è un film bellissimo. L’esempio stesso del film d’amore…

Ecco l'Impero dei sensi, regia di Nagisa Ōshima, 1976

Ecco l’Impero dei sensi, regia di Nagisa Ōshima, 1976

 

All’innamorato, nel suo libro, lei contrappone il dragueur

Sì, bisogna contrapporre due tipi di “discorso”, in senso lato: quello dell’innamorato e quello del dragueur. Le pratiche del “rimorchio” non coincidono affatto con le pratiche molto ascetiche del soggetto innamorato, che non si sparpaglia nel mondo, che resta imprigionato con la sua immagine.

 

Ma l’innamorato non è anche dragueur?

Sì, appunto. Vi sono dei dragueurs che rimorchiano per trovare di chi essere innamorati. È anzi un caso tipico. Negli ambienti omosessuali, in ogni caso, dove il rimorchio è molto diffuso, si può benissimo rimorchiare per anni interi, spesso in maniera inevitabilmente sordida, attraverso i luoghi stessi che questo obbliga a frequentare, con in realtà l’idea invincibile che si troverà di chi essere innamorati.

 

Contrariamente a don Juan, il cui piacere è proprio “tutto nel cambiamento” e che non cessa di correre di paese in paese, di donna in donna…

Per me, in effetti, don Juan è il tipo del draguer, con la sua famosa lista: “mille e tre”. È la stessa divida del dragueur. Sa, i dragueurs si scambiano spesso le informazioni. E le loro conversazioni si riportano sempre a delle liste…

 

Oltre agli innamorati e ai dragueurs, ci sono gli accasati, i sistemati

Sì. Una volta parlavo con un amico che mi diceva che in italiano “accasato” di dice sistemato. Avevo trovato molto bello che invece di dire: “un tale si è accasato”, “un tale è sposato”, si potesse immaginarlo “sistemato”, preso in un sistema…

 

Ma parlare di persone “accasate” non è un termine da dragueur?

Non avevo pensato a questo. Sì, forse. Perché, in realtà, il dragueur e l’innamorato sono a uguale distanza rispetto agli “accasati”. Sono entrambi in una marginalità rispetto alla coppia installata. Entrambi esclusi.

 

Nel suo libro, in ogni caso, è piuttosto la coppia che è esclusa…

Sì, è vero. Tuttavia ho fatto una “figura” sull’Unione, alla fine. Ma, perché non dirlo, non avevo esperienza personale di questo tipo di unione. E quindi non avevo il linguaggio per descriverla. Ma non è una presa di posizione…

 

L’innamorato pensa in termini di coppia?

Penso che la coppia sia sempre all’orizzonte. La scelta del libro era quella di un soggetto innamorato che non è amato. Ma certo pensa continuamente a esserlo, quindi a formare una coppia. Direi anzi che ha solo questo desiderio.

 

All’altro estremo della scena ci sarebbero quelli che, secondo i vocabolari, si chiamano i “devianti” o i “perversi”. Sono altrettanto assenti che la coppia istallata. Il suo innamorato, a volte, dà l’impressione di parlare in vece loro.

No. Il soggetto innamorato non parla per procura per gli altri devianti. Per una ragione essenziale: è deviante rispetto ai devianti. Nel senso che è meno rivendicativo, meno contestatario…, meno glorioso. Rispetto ai problemi dell’omosessualità c’è una conseguenza importante: se si parla di un o una omosessuale innamorato o innamorata, la parola importante non è “omosessuale” è “innamorata/o”. Mi sono rifiutato di tenere, da vicino o da lontano, un discorso omosessuale. Non per rifiutare di vedere la cosa, non per censura, o per prudenza, ma per questa ragione: che il discorso amoroso non ha più rapporto con l’omosessualità che con l’eterosessualità.

Scena dal film Il grande Gatsby, regia Laz Luhrmann, 2013

 

L’innamorato è dunque deviante rispetto ai “devianti”, deviante rispetto ai “desideranti”. Ma fra questi non c’è guerra?

Credo di no. Credo che siano pianeti molto diversi. Cosa forse non più allegra…

 

Venere ai desideranti, e gli innamorati sulla Luna! Che dà loro, forse, quell’aria stupida. È lei che scrive: “che cosa c’è di più stupido di un innamorato?” … Che cosa lo rende stupido?

È che si trova in quella che chiamo la “de-realtà”. Tutto quello che il mondo chiama la “realtà” la sente come illusione. Tutto quello che diverte gli altri, le loro conversazioni, le loro passioni, le loro indignazioni, tutto questo gli sembra dereale. Il suo “reale” è il suo rapporto con l’oggetto amato, e i mille incidenti che lo attraversano – proprio ciò che il mondo considera la sua “follia”. Con ciò stesso, a causa di questo rovesciamento, si sente prigioniero di un cocente inadattamento. E, nella pratica, ha infatti dei comportamenti, dei piccoli gesti che, agli occhi del buon senso, sono idioti…

 

Asociale, è anche apolitico. Lei scrive più precisamente che non “si eccita” più per la politica. Ma non è un modo per dire che non ne fa più, che per lui non conta più?

No, tengo a questa sfumatura. Perché la sento profondamente. Un soggetto umano funziona su più lunghezze d’onda. Può continuare a ricevere le onde politiche. Ma quello che non capisce più è che ce ne si possa investire passionalmente. Non è “depoliticizzato” nel senso che non è fondamentalmente indifferente a quello che avviene politicamente. Ma si è fatto una gerarchia dentro di sé. E trova del tutto straordinario che ci si possa, appunto, “eccitare” per quelle cose.

 

Si è tentati di contrapporre al “desiderante rivoluzionario” di ieri il suo “innamorato decontratto”, decontratto come il liberalismo… Lei assume questa contrapposizione?

Sì, l’assumo. Il soggetto innamorato è esso stesso il luogo di un investimento forsennato. Allora si sente escluso dagli altri investimenti. Il solo essere umano di cui potrebbe sentirsi complice, sarebbe, esclusivamente, un altro innamorato. Purtuttavia: è vero che gli innamorati fra loro si capiscono! Ma un militante politico è, a modo suo, innamorato di un’idea, di una causa. E la rivalità è insostenibile. Per l’uno come per l’altro. Non penso che un militante politico sopporterebbe bene un innamorato pazzo.

 

Vedo però un’ambiguità, il suo innamorato è veramente “intrattabile”, “irrecuperabile”, e, in questo senso, sovversivo? Oppure è, per qualunque sistema, tranquillo e inoffensivo?

È un marginale. Ma, come ho già detto, modesto, non glorioso. La sua marginalità non si vede. Non è rivendicativa. In questo senso è veramente “irrecuperabile”.

 

Ma, lo dice lei stesso: una sera su due, alla televisione, si dice: “ti amo”. C’è dunque una “promozione” dell’amore da parte dei media. Come può essere che la cultura di massa diffonda “dell’amore”, se è asociale e pericoloso?

È una questione più difficile. Infatti: perché la cultura di massa sviluppa tanto i problemi del soggetto amoroso? In realtà, quello che mette in scena sono dei racconti, degli episodi, non il sentimento amoroso in sé. È forse una distinzione un po’ sottile, ma ci tengo molto. Ciò significa che, se lei mette un soggetto innamorato in una “storia d’amore”, con ciò stesso lo riconcilia con la società. Perché? Perché raccontare fa parte delle grandi costrizioni sociali, delle attività codificate della società. Con la storia d’amore la società ammansisce l’innamorato.

 

Se la capisco bene il suo innamorato è sovversivo ma la Marchesa e gli angeli è conformista?

Esattamente. E per questo, del resto, ho preso delle precauzioni draconiane perché il mio libro non fosse una “storia d’amore”. Per lasciare l’innamorato nella sua nudità; nella sua situazione di essere inaccessibile alle forme abituali di recupero sociale: in particolare al romanzo.

 

Non è il lavoro di un romanziere: è il libro di un semiologo. È il libro di un innamorato. Non è un essere bizzarro, un “semiologo innamorato”?

Ma no! L’innamorato è il semiologo selvaggio allo stato puro! Passa il proprio tempo a leggere segni. Fa solo questo: segni di felicità, segni di infelicità. Sul viso dell’altro, nei suoi comportamenti. È veramente in preda ai segni.

 

Dunque il proverbio mente: l’amore non è cieco…

L’amore non è cieco, al contrario ha una potenza di decifrazione incredibile, che dipende dall’elemento paranoico che è in ogni innamorato. Un innamorato, come lei sa, coniuga estremi di nevrosi e psicosi: è un tormentato e un pazzo. Vede chiaramente, ma il risultato è spesso lo stesso che se fosse cieco.

 

Perché?

Perché non si sa né dove né come fermare i segni. Decifra perfettamente, ma non sa fermarsi su una certezza di decifrazione. Viene ripreso in un circolo perpetuo, che niente viene mai a placare.

 

Vengo a una domanda che ho voglia di porle sin dall’inizio: questo libro da innamorato, lei era innamorato quando lo ha scritto?

(sorriso) È una domanda a cui fino a oggi ho sempre rifiutato di rispondere. Alla fine… diciamo che il libro è fatto in gran parte sulla base di un’esperienza personale; in gran parte anche di letture, di confidenze. Per la parte che mi appartiene, l’esperienza che ho utilizzato non è presa da una storia unica. Sono degli stati, dei moti, delle contorsioni che mi sono venuti da più esperienze amorose anteriori. Detto questo – perché non dirlo? – c’è stato un episodio cristallizzatore. Diciamo che ho concepito il libro come un modo per non perdermi, per non piombare nella disperazione. L’ho scritto, le cose erano entrare da sole in una dialettica…

 

Due tempi necessari?

Non avrei potuto certamente scriverlo con la distanza della frase, dello stile, se non avessi io stesso dialettizzato le cose…

 

Non è necessariamente la fine di una storia vissuta che spinge a scrivere?

Direi che il desiderio di scrivere un libro del genere viene in due momenti. O alla fine, perché la scrittura ha un meraviglioso potere di pacificazione. O in un momento di esuberanza, all’inizio, perché si pensa che si scriverà un libro d’amore. Lo si darà, si dedicherà, all’essere amato.

 

Allora, quell’innamorato che parla è ben lei, Roland Barthes?

Le risponderò in un modo che può avere l’aria di una piroetta. Ma non è. Il soggetto che io sono non è unificato. È una cosa che provo profondamente. Allora dire: “sono io!”, sarebbe postulare un’unità di se stessi che io non mi riconosco.

 

Mi permetta allora di porla diversamente. Per ogni figura del libro, una dopo l’altra, dice forse: “Sono io questo”?

Ah!… quando ho fatto un seminario di ricerca sullo stesso soggetto, ho tenuto conto di figure che non avevo provato, che avevo preso nei libri… Ma, evidentemente, è quello che nel libro è saltato. Sì, è sicuro, ho un rapporto personale con tutte le figure del libro.

 

Roland Barthes, davanti a questo “ritratto strutturale” dell’innamorato, si ha spesso l’impressione che lei non solo voglia descrivere ma convincere. Si può dire che sia un libro moderatamente militante, in favore degli “Innamorati Riuniti”?

Militante? Lei mi provoca un po’. È un libro che implica una posizione di valore.

 

E una morale?

Sì, c’è una morale.

 

Che sarebbe?

Una morale di affermazione. Non bisogna lasciarsi impressionare dai deprezzamenti di cui è oggetto il sentimento amoroso. Bisogna affermare. Bisogna osare. Osare amare…

 

Questa intervista, a cura di Philippe Roger, è apparsa su Playboy nel settembre 1977.

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