Il cinema di Fabio e Damiano D’Innocenzo è, oggi, un cinema riconoscibile. Lo è non tanto in virtù di uno stile, quanto per un universo di storie, di personaggi, di volti, che si è arricchito e consolidato progressivamente dai tempi di La terra dell’abbastanza (2018). Lo è, soprattutto, per un tentativo evidente di fare un cinema più audace di quello cui ci ha abituato molto del cinema italiano recente, di lavorare radicalmente sul linguaggio cinematografico anche a costo di correre alcuni rischi. Tutto questo è chiaro sin da Favolacce (2020), un film che ha anche dato il via a un dialogo all’interno della filmografia dei registi e che vede al centro i genitori e i figli, o almeno un certo modo di essere genitori e una certa reazione alla condizione di esserne i figli. Un tema che ritorna in America latina (2021), nel difficile rapporto tra il protagonista – Massimo, interpretato da Elio Germano – e il padre, che lo mette con vergogna di fronte alla propria debolezza.
È proprio questa debolezza maschile, frutto di un’educazione e insieme del suo immaginario, l’altro elemento narrativo che entra in campo nei film dei fratelli D’Innocenzo. In America latina Massimo è disperatamente attaccato a una famiglia o a un ideale famigliare che si rivela fragile, allucinatorio e che nasconde la sua definitiva solitudine. Un personaggio che, retrospettivamente, sembra preannunciare quello di Enzo Vitello, il detective protagonista di Dostoevskij, la serie televisiva (o film lungo) che, dopo il recente passaggio nelle sale cinematografiche, debutterà in autunno su Sky.
Rispetto ai film precedenti, Dostoevskij segna un passo avanti sul piano della sperimentazione con le immagini, ma al tempo stesso si muove a ritroso, ponendo al centro il cinema di genere e solo a partire da esso ricreare l’universo riconoscibile dei due registi. Da subito è chiaro che ci troviamo in un crime. C’è un serial killer, ci sono morti efferate e accompagnate da alcune lettere che descrivono minuziosamente l’omicidio e le sue ragioni (per questo motivo l’assassino viene soprannominato Dostoevskij tra gli agenti di polizia), e che innescano un processo di identificazione tra il detective e il killer. Il detective (Filippo Timi) intuisce subito che il caso è problematico e per risolverlo segue una pista parallela a quella della polizia: un lavoro sotto traccia, in cui l’indagine si mescola con la sua già disperata vita privata. C’è poi un poliziotto giovane e ambizioso (Gabriel Montesi), pronto a rimpiazzare il detective, ma che finirà per essere ossessionato da lui. Infine, c’è il paesaggio di una certa tradizione crime: una serie di non-luoghi desolati, paludosi, oscuri, di spazi aperti illuminati fulmineamente dal crepuscolo e dal tramonto.
In questo senso, con Dostoevskij i fratelli D’Innocenzo tentano di decostruire il poliziesco per continuare a costruire le proprie immagini e, dunque, inserirle con le adeguate consonanze, dissonanze, variazioni, in comunicazione con la loro filmografia. Ecco che allora il genere contiene una serie di regole da tradire per riscoprire in una nuova veste – o in una nuova posizione narrativa – gli elementi e i personaggi dei loro film. Da questo punto di vista, Enzo Vitello rappresenta un’evoluzione del Massimo di America latina, da cui mutua la fragilità e la solitudine, ma che qui è anche un padre che ha abbandonato la propria figlia, cambiandone per sempre il destino. Naturalmente insieme ai padri tornano i figli. Ambra (Carlotta Gamba) porta i segni dell’abbandono di Enzo: la tossicodipendenza, la frequentazione di piccole comunità criminali e l’estremo conflitto con il padre segnano il suo personaggio lungo tutto il racconto. È su questo legame padre-figlia che vengono costruite le scene-chiave, tra le più riuscite di Dostoevskij, in cui l’equilibrio tra regia, scrittura, recitazione e montaggio (di Walter Fasano, già montatore di America latina, il film con cui Dostoevskij dialoga più direttamente) funziona al meglio.
In Dostoevskij i figli sono più di uno, tanto da costruire la città dei figli sbagliati, il centro narrativo ed emotivo in cui il film collassa e che ne sancisce la cupezza senza scampo. Figli che i D’Innocenzo rappresentano come vittime di un intero sistema culturale che ha avvelenato prima i padri e poi loro – come già avveniva, fatalmente, in Favolacce. La reazione a questa relazione familiare e generazionale compromessa si può rintracciare nella scelta finale di Vitello, che lascia uno spazio vuoto, fisico e metaforico, su cui poter costruire un nuovo legame tra un padre e una figlia, svincolato da ogni avvelenamento, libero come lo spazio aperto su cui il film si chiude.
Dostoevskij si richiama al neo-noir contemporaneo (immediati i riferimenti a True Detective), ma anche, in maniera meno evidente, al neo-western di Non è un paese per vecchi, del quale sembra riprendere una componente di bizzarria: in uno dei momenti più belli del film, il capo della stazione di polizia (Federico Vanni) vaga in piena notte alla ricerca del protagonista mentre cerca contemporaneamente il coraggio di scrivere alla moglie. Sono momenti che testimoniano la capacità dei D’Innocenzo di alternare i registri con efficacia, concedendosi sortite in territori insospettabili, ma senza perdere mai il tono principale della narrazione, sempre coerenti con la storia che stanno raccontando.
Tuttavia, accanto e attraverso la decostruzione del genere, è evidente che Dostoevskij miri soprattutto a svincolarsi – come facevano i film precedenti – da una rappresentazione provinciale della realtà italiana, mantenendo al tempo stesso una specificità che lo distingua dalla serialità contemporanea. In parte, questo equilibrio passa dalla ricerca di attori capaci di essere familiari e al tempo stesso stranianti per lo spettatore, se inseriti in una rappresentazione molto diversa da quella del cinema italiano consueto. Il lavoro più importante su questo aspetto, tuttavia, riguarda la rappresentazione del paesaggio e la costruzione dei dialoghi.
L’abbiamo detto: i luoghi di Dostoevskij sono principalmente dei non-luoghi, spazi che l’immaginario cinematografico ci ha insegnato a collocare in alcune zone del Texas o della Louisiana. Anche questo elemento è in continuità con America latina, che mostrava già dal titolo l’intento di creare un collegamento tra il paesaggio americano e quello della periferia laziale, e che qui si traduce in tavole calde e stazioni di servizio abbandonate in luoghi deserti. La stessa rappresentazione dei sobborghi più poveri della periferia, con ville abbandonate, comunità di prostitute, quartieri in mano alle bande, non offrono alcun riferimento specifico alla realtà italiana, ma si collocano in un paesaggio che è soprattutto cinematografico. I dialoghi, soprattutto i primi dialoghi del film, si inseriscono in questa logica, talvolta correndo il rischio di sembrare una parodia della parlata americana; ma resta comunque chiaro il tentativo di porsi in una prospettiva personale. Anche per questo motivo si può passare sopra ad alcune discutibili scelte di messa in scena (l’alternanza tra piano sequenza e inquadrature fisse che vedono protagonista Filippo Timi) e a un titolo forse un po’ troppo ambizioso e denso di rimandi, rispetto alla funzione che ha nel film.
Dostoevskij è un film coraggioso, al quale si concede molto, e proprio in nome del suo coraggio, della libertà e dello spazio che vuole conquistarsi per fare un lavoro nuovo che tenga insieme la specificità del suo universo narrativo e la sperimentazione formale. Forse proprio per questo tornano alla mente alcune domande: quali tra le immagini del cinema di oggi sapranno resistere al tempo? A quali tra queste immagini si potrà tornare nei prossimi anni? Quale tipo di visione e di lavoro sul linguaggio è necessario fare affinché si possano costruire nuovi immaginari? Chi, oggi, questo lavoro è in grado di farlo e quanto e come sa utilizzare con raffinatezza e saggezza il cinema del passato? Lo sanno fare i fratelli D’Innocenzo? Il loro cinema, la sua forma, sarà ancora attuale tra venti, trent’anni?
Sulle ultime due domande sospendo il giudizio e non sento di potermi sbilanciare verso il sì. Oggi la loro è una strada aperta (alcuni hanno già iniziato a percorrerla, come dimostrano fra gli altri Una sterminata domenica di Alain Parroni e Patagonia di Simone Bozzelli), è promettente ma non è ancora consolidata come a prima vista potrebbe sembrare.