Niente si crea, niente si distrugge, tutto si ripete. Il futuro non ha memoria. È un ritorno, un “eterno ritorno”. Uguale e per tutti. Un bacio, un incontro, una sconfitta, sono sempre un bacio, un incontro, una sconfitta. Gli atti restano atti. Tali e quali. La superficie delle azioni è immobile e costante. Continua, anche tra spazi e tempi diversi o lontani. Il cosa ne sarà, può essere declinato solo al presente: cosa ne è. Gli orizzonti richiamati dal fiorentino Festival Fabbrica Europa 2018 (direzione artistica di Maurizia Settembri e Maurizio Busìa) “su cui affacciarsi e scorgere nuovi cammini possibili” appaiono quindi come l’ora, l’adesso, il preciso istante della scelta. Che fare, dove guardare, come agire. Una traiettoria intima e collettiva, umana e tecnologica, che abbiamo seguito passando attraverso la visionarietà multifocale di Re-Mark di Sang Jijia, la libertà eteroguidata di Go Figure Out Yourself di Wim Vandekeybus/Ultima Vez, la glacialità metafisica di Iarna del Teatrul Nottara di Bucarest e la sessualità straniata di Present Continuous di Salvo Lombardo.
Il lentissimamente lento movimento di Carolina Amoretti, Giovanfrancesco Giannini, Isabella Giustina, Claudia Mezzolla, Fabio Novembrini, Pietro Pireddu, Violeta Wulff Mena, Valentina Zappa, ci accoglie da un maxischermo nella navata centrale della Stazione Leopolda di Firenze. Sono seduti, il mondo va al rallentatore, finché uno di loro non guarda dritto in camera e, quindi, nei nostri occhi. Non sono soli. C’è qualcuno che li osserva.
Questo presentimento è la scintilla, l’innesco di Re-Mark, la creazione site specific di danza e multimedia del coreografo di origini tibetane Sang Jijia, allievo, danzatore e assistente di William Forsythe. Si accendono le luci di un ritaglio della navata laterale destra: gli otto danzatori, selezionati ad hoc, sono impegnati in una camminata lunare sui mattoni a vista della parete. È il risveglio, la riappropriazione di se stessi, di ciò che è o è stato prima o fuori della ripresa, ovvero la presenza non limitata all’immagine. Eppure, lo schermo è il (la) fine. Entra in scena un operatore: da qui in avanti li filmerà live ricacciandoli in video. Vigorosi, attenti, luminosi.
Dunque, la nostra visione può essere solo parziale. O vediamo l’azione o vediamo la sua ripresa (regia di Tommaso Arosio). Non esiste una realtà solamente, ne esistono tante, quante le volte che giriamo lo sguardo sull’una e l’altra manifestazione. L’occhio meccanico indaga, scompone, annulla la fisicità della distanza, rende lo sforzo liquido, quasi senza gravità. I nostri occhi, pur essendo due, non possono cambiare piano, campo, messa a fuoco. Riescono a percepire una cosa unica e irriproducibile: il respiro dell’esserci.
Il corpo aumenta le sue capacità nello specifico filmico? La corsa è più corsa? Tutte le fughe, le attese, i pesi e contrappesi conducono, comunque, alla ripetizione del punto di partenza. Il dopo è la prosecuzione fissa del prima: l’inizio che finisce coincide con la fine che riinizia. La vita, la natura, ricominciano daccapo, da zero. Sempre. Sono una coazione a ripetere.
Cammini e Re-Mark ti viene incontro con candore e imponenza nella nuda vastità della Leopolda. Invece, Go Figure Out Yourself di Wim Vandekeybus, uno dei maggiori esponenti della scena performativa internazionale, e della sua compagnia Ultima Vez, ti viene proprio a prendere nel chiuso dello Spazio Alcatraz per “andare a capire te stesso”, come dice il titolo, con un happening collettivo. Sadé Alleyne, Maria Kolegova, Hugh Stanier, Kit King, Tim Bogaerts, attori, danzatori, performer ed entertainer, si danno con grande energia e leggerezza, nella cornice di un’animazione che diverte e coinvolge solo se si accetta, paradossalmente, di rinunciare a se stessi.
Anche in questo caso il pubblico è in piedi. La scena è composta da qualche elemento da trovarobato qua e là a nascondere alcuni fari e da una lampadina calata dentro un paralume, somigliante a una gabbietta per gli uccelli. L’avvio spetta a Tim Bogaerts. Parla a noi di noi, del vuoto che abbiamo dentro e che prosegue fuori. Dappertutto. Ci invita a camminare, a tuffarci in quel nulla che ci accomuna.
Intanto, arriva l’intera compagnia a dargli man forte nel costruire una relazione con gli spettatori del tipo “prendi e lascia”: prendono qualcuno, gli danzano come intorno a un totem o un fuoco, lo lasciano tornare al suo “posto”. Che sia io o te, l’uno o l’altro, non fa alcuna differenza per loro. L’individuo non viene considerato in quanto singolo, espressione irripetibile di sé, ma in quanto rappresentante del gruppo, articolazione anonima del collettivo qui riunito.
Ci dividiamo in capannelli al seguito degli interpreti. Noi andiamo dietro a Bogaerts. Racconta che è un bugiardo matricolato e per questo ha scelto di fare l’attore. Scherza con chi ha di fronte, sfila dalla tasca una pistola mimata con tre dita, (se) la punta alla testa, al cuore. Vorrebbe aiutare tutti, ma non può. Forse, ci sta conducendo in una piega del confine tra verità e finzione, autobiografia e invenzione. Purtroppo è soltanto la fascinazione illusoria di un attimo: il cerchio magico è presto rotto, lo show deve proseguire, non può perdersi in “chiacchiere” da teatro intimista.
Quando Hugh Stanier si arrampica sul ballatoio è oltremodo chiaro dove Go Figure Out Yourself intende andare a parare: il dispositivo è il leader, l’autorità, il duce che comanda, il pubblico è la massa, la folla, la moltitudine che esegue. Stanier riprende la questione del vuoto. Noi siamo i suoi soldati, ci arringa, in guerra contro un nemico ben preparato ed equipaggiato. Vuole che urliamo. Tutti urlano. Vuole che corriamo. Tutti corrono. Contro e per niente. Non si domandano il motivo, lo fanno e basta.
Questa specie di audience study (drammaturgia di Aïda Gabriëls) proverebbe, in definitiva, che in una cornice condivisa si può chiedere e fare, potenzialmente, qualsiasi cosa. Il nulla da ultimo vince perché noi stessi ci annulliamo a vicenda. Il lume della ragione è stretto dal protagonismo scaccia pensieri al pari di quella lampadina in gabbia lassù. I fili, per giunta, non li tiene chi sta davanti a noi, ma quella silenziosa figura in nero che si aggira furtiva e accende e spegne le luci con un iPad (disegno di Davy Deschepper e Wim Vandekeybus). Il vero potere è occulto. È ovunque e da nessuna parte.
Sono bloccati nella morsa di un cieco rapporto di coppia i protagonisti di Iarna del Teatrul Nottara di Bucarest (adattamento di Anca Măniuţiu, regia di Mihai Măniuţiu). L’Inverno di Jon Fosse è una bianca teca che occupa per intero il palcoscenico della Sala grande della Stazione Leopolda (allestimento di Adrian Damian). Dentro, vestiti di chiaro, simili anche fisicamente, due donne, Catrinel Dumitrescu, Andrea Gavriliu, due uomini, Andi Vasluianu, Ştefan Lupu, si cercano a specchio tra dei cubi e un manto come innevato. Un Ultimo tango a Parigi al freddo e al gelo di notti in bianco per l’insonnia del cuore e della volontà.
Lei, Lui e le loro rispettive ombre si trovano a uno stesso appuntamento che si ripete oppure a uno solo visto da molteplici angolature. Le circostanze e condizioni sono il risultato della sovrapposizione sfasata di vari piani temporali. La coppia più adulta parla, quella più giovane danza, da un lato c’è la forma, dall’altro l’anima, gli uni sono raggelati dalla superficialità, gli altri dalla profondità del medesimo incontro (coreografia di Andrea Gavriliu). Le luci si accendono e spengono ai lati come le fasi di caricamento di una gigantesca batteria (disegno di Cristian Şimon, Andrei Florea). L’alba del nuovo giorno ricomincia ogni volta dal principio, alla stregua di Re-Mark.
Il loro stare sul palco è granitico, affilato, inflessibile. In questa vetrina delle relazioni occasionali tutto è inerte freddezza. Non c’è amore, c’è contatto fisico. L’intimità, sull’esempio del film di Bertolucci, si volge a poco a poco in incubo e la dipendenza si trasferisce da Lei a Lui: le parole per salutarla servono ora a non lasciarla andare. Tuttavia, il ghiaccio che li separa e unisce sta per sciogliersi, l’acqua, la vita, vogliono tornare a scorrere. Apertamente.
È una liberazione, però, che Iarna accenna soltanto. L’inverno trova ancora inverno, la neve altra neve. Parole e gesti non squarciano le zone buie che i nostri si portano addosso, pur nella nitidezza di un quadro sempre acceso. L’incomunicabilità tra i sessi alle latitudini del Teatrul Nottara è un sole di mezzanotte che appiana stati, moti, contrasti d’animo e pensiero, nel raggelante stallo di posizioni e proposizioni. Uguali e costanti.
Questa sorta di guerra fredda dei fraintendimenti si fa gioco esplicito di seduzione nel Present Continuous di Salvo Lombardo. Dopo aver collezionato le azioni dei passanti (Casual bystanders) e aver sviluppato le dinamiche ludiche e di socialità (Twister), il performer, coreografo e regista, ex Clinica Mammut, continua la sua ricerca su memoria, percezione e movimento nell’osservazione del reale, attraverso un lavoro sul ricordo di un’esperienza comune: una serata in un music club.
Cesare Benedetti, Lucia Cammalleri, Daria Greco e lo stesso Lombardo, ripropongo quindi sul palcoscenico del Teatro Cantiere Florida di Firenze posture, atteggiamenti, approcci delle persone presenti quella sera specifica. Un esperimento ascrivibile al filone dell’archeologia del presente, invero con un’analisi critica, un’attenzione e una cura interpretativa che all’apparenza non vanno molto oltre il trasferimento in teatro del dato di realtà così com’è. Fatto e finito.
Del fumo riempie la sala. Il suo diradarsi è paragonabile all’apertura del sipario. Un rettangolo segnato a terra in rosso delimita la pista da ballo. A destra sta la consolle con un Mac, a sinistra due drink. Lombardo comincia come dj per poi unirsi al resto del gruppo (tornerà “ai piatti” in un altro paio di occasioni). La descrizione fisica della musica (elaborazioni sonore di Fabrizio Alviti) è minuta, la sessualità è promiscua quanto i brani, che uniscono stili, generi, rumori e versi di animali, in uno stranito mash-up. In pista la regola dell’attrazione è la palestra ossessiva del corpo, ampi movimenti di bacino offrono il ventre all’ammiccamento degli istinti più bassi.
Visto nella sua asetticità di laboratorio, l’eterno presente della partitura coreografica ha come prospettiva quella di saturare l’attenzione, tenuta vigile fino alla fine dall’invasione ottica del caleidoscopico apparato illuminotecnico (disegno di Loris Giancola). Una tale disposizione deriva da un sistema di azioni reiterate che cozza con il luogo in cui ci troviamo o, meglio, che non trova in esso la chiave per aprirsi, rivelarsi.
La strada, appena abbozzata, potrebbe essere quella della solitudine. I quattro ballano soprattutto in gruppo: pure questa unione è una somma che non si amalgama. I passi sono concordi, concordemente solitari. Ognuno va con gli altri, ma per sé. Un ritratto in linea con i nostri tempi. Se non questo, Present Continuous avrebbe dovuto farci percepire, almeno, l’intensità esplosiva del ballare in discoteca. Come racconta in chiusura una simil-testimonianza registrata in presa diretta.