Era il 2001 e Billboard intervistò Nick Cave. Gli chiedevano di cosa parlassero le sue canzoni. «Non ci sono molti temi nel mondo. Ci sono l’amore e la morte, Dio, e alcune variazioni su queste cose», disse. Erano i tempi di No More Shall We Part, l’undicesimo disco con i Bad Seeds: una ventina d’anni prima era stato pubblicato il suo primo romanzo, E l’asina vide l’angelo; e quasi vent’anni dopo sarebbe uscito quello che ad oggi è il suo ultimo album, Ghosteen. Se lo interrogassimo a riguardo, ho la certezza che Cave darebbe la stessa risposta anche oggi. Amore, morte, Dio. E le variazioni, certo; a ben vedere, forse la differenza sta tutta in quest’ultimo elemento.
Vero è che – mentre in Italia Sur ripropone E l’asina vide l’angelo in una nuova traduzione a cura di Francesca Pe’ – il Nick Cave del 2020 è un uomo diverso. È passato attraverso la tragedia più dura che un uomo adulto possa affrontare, la perdita di un figlio, per giunta a causa di un terribile incidente; Arthur, quindici anni, precipitò nel 2015 da una scogliera nell’area di Brighton. E se va sempre considerato come l’uomo possa nascondersi dietro la coltre dell’artista, e che decifrare una personalità non è mai facile né scontato, chi abbia voglia di provare a intravedere il nuovo Nick può ascoltare le sue ultime canzoni, e poi leggere la newsletter che rilascia settimanalmente su The Right Hand Files – ecco, quest’ultimo è un consiglio spassionato. Ma per addentrarsi fino in fondo nell’universo- Cave (parliamo di una produzione quarantennale) non si può prescindere dal suo romanzo.
E l’asina vide l’angelo fu una prova di scrittura che vide l’artista australiano gettarsi a capofitto nell’impresa, ed è giusto dirlo subito: non si tratta del capriccio di una rockstar di talento desiderosa di confrontarsi con la scrittura “adulta”; è una storia ispirata e serissima, frutto di una poetica precisa e di un lavoro minuzioso.
Scritto negli anni Ottanta, prevalentemente a Berlino, in uno studiolo che vedeva Nick circondato da immagini sacre e dipinti espressionisti, E l’asina vide l’angelo si apre con una lunga citazione dalla Bibbia, tratta dal libro dei Numeri. Il brano racconta la storia del profeta Balaam, della sua incapacità di ascoltare il verbo del Signore e di riconoscere l’angelo che gli indica la strada da seguire, almeno fino a quando a parlargli è l’asina che sta cavalcando.
Già questo passaggio proietta il lettore nell’atmosfera costruita da Nick Cave, uno spazio antico dominato da segni e misticismo, simboli e oscuri messaggi da decifrare. Siamo nel profondo Sud degli Stati Uniti, anni Quaranta. Anche l’ambientazione fornisce una chiave di lettura immediata: è il territorio del diavolo, la zona immortalata in letteratura da scrittori come Flannery O’Connor e William Faulkner nella poetica che i critici definiscono Southern Gothic.
Cave, australiano, non ha mai vissuto tra il Tennessee e il Mississippi, ma sa che non esiste un paesaggio migliore dove possa svolgersi la sua storia. Il protagonista del romanzo, Euchrid, violentemente piomba in un mondo violento, sin dalla nascita («Fu suo fratello a rompere il sacco amniotico, la mattina della loro nascita, e come se quel singolo atto di autoaffermazione volesse stabilire un precedente alla rovescia per l’inerzia della sua vita futura, Euchrid, che non aveva ancora un nome, afferrò i talloni del fratello e piombò nel mondo con tutta la gloria di un ospite inatteso»), figlio di un padre sadico e di una madre alcolista. Il fanatismo religioso della valle circostante è il velo invisibile che domina le vite dei personaggi, perlopiù invasati dal tetro culto degli Ukuliti, dal nome del «profeta» Jonas Ukulore.
Mentre la vicenda si sviluppa seguendo una traccia inesorabile, come un torrente che lentamente scava nella roccia, in controluce intravedi la già citata O’Connor, ma anche certi ritratti fatalisti e disperati incrociati nella Spoon River di Edgar Lee Masters; penso soprattutto alla prostituta Cosey Mo, vittima della furia degli invasati ukuliti.
Con l’abilità di un narratore scafato, Cave lascia che il racconto condotto in prima persona dal muto Euchrid sia intervallato da repentini cambi di prospettiva (e qui, appunto, ecco Faulkner). Il risultato è un libro che avvinghia e lascia un’eco forte, vivida. Sempre a Billboard, Nick Cave disse di essersi sentito a lungo «un impostore, come musicista. Ora posso cantare meglio, posso suonare il piano. Ma sai, sono prima di tutto uno scrittore». E l’asina vide l’angelo ne è prova tangibile.