Il trenta settembre a Piazza Montecitorio, a pochi passi dal feretro di Pietro Ingrao, la voce di Alfredo Reichlin si è incrinata, rievocando la più grande passione laica, la politica come storia in atto. L’assillo del come non lasciare gli uomini soli davanti alla potenza inaudita del denaro condiviso con “la mente libera, cocciuta e assetata di conoscenza” dell’amico, che ora riposa nella sua Lenola.
La vita del novantunenne Reichlin è stata appassionata e piena. La passione per la vita sta ancora nel cucchiaino di zucchero per il caffè, che mi chiede di riempire per bene, non a metà, e nella pila di libri nuovi da leggere appoggiati sul divano. Qui ci interessa relativamente se è una storia di vinti o vincitori. Nato a Barletta nel 1925, si trasferì bambino a Roma, complice la crisi del ‘29 che aveva travolto la grande fabbrica chimica del nonno. Papà dannunziano, lui si scoprì l’eretico di famiglia. Al liceo divenne comunista. «Farai la fine di Cafiero mi diceva angosciata mia madre alludendo a quel suo parente anarchico, l’amico di Bakunin, di cui non sapeva niente, tranne che era morto pazzo, dopo aver regalato le sue terre ai contadini», ricorda. Non è andata così.
S’iscrisse al Pci dopo la liberazione. Nel 1945 iniziò a lavorare all’Unità, per poi diventarne direttore nel 1956, appena trentenne. Dissidi con Togliatti produssero il cambio alla direzione e il ritorno in Puglia quale segretario regionale. Eletto deputato nel 1968, dal 1973 fece parte della direzione del partito e della segreteria Berlinguer. Ha provato a dare il proprio contributo ideale, valoriale nella complessa mutazione Pci-Pds-Ds-Pd. «Non appartengo a quelli che si pentono del loro passato. Sì, sono stato comunista. Peggio, sono stato uno dei massimi dirigenti del Pci e non è che non veda errori e orrori e non li senta sulla mia pelle. Il fatto è che accanto a questi io ho la piena consapevolezza della parte che i comunisti hanno avuto nella lotta per la democrazia. Non era Stalin, ma la patria che ci chiamava. Lo stesso partito che però per il suo legame con l’Urss ha contribuito a rendere incompiuta la democrazia italiana», dice.
La necessità di mettere in campo una forte idea di ricostruzione del paese, ma inseparabile dalla lotta per il riscatto sociale. Questa è la storia di una democrazia difficile e di un’unità incompiuta. È il Pci che spiega la storia d’Italia oppure è la storia d’Italia che spiega il Pci? Si domanda e domanda Reichlin nella biografia, che si fa riflessione sull’oggi, La mia Italia (Donzelli, 149 pagine, 18 euro). Affiora l’irrequietezza per un lutto non elaborato, per la debolezza del modo in cui è stata gestita la crisi del Pci e la confluenza nel nuovo partito: «Chi come me viene dalla sinistra storica non può sentirsi innocente, se il nuovo soggetto politico in cui siamo approdati sembra così incerto, quasi senza un’anima e privo di un pensiero lungo sul futuro».
Reichlin pone al centro della sua analisi la potenza dell’economia che erode il potere della politica in quanto interesse generale. Denuncia quel che sappiamo, la concreta formazione di una plutocrazia mondiale mai vista prima. Livelli di concentrazione delle risorse paragonabili a prima della Rivoluzione francese. «L’egemonia della sinistra si ricostruisce mettendo al centro la persona umana e la sua liberazione», scrive. È vero quel che premette nella prima pagina: «Non è una predica, né un furbesco chiamarsi fuori». Ma è la nostalgia per la foto di gruppo di giovani intellettuali, che si mischiarono a tanti piccoli Di Vittorio, ad animare le pagine.
L’autore argomenta la crisi di una costituzione materiale, del modo di stare insieme. Considera il “nuovismo” renziano l’immagine di un paese “senza”, un’immagine sospesa nel vuoto. Afferma che il significato etico della politica si può ritrovare non in astratto, ma nell’asprezza della lotta e del fare.
La mia Italia è la storia di una generazione che non si è tirata indietro. Ugo Stille scrisse in memoria di Giaime Pintor: «La nostra amicizia significò allora un “crescere assieme”. Era un legame che faceva di ciascuno di noi quasi una parte dell’altro». Allora viene alla mente l’immagine più bella del libro pubblicato da Donzelli. Piombiamo nella Roma dell’otto settembre 1943, il trauma e la vergogna di una intera classe dirigente in fuga, la scomparsa dello Stato, i bombardamenti e la lotta partigiana. Reichlin arriva in bicicletta dai Castelli romani e incontra solo macerie. Cerca l’amico e compagno di scuola Luigi Pintor. Giaime, il fratello più grande, che era ufficiale dello Stato maggiore, chiede loro di accompagnarlo da Leopoldo Piccardi, al ministero dell’industria in via Veneto. Piccardi era il solo membro del governo rimasto a Roma e il Palazzo era completamente deserto. Il Cln vuole aprire i depositi militari e distribuire le armi. Poi attraversano Piazza dei Cinquecento per giungere a una caserma. Qui, ricorda Reichlin, un tranviere scende dalla vettura e si unisce ai soldati italiani. Continua a sparare fin quando resta steso a terra per quel possibile che è la democrazia.
Reichlin, vorrei cominciare dalla Puglia, dall’Ilva a Taranto. Un’impresa in perdita dove si muore. Il 17 novembre è deceduto Cosimo Martucci, operaio 49enne. Lo scorso giugno il trentacinquenne Alessandro Morricella è stato travolto dalla ghisa fusa e vapore, mentre lavorava alla base dell’altoforno numero 2. Che cosa ha rappresentato nella sua vita il centro siderurgico?
«È stato un impegno grandissimo, perché è venuta a Taranto negli anni in cui ero lì. Non avevamo nessuna esperienza di che cos’è una fabbrica come l’Ilva. Il problema generale che ci investì era l’idea che fosse l’inizio di una vera e propria industrializzazione della Puglia. L’impianto era grandioso, uno dei maggiori centri siderurgici d’Europa. Non avevamo le idee chiare sull’impatto ambientale, poiché non avevamo nessuna esperienza precedente in questo senso. Ci battevamo molto per rendere democratiche le assunzioni. Allora furono assunti migliaia di operai attraverso canali clientelari. E cercavamo di fondare in mezzo a questa massa del tutto nuova il sindacato. Ho trascorso molte giornate davanti ai cancelli, perché era l’unico modo di parlare direttamente con gli operai. Arrivavano camion, pullman da varie parti della Puglia. Non era facile farsi ascoltare durante i cambi di turno, comizi di cinque, dieci minuti. Creammo un’organizzazione. Lo fece essenzialmente la Fiom, ma allora i rapporti tra sindacato e partito comunista erano strettissimi, eravamo la stessa cosa. Il centro si è anche molto – troppo – esteso, perché non era così all’inizio. Avevo già la preoccupazione, l’assillo degli effetti sul rione Tamburi esposto alle nocività della produzione. Ricordo riunioni su riunioni fatte con i compagni del luogo».
La zuppa del demonio non bastava.
«A noi l’Ilva sembrò una svolta molto insufficiente. Quando si ruppe il triangolo industriale e venivano coinvolte Emilia, Marche e in parte Toscana, la nostra linea fondamentale era che lo sviluppo del Mezzogiorno sarebbe dovuto essere uno sviluppo basato su una trasformazione molecolare della società meridionale. Fondamentalmente creare capitale sociale. Non credevamo che potesse avvenire attraverso l’imposizione di industrie calate dall’alto. Io avevo chiarissimo in testa, credo di averlo anche molto scritto, che il modello di sviluppo sarebbe dovuto partire dalla massa reale dei lavoratori pugliesi che erano i contadini e quindi uscire prima di tutto dai patti colonici semi feudali. I socialisti mi accusarono di “agrarismo”, mentre invece ritenevo che questa fosse la linea più feconda, più avanzata, di suscitare dal basso come era avvenuto in Emilia. Pensavo, mi illudevo, che soprattutto in Puglia, dove era meno forte l’arretratezza (era primitiva: una cosa diversa), si potesse lavorare su un nuovo impasto tra la forza lavoro, erano lavoratori straordinari, e una piccola e media borghesia non di rendita ma attiva».
Nel 1962 andò a Bari con il compito di dirigere il Pci regionale. Nella raccolta Dieci anni di politica meridionale ‘63-’73 si domandava retoricamente: «È stato industrializzato il Mezzogiorno?» Per poi rispondersi: «In realtà si è industrializzato ulteriormente il Nord». Che cosa è andato storto?
«Il problema fondamentale era quello di mutare la funzione del Mezzogiorno nella vita nazionale. La scelta dell’industrializzazione era stata fatta, avendo la Cassa abbandonato dall’inizio degli anni Sessanta gli investimenti massicci in agricoltura. Tutti gli incentivi erano stati dirottati nel finanziamento dei poli industriali. Parliamo di migliaia di miliardi tra pubblico e privato. Il Nord, grazie alla particolare condizione sociale e politica della realtà meridionale, ha potuto sfruttare le riserve della mano d’opera espulse dalla campagna, ha utilizzato le materie prime e i semilavorati dalle industrie di base e inoltre ha utilizzato la crescita del tessuto urbano meridionale per alimentare certi consumi. L’industrializzazione doveva essere in funzione dell’assetto civile e territoriale del Mezzogiorno e non del mercato. Ha dominato un feudalesimo moderno, espressione di un blocco di potere burocratico, speculativo, parassitario che è locale e nazionale insieme. La rapina delle risorse umane è ciò che mi ha più inquietato. Lo spostamento verso il Mezzogiorno dell’asse dello sviluppo industriale non poteva avvenire ottenendo qua e là qualche nuovo impianto, secondo la logica dei poli ma bloccando l’esodo».
I dati prodotti dal rapporto 2015 dello Svimez (desertificazione industriale, 576mila posti di lavoro persi e al Sud dal 2008 a oggi è raddoppiata la percentuale povertà assoluta) hanno riacceso, per qualche ora, una qualche forma di dibattito pubblico sulla questione meridionale. Lei nelle pagine de La mia Italia la mette al centro della crisi della nazione italiana.
«Nell’ultimo ventennio della questione meridionale non si è più parlato ed è una cosa vergognosa. Non ne ha parlato più neanche la sinistra. Come è noto, ero un dirigente del Pci e mi sono nutrito, ho profondamente condiviso, l’impianto gramsciano togliattiano della questione nazionale italiana. L’unità d’Italia è avvenuta attraverso una rivoluzione passiva, fondamentalmente una conquista regia.
La classe dirigente italiana, poi, compie al suo interno un patto scellerato. Io sono l’industria, produco e mi serve un mercato. Allora non c’era il mercato mondiale e il Mezzogiorno significava avere un mercato protetto. Venti milioni di abitanti totalmente dipendenti dall’ago all’automobile, dal prodotto del Nord e non arrivavano gli stranieri. È stato un enorme mercato che comportava – e questo era il patto – un sostegno alle capacità di consumo dei meridionali. E quindi trasferimenti: almeno un quinto del Pil meridionale è fatto di trasferimenti. Poi il sistema bancario non era in grado di svolgere nel Mezzogiorno la funzione di sostegno a uno sviluppo industriale omogeneo. Le risorse entravano nel circolo finanziario. Era un sistema insostenibile che bisognava cominciare a guardare apertamente in faccia. Non pensare che si trattasse di arretratezza o assenza di educazione. Negli ultimi venti anni, l’arresto dello sviluppo italiano è dovuto in buona parte al cambiamento del paradigma economico mondiale, la mondializzazione. I mercati sono diventati internazionali, il Mezzogiorno ha interessato ancora meno, perché si cercavano mercati ben più ampi».
La soddisfa la politica in materia del governo Renzi?
«Nella legge di stabilità non c’è nulla per il Mezzogiorno. L’assenza di centralità della questione è la critica. Critico, sono polemico anche con il Partito Democratico che l’ha trascurata in questi anni. Abbiamo subito la falsa teoria delle forze di destra italiane, l’asse del nord Bossi-Berlusconi secondo cui il problema era la famosa questione settentrionale. Liberalizzare, diminuire i poteri dello Stato, affidare lo sviluppo italiano alla spontaneità dei mercati e dunque il Mezzogiorno è stato totalmente sacrificato. Oggi siamo arrivati a un punto di quasi non ritorno. È grave che si sia accentuato lo sviluppo dualistico del Paese in un contesto di Mezzogiornificazione dell’Europa, di frattura crescente tra Nord e Sud. La questione del Mezzogiorno è la questione centrale, molto più importante dello spread o di cose con cui ci hanno dilaniato, perché è il limite della nazione italiana. Le impedisce di compiere il salto, perché il Sud non è una regione, è un terzo del paese, è storia, regni, monarchie, ed è lì ancora il nodo che tuttora resiste: l’arretratezza del blocco storico italiano. Se mi si chiedesse qual è il vero difetto anche della politica economica del governo Renzi, direi è questo».
A più riprese lei segnala, quale tratto distintivo del divorzio dal Novecento, il tramonto della civiltà del lavoro, di quell’insieme di diritti conquistati con lotte dure. Frullano i numeri, prematuri, sugli effetti del Jobs act. La convincono i principi che l’hanno ispirato?
«Il Jobs act è incompatibile con la civiltà del lavoro novecentesca, però va contestualizzato in un dato internazionale. Abbiamo subito la svolta di destra, che c’è stata a livello mondiale, quando si è rotto il compromesso democratico tra il capitalismo e la democrazia. In cui certo il capitalismo manteneva il proprio dominio, il suo potere in ultima istanza di essere, decidere dello sviluppo, ma c’era il potere dello Stato e delle economie locali, dei diritti nazionali. Veniva meno la base stessa dell’impianto riformista che era riuscito a contemperare gli squilibri del mercato con la funzione redistributiva dello Stato sociale. Il capitalismo finanziario assoggettava la realtà a una logica che confliggeva in modo radicale con la soggettività e l’autonomia dell’uomo. Ricordiamoci che il socialismo è stato protagonista del secolo scorso, non solo perché difendeva gli ultimi, ma perché aveva creato degli strumenti di lotta straordinari dal sindacato al suffragio universale, dal partito politico di massa allo Stato sociale. Con la globalizzazione sono venuti meno i vecchi strumenti dell’agire politico della sinistra. Che cosa inventiamo? Bisogna inventare. I miei occhi hanno visto rompersi la grande conquista avvenuta negli anni in cui mi impegnavo, diventavo adulto, entravo nella lotta politica».
Lei, ricordando la fase costituente della Repubblica italiana, sottolinea come la Carta sia stata scritta con la consapevolezza degli ultimi, in rappresentanza degli esclusi. La bellezza dell’articolo tre. Oggi si riforma in nome di chi e che cosa?
«La Costituzione nasce da questa nuova idea che il lavoro poi è in definitiva il fattore fondamentale dello sviluppo e della civiltà di un paese. È l’uomo alla base di tutto. Invece abbiamo assistito a una reazione culturale, diffusione di senso comune spaventoso che la legge costitutiva del consorzio umano è il mercato, è a questo che bisogna sottoporsi, non solo lo scambio economico materiale ma anche i destini. Ho voluto dire e lo ripeto che la Costituzione non è mai stata molto amata dalla vecchia classe dirigente per una ragione molto semplice: non l’hanno fatta loro. Questa è stata la peculiarità di cui non vedo molti paragoni nella storia dell’Italia. La Costituzione italiana è stata fatta dai fuoriusciti; sia Togliatti sia De Gasperi e dalle masse da loro dirette, operai, contadini e cattolici che furono tenuti ai margini della vita dello Stato unitario. La borghesia è stata travolta in quella fase dalla caduta del fascismo. È stata zitta e si è nascosta dietro le tonache dei preti. Prese la testa quella pattuglia di cattolici democratici. Questi hanno scritto la Costituzione, non c’è dubbio. Dunque non è molto amata. Dopo l’espianto dei grandi partiti storici andava in scena una idea molto vaga del nuovismo, transizione verso non si sa bene quale Seconda Repubblica. Un riformismo subalterno e senza popolo. Il vuoto non è stato riempito e non può essere riempito dal riformismo debole di questi anni. Non siamo stati in grado di esprimere un’egemonia».
La sovranità appartiene al popolo, è scritto nell’articolo uno della Costituzione italiana.
«Occorre rovesciare la logica secondo cui all’inizio ci sono i mercati, le loro esigenze, e poi gli altri si devono adeguare. I mercati governano, i tecnici amministrano, i politici vanno in televisione nel senso che governano il simbolico che è pur necessario. Le grandi decisioni vengono prese altrove, il tema di fondo è la crisi della democrazia. Chi comanda? L’oligarchia finanziaria dominante, la libera circolazione dei capitali, il capitale va dove vuole che vada questo potere difficilmente definibile. La crisi radicale della democrazia sta portando il mondo a dei rischi gravi, perché il mondo più si connette, unifica più ha bisogno di un potere indipendente che pensi i bisogni, le necessità del governo del mondo, un governo del mondo affidato alla spontaneità degli interessi sempre più sofisticati dei grandi mercati finanziari è un mondo veramente a rischio. Significa la perdita di identità. Che cosa tiene insieme i popoli? I fatti di questi giorni pongono il quesito. È questo vuoto di legittimità del potere, che fonda il rischio di nuove guerre. Ecco a cosa penso quando parlo della rottura di un ordine. Penso a qualcosa che non è una forma del capitalismo che si sono succedute».
Molti invocano una nuova Bretton Woods, Cina inclusa che ambisce al riconoscimento ufficiale della seconda economia mondiale in un mondo multipolare. Il 30 novembre il Fondo Monetario Internazionale aggiungerà la moneta cinese a quelle che determinano il valore dei Diritti Speciali di prelievo. Tradotto: lo yuan acquista un ruolo di moneta di riserva. Una Bretton alla quale la Cina è interessata per regolare il dominio del dollaro. Lo ritiene un rimedio al caos?
«Nel ventennio ‘50-’70 l’ordine, il sistema uscito da Bretton Woods, seppur non abbia prodotto politiche redistributive, di livellamento delle diseguaglianze, ha garantito un progresso del benessere materiale mondiale mai così rapido. Nel ‘71 Nixon ne ha decretato il tramonto.
Decisione fatale presa nei Settanta dall’oligarchia dominante angloamericana che dette ai conglomerati finanziari il potere di circolare senza alcun vincolo con effetti disastrosi di spiazzamento delle strutture sociali e della produzione reale. La globalizzazione formidabile espansione che ha incrinato gli assetti politici e culturali faticosamente stabilizzati dopo la seconda guerra mondiale. Il mondo inondato di debiti e di rendite. Certamente Bretton Woods fa del dollaro la moneta di riserva, però accetta anche di sottomettere il dollaro a dei vincoli, i cambi fissi e l’obbligo che al dollaro corrisponda l’oro. Nuova Bretton: la Cina sta ponendo questo problema.
Io credo si vada verso uno scontro. L’America non è più la superpotenza di una volta, però il declino del dollaro non è dietro l’angolo ed è Wall Street il cuore del potere finanziario mondiale, nonostante tutto. Dai documenti che ho avuto modo di studiare la Cina pone il problema del privilegio esorbitante della valuta americana, superare il fatto che il dollaro sia la moneta di riserva, sostituendolo con una moneta globale atta a garantire una stabilità generale. Il dollaro consente all’America di indebitarsi come vuole, mentre tutto il nostro guaio è che dobbiamo sottoporci alle leggi di questa economia del debito. I debiti sia dei privati sia pubblici, visti gli ultimi dati, superano di quattro volte il prodotto reale. I debitori per sostenere la massa di debito sempre maggiore devono sempre più incidere sulla ricchezza reale a cominciare dai diritti sociali, dallo stato sociale, i servizi pubblici. È un gioco che non può durare all’infinito».
In un brillante articolo, d’inizio secolo, lei qualificava come endemica una guerra di dimensioni mondiali, allora già cominciata. Il ritorno alla guerra come crollo di un ordine. È inevitabile la riduzione delle forme e dei contenuti della politica moderna a scelte di guerra?
«Guerra chiama guerra. Stiamo constatando che poco si risolve. I massacri del terrorismo islamico ci dicono quanto i valori della civiltà umanistica siano a rischio. Esso rivela problemi inediti e molto complessi come quelli di una frattura molto profonda che dilania il mondo islamico. Il fatto stesso che un così radicale estremismo si incarni in giovani arabi di seconda generazione, che in Europa sono nati e hanno fatto le nostre scuole, dice che ci troviamo di fronte a qualcosa di più e diverso da un antico contrasto religioso.
È significativo che detestino anche i costumi e le tradizioni di una parte del loro mondo e si sentano estranei alle stesse comunità musulmane d’Europa: una degenerazione che nasce da una crisi estrema di identità. La Jihad dà loro un senso di appartenenza, un’identità sia pure spaventosamente irrazionale. Forse non ci rendiamo conto dei disastri che stanno sconvolgendo l’area del Medio Oriente e l’insieme del mondo arabo. I massacri tra le stesse fazioni musulmane, ai quali si aggiungono le rovine e gli odi seminati dallo scorrazzare degli eserciti stranieri. Pensiamo al cinismo e al tempo stesso alla stupidità delle operazioni militari americane oppure all’iniziativa francese, la quale per eliminare Gheddafi ha ottenuto il risultato di distruggere in Libia ogni parvenza di Stato. Si aggiungano la massa di donne e bambini che vagano tra un campo profughi e un altro. E qui mi fermo. I musulmani che vivono permanentemente in Europa sono ormai decine di milioni. Il funzionamento dell’economia francese come di quella italiana si bloccherebbe senza di loro. La scuola raffigura questo cosmo. Il futuro nostro e dell’Europa non dipende dalla stupidità delle spedizioni militari ma dalla capacità di elaborare un nuovo modo di stare insieme».
Come valuta la reazione del socialista François Hollande?
«Ovviamente all’inizio prevale il “sentire”. La paura che genera l’aggressione. Prima di tutto la Francia si sente colpita, li ha in casa. Poi però bisogna capire le ragioni interne ed esterne. Capire affinché non si ripetano mattanze. Lo stile di vita che sentiamo attaccato: ricordiamo che non è per tutti. Interroghiamoci sulla scuola. La situazione della banlieue credo sia spaventosa, lì non entra neanche la polizia. Quanta disperazione e quanto incitamento al terrorismo viene alimentato non dal Corano, ma da certe periferie parigine e di molte altre città europee? In Italia ancora non siamo a questo punto, seppure esistano dei quartieri orribili, prevale ancora un miscuglio di sentimenti. La differenza è culturale, più che urbanistica. La questione coloniale nella banlieue è irrisolta. Poi, senza voler ridurre a dinamiche di politica interna, lui è incalzato da Le Pen e Sarkozy, dal clima generale nazionalista. Se non si erge come il grande presidente, teme di essere spazzato via. La Francia ha una vecchia partita con la Siria, nella grande spartizione attuata nel Medio Oriente. Non dimentichiamo tutta la turbolenza che ha segnato il processo di indipendenza. C’è un dato più di fondo secondo me. Per tante ragioni, fra le quali fondamentalmente la diffusione capillare delle informazioni, i popoli non sono più ignari. Percepiscono come si vive bene, come si vive male. Che cos’è la ricchezza. Diventa molto difficile impedire che masse arretrate da un punto di vista economico, ma già consapevoli della compressione propria della marginalità, vogliano accedere. Siamo dentro a una crisi di civiltà. Tutto questo purtroppo avviene nel silenzio della sinistra battuta, perché rimasta all’Ottocento, al Novecento, perché non ha pensiero su queste cose».
Il terrorismo e lo stato di guerra dichiarato (La France est en guerre, ha detto Hollande, ndr) paradossalmente riposizionano l’Europa al centro del mondo?
«Si riaprono terreni importanti. Vogliamo riunire le forze? Allora tutto il sistema di Bruxelles, come è stato concepito, va cambiato. Qui cambia veramente lo scenario. L’Europa è tante cose, è il papato, è l’impero, l’illuminismo come l’olocausto. In definitiva però l’Europa è la patria dei diritti dell’uomo. I diritti dell’uomo e l’idea di progresso li ha inventati l’Europa. Tutto richiede un’Europa nuova, impone la ridefinizione del suo ruolo nel mondo. Può l’Europa proporsi come faro di civiltà e progresso, come garante dei diritti dell’uomo, se perdura un ordine economico che riduce tutto a un contrasto sempre più profondo tra creditori e debitori? Era ed è giusto contestare un modello che ha provocato una inaccettabile perdita di sovranità e diritti sociali come ci dice il caso greco. Mi rivolgo anche alla sinistra per dire: l’europeismo non è un cane morto. È anzi ancora un terreno inevitabile sul quale la sinistra può pensare ancora a una sua funzione. In un mondo del genere senza un’unione salda, l’Europa sparisce. I problemi, come qualcuno s’illude a sinistra, non si risolvono uscendo dall’euro, dall’Europa. Tutte le società anche le più avanzate vengono messe in discussione. C’è l’esaurirsi dell’illusione che il mondo possa essere governato senza il potere politico, senza grandi idee che si traducano in un potere di direzione».
C’è vita a sinistra?
«La sinistra è destinata a scomparire se non si ricolloca all’altezza dei conflitti reali, più radicali. Tocca ai figli sconfiggere lo scetticismo dei padri, che si frappone all’avvento di una società più inclusiva e di un nuovo pensiero umanistico. Occorre definire un altro modello di sviluppo. La riduzione della società a società di mercato infila l’esistenza umana in un processo autodistruttivo».
Si è pentito di aver coniato, rilanciato nei suoi scritti, l’idea di partito della nazione in riferimento al Pd?
«No, per nulla. Ribadisco l’idea che un partito, se vuole contare, anche da sinistra deve uscire dai vecchi confini della cultura di classe e porsi i problemi di essere un partito in grado di dirigere una nazione. Il compito della politica è capire dentro quale idea nazionale, coerente con la mondializzazione, si possa ridefinire il nostro stare insieme. È in questo senso che ho parlato di un partito della nazione. A proposito del partito dobbiamo parlare delle ragioni di una nuova unità del popolo italiano. Mi sembra l’abc, oltretutto è ciò che ci avevano detto i nostri padri. Poi Renzi usa l’espressione partito della nazione in un altro senso, un partito in cui non importa essere di sinistra o destra. Alt, no. Finisce il partito, come è già finito il partito, espressione di disegni conflittuali. Ho smesso di usare questo argomento, perché me l’ha rubato Renzi. Sento di non dover accettare la riduzione della politica alla gestione di un eterno presente. Il ripiegamento rassegnato verso una forza moderata.».
Il Pd è un partito a misura di militante?
«“Alfrè, sto partito è inagibile”, mi ha detto una volta un caro amico, un proletario di Albano Laziale. Nelle nostre sezioni domina l’impressione dell’uomo senza potere, che è alla base, di non contare più niente, perché il gioco politico è dominato dalle cosche, dai capibastone. Mi diceva vado in sezione e non conto più niente: “Stanno sempre a parlà di chi devono fare assessore o altri incarichi”. Ha ragione. Che fa lui? Si candida? A che cosa? Non ha una clientela, non ha i soldi per fare le elezioni, perché ci vogliono pure un sacco di soldi. Dunque non è un partito per gli ultimi, ma dei notabili. In questo senso dice che è inagibile».
Quale cultura politica esprime la leadership del Premier Matteo Renzi?
«Eh, non lo so. Questa è la domanda. Non è un uomo della sinistra e non lo nasconde. Non è neanche un uomo della sinistra democristiana. Ignoro quale sia la sua base culturale. È un uomo di grandissima qualità, energia, intelligenza, ma ritengo questo sia il suo vero punto debole: una cultura di base e un’idea di fondo di dove portare il paese; sono l’immediato, il successo, la propaganda e c’è una bella differenza. Non vedo che cosa c’è dietro Renzi, perché tra l’altro sente che per governare in questo modo deve disintermediare, distanziare tutte le forze intermedie. Si chiamino sindacato, Chiesa cattolica, laicato, Confindustria. Questo è il punto, dove però fallirà, come si è visto anche nei fatti accaduti a Roma. Lo sfarinamento dei gruppi dirigenti».
Le chiedo un ricordo del segretario Enrico Berlinguer. E aggiungo: davvero nella fase finale la sua alterità costituiva un chiudersi nella propria “purezza”, rinunciando a rivolgersi al Paese?
«La diversità è il segreto di Berlinguer. Enrico è stato l’ultimo comunista. Il comunista te lo dico così: sì, certo, l’uomo che sta in questo mondo, ma non è di questo mondo. Il comunismo è fallito per tante ragioni come disegno politico, però io l’ho vissuto e Berlinguer questo era, come una parte del gruppo dirigente, non un’altra. Era sì l’oggi, le lotte, i contadini, i patti agrari, ma era anche l’idea di una rivoluzione italiana nel senso di un cambiamento profondo del rapporto fra dirigenti e diretti. Era il compimento del Risorgimento, era la trasformazione della plebe in popolo. Era l’unificazione del popolo italiano. L’Unità si vendeva ad Aosta come a Caltanissetta, cosa che allora non faceva nessuno. Berlinguer è stato l’ultimo che ha diretto in nome di questo. Tu sei un sognatore? No, io penso che il mondo attuale possa essere cambiato radicalmente. Non sto facendo l’assalto al palazzo però sono questo, è questa la mia diversità. Non mi vergogno affatto. Anzi sento che oggi ritorna il bisogno di una forza che ridia la parola all’impossibile, però per ottenere il possibile».
Non avete salvaguardato il nesso vitale, profondo, tra passato e presente?
«L’impossibile, a cui ti accennavo, noi per tante ragioni, errori, non siamo riusciti a trasmetterlo alla nuova generazione. La mia generazione – poi chi siamo ormai, che ancora conserva… – ma la generazione dei vostri padri, dei D’Alema, dei Veltroni. Si sono ubriacati con l’idea di essere uguali agli altri. Sono diventati liberisti. La politica cos’è se non il destino dell’uomo, la libertà dell’uomo di decidere il proprio destino alla faccia dei meccanismi di mercato. No, io decido che l’Italia è una Repubblica fatta in questo modo. Non interpello Wall Street in proposito. Se tu non riconquisti questo. Se tutto sta nelle compatibilità…».
A proposito di Aldo Moro afferma: «Più passa il tempo, più emerge la gravità di quel delitto».
«C’era un’eresia profonda nel pensiero di Moro, per la quale siamo arrivati a un delitto politico. Non era una questione di governo, per quella avrebbero magari sequestrato Andreotti. Naturalmente non eravamo tutti d’accordo. Non è che Berlinguer non concedesse chissà che cosa rispetto ai socialisti, e dunque bisognava scegliere loro. I socialisti erano andati nell’altra direzione. Berlinguer non è che fosse moroteo. Pensava – e in questo s’incontrò con un pensiero analogo di Moro, come diceva Moro ai suoi – il destino non è più nelle nostre mani. Se volevamo portare a compimento una trasformazione dell’Italia dovevamo ripartire dal basso. Ridare la parola alle grandi masse, quindi a un grande incontro fra le masse di sinistra e quelle cattoliche. Non bastava cambiare governo, ma risuscitare lo spirito che c’era stato nella resistenza. La penso così, io sono diverso da altri. Rispetto moltissimo Giorgio Napolitano, che non la penserà così».
All’epoca aveva già compreso Pier Paolo Pasolini? Si riconosceva nell’ossessione pasoliniana per un potere che non ha più antidoti che lo possano contenere, per la penetrazione della società dei consumi là dove non era riuscito neanche il paleofascismo?
«Ho conosciuto poco Pasolini, ma non l’ho mai considerato arretrato o banalmente nostalgico delle lucciole. Coglieva una cosa che coglievo anch’io. La società di massa, che è la società della comunicazione, che cambiava in profondità la cultura. Lui era Pasolini, molto apprezzato. Quando è stato assassinato sono stato alle notizie di allora. Poi non è così, questo è un paese strano, possibile che non c’è mai un delitto di cui si sa, in cui si arriva. Non so».
Lei scrive: «Sembriamo ricchi perché una società di vecchi ha difeso corporativismi, rendite e privilegi ponendo sulle spalle delle nuove generazioni il pagamento di un debito immenso». Un debito, aggiungeremmo, che nessun uomo onesto può ripagare. In quanto parte della classe dirigente ha mai avvertito una quota di corresponsabilità?
«Sì, avverto il peso di questa eredità. Quella del debito è una tragedia di cui la classe dirigente che ha governato dovrebbe assumersi tutte le responsabilità. A cominciare da Craxi. All’epoca ero responsabile economico ed ero amico del governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. L’Italia fino a Craxi non ha avuto un grande debito. So benissimo come è stato formato il debito, facendo pagare le tasse a pochi, aumentando le spese e costruendo su questo delle fortune politiche. Il salto del debito dal 30-40% a superare il 100% è avvenuto negli anni Ottanta. Dopodiché ha continuato ad accumularsi un debito così alto, perché la nostra crescita è ferma da trent’anni».
Parri definì la lettera di Giaime Pintor al fratello il documento più alto e nobile della Resistenza. C’è un passaggio molto intenso nel libro, quando lei rievoca quella lettera e l’incontro con Luigi Pintor, che venne a casa sua con l’animo stravolto. «(…) Quando la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo pericolo».
«La politica non come manovra, ma come consapevolezza di una missione, un compito che va oltre l’immediato. La politica non riducibile soltanto al qui e ora, che ha bisogno anche di una sua componente utopica. Decidemmo di vendicarlo. Chiedemmo al Pci, attraverso un canale clandestino, di essere arruolati nei Gap, il ristrettissimo gruppo di combattenti che sotto la guida di Giorgio Amendola organizzavano a Roma gli attentati, le sparatorie e i sabotaggi che tutti sanno, per esempio via Rasella. Ma di questo non voglio parlare. Ridefinire poi il comunismo italiano come lo strumento originale capace di far leva sulle masse profonde per rendere inscindibile il nesso tra società e politica, tra la cultura, la democrazia e il socialismo».
Mi racconta la bellezza della politica?
«Qualcuno dei leader di oggi sogghignerà se dico che, dopo la Liberazione, il sentimento che mi dominava era un bisogno lancinante, una vera e propria fame di ritrovare la gente, il popolo italiano, non più quello delle adunate. Il desiderio di conoscere i luoghi dove lavorava, la fabbrica, la geografia delle città. Avevo fame dell’Italia vera. C’entrava poco il mito sovietico. La nascita dell’antifascismo come grande corrente politico-ideale europea. Rivoluzione? Una parola troppo grossa. Si parlava molto però, e con enorme passione, della lotta per cambiare il tessuto profondo, anche culturale e morale del paese. Il mio amico, Pietro Ingrao, è stato per me la scoperta della passione politica, non come professione e orizzonte irraggiungibile bensì consapevolezza della propria vita. Abbiamo cominciato che lui era capo cronista dell’Unità. Le inchieste nelle borgate romane, lo stare in mezzo alla gente. Il lavoro con le case editrici, penso a Laterza ed Einaudi. La più grande passione laica, la fusione tra politica e vita»