Tutto si svolgeva alla luce del sole
N. Kimball
Nella casa senza tetto non c’erano libri. Solo una vecchia enciclopedia tagliata al centro da mio padre per nasconderci monete preziose arrivate dall’America : era il nostro tesoro , un tesoro come un porcile, uno scavo tra le parole per riporci i soldi : raccapricciante e allo stesso tempo meraviglioso. Mi agitavo con le mani e le braccia quando aprivo la pagina duecentotrentasette del terzo volume : c’era un buco scavato a taglierino da mio padre, un buco meticoloso, e nel buco una manciata di metallo racchiuso in singole confezioni circolari. Protetto, perché niente laggiù era protetto. Si potevano leggere gli anni : la più vecchia moneta era la più grande. Poi lui le ha cedute fondendole tutte lontano da casa per farci su qualche soldo vero. Spendibile, come tutto doveva essere nella casa senza libri e senza mura.
Ma questo era un affare per adulti e per bambini con la pelle d’oca. Io avevo già la mia, la tenevo nascosta per i momenti in cui la casa si svuotava : era un libro proibito. Nella casa grande e gonfia di silenzi c’era solo quello e un vecchio manuale femminista per capire il proprio corpo : erano i regali di una cugina combattente, che cercava di acchiappare una parola da quel tombale, da quegli inutili faldoni di Quattroruote e riviste di casa. Nei tempi brevi, quando uscivano per la spesa, io mi arrampicavo sulle parole enciclopediche e lo prendevo. Fuggivo inseguita dal mio ladro privato, quello che mi stava sempre alle costole anche quando non combinavo niente, quello degli sguardi assassini e benevoli, delle grandi risate nel muro dei pupazzi e dei giocattoli. Percorrevo le scale al contrario per non essere presa dal mio senza-testa e chiudevo la porta senza serratura come si chiudono gli scaffali morti o le orecchie per non sentire le urla. Avevo il mio libro proibito, e le mie ore di libertà. Ero la storia di una puttana americana, una storia di sesso, di pagliai, di bordelli, di spazzole usate come giocattolo, di sorelle, di fughe dalla finestra, di stalloni in amore, di quindicenni, di esplorazioni, di corpi, di vita bollente, di piccole menzogne, di verità spalancate come cosce mature e come la cosa più naturale da fare. Forse a nove anni non sapevo nemmeno cosa significasse maitresse, ma dalla copertina intuivo che qualcosa là dentro bruciava- e infatti bruciava.
Nell scopriva il suo corpo e io scoprivo il mio, ritagliavo lembi di tempo per scappare con lei nel grande pagliaio pieno di stelle, di aghi che s’intrecciano ai vestiti, di povere cose. La mia soffitta alta in cui mi nascondevo era la sua stanza da cui lei voleva scappare.
Quell’aprile Charlie disse che ce ne saremo andati, saremmo scappati non appena fosse riuscito a mettere le mani sui soldi che gli spettavano.
“E dove andremo, Charlie?”
“Scenderemo il fiume, e poi prenderemo una nave per il Brasile”. Aveva questo tarlo del Brasile che gli trapanava il cervello, ma a me non importava niente, fosse Cina o Brasile, fintanto che avevo qualcuno che pensava a me. Non avevo nessun’idea di nessuna parte del mondo, tranne North Pike, Indian Crossing, e quella cascina lì attorno. Per il mondo che conoscevo, avrei quasi potuto arrivare ai suoi confini con uno sputo.
Il ricordo è sensoriale. Sento l’odore del fieno, gli umori della pelle, l’acre dello sperma dimenticato nel bordello del mattino, gli zoccoli dei cavalli, il rumore della monta, le grida, il fiato trattenuto della prima volta, il suono bello e grave dell’attributo “garzone”. Lei apriva le gambe e io spalancavo la bocca e gli occhi, lei aveva il petto gonfio e una leggera peluria rossa sul corpo tornito, io ero come miniaturizzata, la sorella minore che ha tutto da imparare, che crede ancora alle bambole. Ma non ci credevo più. Memorie di una Maitresse americana è stato questo : il mio salto generazionale senza corpo. Con la testa mi precipitavo fuori casa, tra i bordelli e le strade americane battute dal vento, mi spingevo più in là per capire come avrei fatto io, a mia volta, a fuggire dalla mia prigione, dagli sguardi senza testa che popolavano i miei incubi da sveglia, ma il corpo non cresceva, restava bambino, e con questa scusa potevo farla franca. Gli adulti avevano la loro enciclopedia monumentale per ricercare l’ultimo re, io avevo il mio libro mondo per cercarmi quando non mi trovavo.
[ madre, tu che sai sempre tutto : mi mai hai scoperta? No, non mi hai mai scoperta : sono scoperta da sempre ]
Appena un rumore varcava la soglia di casa io correvo giù a precipizio, scivolavo le scale sbattendo le ginocchia sull’ultimo gradino, mi arrampicavo, riponevo la copia di Adelphi che allora mi sembrava grande e pesante sul ripiano più alto, nascosto dietro il nascondiglio dei nascondigli, e fingevo indifferenza, con il viso rosso di vergogna e di eccitazione per la mia scoperta sensibile. Ero adulta anche quando non avevo che un piano liscio al posto del petto, mentre la sorella americana si dimenava ancora tra le radici della testa, prendeva una carrozza e scappava verso Saint Louis – e io la seguivo ammattita, col desiderio rosso di ricominciare quelle pagine.
A volte ne saltavo, volevo percorrere la storia al contrario : tornare sempre al principio, alle prime pagine in cui con una penna dorata scalfiva i dolori adolescenziali per farne materia di studio. Studiava i movimenti degli animali con una passione tremolante eppure stretta come stringeva le gambe per sperimentare nuove modalità di rumore. Io la seguivo, seguitavo a non parlarne con nessuno : erano i miei nove anni, i miei novembri frebbrili che dovevano essere scaldati dalla monta dei calori. E precipitavano stelle, magma infuocati dai calcagni alla punta più alta della testa, sul suo naso che immaginavo all’insù. Lei si descriveva con una tenacia da prima donna, ma era anche l’ultima, e questo mi piaceva : essere con lei tra gli ultimi, ultima arrivata nel bordello, a fare le fusa con uomini maturi e gonfi di vino e di liquido bianco negli occhi. Da allora vedo sempre quei corpuscoli come piccoli spermatoozoi che viaggiano in cerca di un ovulo da fecondare : strizzavo le palpebre per oscurarle alla grande bugia di casa, le premevo forte con le dita piantellate sulla parte molle e vedevo il bulbo colorarsi di arancione intenso, un fuoco denso e vivo in cui vivevano le microparticelle con la testa più grande del corpo. Immaginavo facesse così anche lei, la piccola prostituta di campagna che prima di partire voleva provare il dolore delle cose, la rugosità delle giornate assolate e assetate. Poi mi hanno spiegato che si trattava solo di polvere.
[ padre, perché non hai tagliato la testa anziché tagliare un libro? perché non hai la testa?]
Volevo i suoi capelli rossi, la sua posizione supina, i suoi fianchi coperti di stracci e di lustrini sporchi : la sporcizia mi piaceva, vendicava gli atti di pulizia che venivano compiuti ripetutamente in casa. Mangiavo la terra, e i sassi, e le ossa lasciate sui piatti, e con lei mangiavo tutto, mi rotolavo sugli spazi vivi di quelle noie da sabato pomeriggio, quando i libri di scuola non bastavano e io non bastavo a me stessa. La piccola ragazzina cresceva e io mi fermavo appena prima, tornavo indietro, volevo di nuovo il pagliericcio e la sua prima volta, descritta con una punta di ferro infiammata, incisa sulla lapide della sua età adulta.
“A sedici anni ero piena di quelle che seppi si chiamavano illusioni; nella mia testa c’era una gran confusione, su che cosa era il mondo, su ciò che la vita offriva, quali effetti aveva su una persona, e come sarebbe stato il futuro. M’informavo ascoltando e osservando. Avevo un corpo molto bello e robusto, seni meravigliosi, pieni ma non fuori misura, coi capezzoli di un rosso fragola, non scuri o macchiati come hanno certe donne. Avevo una pelle di un rosa perlaceo, i capelli e la peluria alle ascelle e in mezzo alle gambe di un oro rossastro. Ero prudente per natura, spesso però anche troppo fiduciosa. Non mi ero ancora resa conto che la società fuori dalla nostra portata aveva soltanto una sottile vernice di moralità e di valori sociali – come la crosta di una torta. Frasi convenzionali e cortesia formale.”
Era la sua scrittura di carne a catturarmi, come se ci fossero zampate animali e pagine sporche di sangue mestruale sulla curvatura della copertina consumata : l’ammiravo per questo. Per il suo saperci fare con la crudeltà e le stellate. Per questo forse ho cominciato a dire il nero del nero, a lottare per l’indicibile : perché tutto quello che non si poteva dire né sussurrare andava scritto, trafitto sulla tela, macchiato dell’irresponsabile e di tutto l’opposto : la responsabilità del vero. Con cui lei parlava, con cui io ascoltavo. E così l’amore – inciso sul foglio al suo grado zero.
“Avrei dovuto accorgermi che mi ero innamorata. Ma non avevo mai avuto un’esperienza simile, non sapevo come un atto potesse diventare un sentimento e una follia che sconvolgeva e annullava tutto il mio vivere, tutte le mie difese per proteggermi. Tutto era liquefatto, come fossi fatta di zucchero e mi stessi sciogliendo dentro una vasca da bagno. Ero una giovane puttana piena di confusione che in quel momento desiderava l’amore come avrebbe desiderato un’altra testa.”
Eravamo l’indice dei libri proibiti, eravamo proibite, eravamo due donne sul pagliaio, eravamo sporche di fango, spalancate, addormentate sul letto del bordello, eravamo arrampicate allo scaffale della libreria fasulla, eravamo di pietra e di foglia, eravamo ammuffite, eravamo fresche, eravamo indici, radici di parole mescolate all’aria, tuoni di fine stagione, sempre fuori stagione, inopportune, verità con la testa alzata, capogiri del reale, piccole minacce per gli sconosciuti : eravamo proibite. Restiamo proibite anche in questo scriverci a distanza da secolo a secolo, in questo ricostruire i passi, fare memoria delle cose perdute, delle case senza tetto, dei seni maturi, di quelli buoni al latte, delle carcasse, del pagliericcio che ho incontrato più adulta, della sua irriconoscenza.