In Eileen, adattamento del romanzo di Ottessa Moshfegh, il regista William Oldroyd aggiorna i codici del noir classico attraverso il torbido rapporto fra le due protagoniste. Alcune persone sono persone vere: come in un film, sono quelle che guardi, quelle che agiscono. E le altre persone sono lì solo per riempire lo spazio, e le diamo per scontate. (…) Tu sei una di loro, Eileen.
Nella scena d’apertura di Eileen, il personaggio del titolo non agisce: al contrario, guarda. L’azione è riservata a una coppia intenta a scambiarsi effusioni all’interno di un’auto, mentre Eileen Dunlop, ragazza poco più che ventenne, si masturba spiando i due amanti dal proprio veicolo. Non è solo l’eros a essere negato a Eileen, se non in forma onanistica: l’intera esistenza della giovane appare ‘congelata’, come non cessa di ricordarle con toni di aspro biasimo suo padre Jim, interpretato da Shea Whigham. Ed è appunto al padre, ex funzionario di polizia costretto alle dimissioni a causa dei comportamenti paranoici e dell’alcolismo, che Eileen dedica le proprie giornate: orfana di madre, abbandonata da una sorella che si è fatta una famiglia – e una vita – altrove, la ragazza è intrappolata nella routine della provincia innevata del Massachusetts del 1964, in uno scenario in cui, come viene rimarcato nel film, non sembra esserci spazio per il sogno e l’immaginazione.
Eileen e Rebecca: le donne in noir di Ottessa Moshfegh
Alla base della pellicola, opera seconda del regista britannico William Oldroyd, c’è l’omonimo romanzo d’esordio della scrittrice americana Ottessa Moshfegh, pubblicato con successo nel 2015 e seguito, tre anni più tardi, da Il mio anno di riposo e oblio. Mentre il libro assume la prospettiva del personaggio di Eileen Dunlop attraverso una lunga analessi risalente a mezzo secolo prima, il film di Oldroyd, adattato dalla stessa Moshfeg insieme al co-sceneggiatore Luke Goebel, rinuncia al ricorso al flashback, ma in compenso mantiene la focalizzazione su Eileen: è la protagonista, affidata all’attrice neozelandese Thomasin McKenzie, a offrirci costantemente il proprio punto di vista sugli eventi, tra fugaci inserti onirici (l’amplesso con una guardia carceraria, improvvise esplosioni di violenza) e la curiosità mista ad attrazione nei confronti di Rebecca Saint John, la nuova psicologa in servizio presso il carcere minorile in cui Eileen lavora come segretaria.
Eileen Hathaway
Rebecca, nome ispirato a Ottessa Moshfegh dall’inquietante donna-fantasma del capolavoro di Alfred Hitchcock, si materializza agli occhi di Eileen come una visione dal fascino inesorabile: la vaporosa capigliatura bionda, l’eleganza sofisticata e sottilmente provocante, la sigaretta sospesa fra le labbra, lo charme in cui si intrecciano seduzione e mistero. Più che una creatura in carne e ossa, Rebecca si manifesta come la proiezione di un archetipo di femme fatale: una figura a metà fra Gene Tierney e Barbara Stanwyck, incarnata da una sorprendente Anne Hathaway secondo un approccio recitativo che verte in direzione dell’artificio. Se la Eileen di Thomasin McKenzie aderisce al modello dell’ingénue, una gabbia da cui anela a fuggire, Rebecca è l’oggetto di un desiderio omoerotico che però corrisponde innanzitutto una volontà di identificazione: una donna emancipata, autorevole, sicura di sé e del tutto a proprio agio nelle interazioni con gli uomini.
“Le persone si vergognano dei propri desideri”, commenta Rebecca, da cui Eileen non esita a lasciarsi irretire: dalle confidenze negli uffici del riformatorio, che presto scivolano in accenni di flirt, alla sensuale danza in un pub sulle note di Tell Him delle Exciters, Rebecca dà rinnovato slancio agli impulsi della protagonista, ma al contempo fa emergere i lati oscuri della ragazza, a partire dalla sua tentazione per il parricidio. È il trait d’union fra Eileen e il primo lungometraggio di William Oldroyd, Lady Macbeth, in cui le pulsioni erotiche conducevano il personaggio di Florence Plugh verso una feroce consapevolezza di sé. Se nel film del 2016 la cornice era il melodramma vittoriano, qui Oldroyd rielabora invece convenzioni e stilemi del noir classico hollywoodiano: dal tema canonico della perdizione al senso di fatalità che grava sull’intero racconto, dalla passione come fonte di pericolo all’attrazione morbosa per il delitto, simboleggiata dal giovanissimo Lee Polk (Sam Nivola).
Eileen
Rinchiuso nel carcere minorile, l’adolescente Lee costituisce un ulteriore polo d’interesse per Eileen: lei lo osserva mentre dorme nella sua cella e consulta di nascosto le foto dell’omicidio che ha commesso, atto di ribellione contro un padre-padrone affiliato alla polizia, proprio come quello di Eileen. È un altro indizio della natura intimamente noir del film: l’idea di un delitto destinato a ripetersi, di un odio represso in attesa di affiorare in superficie, e ancor più di una metamorfosi tanto mostruosa quanto liberatoria. Perché se Anne Hathaway presta il volto a un tipico esempio di dark lady, l’ultimo atto del thriller di Oldroyd corrisponde a un emblematico ribaltamento dei ruoli: è Eileen ora la donna elegante (mentre Rebecca, di contro, indossa un semplice cardigan), determinata, pronta a sfoderare la pistola e a reclamare giustizia per lo sventurato Lee e, di riflesso, anche per se stessa. Il tutto nell’arco di un finale sfacciatamente ambiguo, ma in fondo assolutamente coerente con il percorso di una protagonista impegnata a ridefinire la propria identità, qualunque sia il prezzo.