Per Frida Kahlo “il surrealismo è la magica sorpresa di trovare un leone in un armadio dove si è certi di trovare delle camicie”. E il cineasta Luis Ortega ha preso alla lettera l’aforisma della celebre pittrice per firmare El Jokey, lungometraggio in concorso alla 81.ma Mostra del cinema di Venezia (SEGUI LA DIRETTA – GUARDA LO SPECIALE – GLI ARRIVI E I LOOK DI OGGI). Come nella precedente pellicola L’angelo del crimine (candidata all’Oscar come miglior film straniero) il regista argentino stravede per il noir. Ma questa volta, la cronaca nera cede il passo allo humour nero. Tra cavalli che si chiamano Mishima, cocktail di Whisky e ketamina, la pellicola è un’overdose di frizzi, lazzi, simboli, balletti, sogni, incubi. Il confine con la fantasia è alacramente spazzato via come una striscia di cocaina aspirata da una narice arrossata in crisi d’astinenza.
Remo Manfredini è una leggenda nel mondo dell’ippica. È il Diego Maradona dei fantini. Stravince ogni corsa, però allo stesso tempo ama strafarsi: dal Ketanol alla bamba. Il ragazzo soffre di cupio dissolvi, ha sete di disastro. La dipendenza da droghe e alcol rischia di eclissare il suo innato talento e di distruggere la relazione con Abril, la sua ragazza. Tuttavia basterebbe vincere una gara per cancellare i debiti che Reno ha con il boss mafioso Sirena, risolvere la situazione e magari cambiare abitudini e stile di vita. Ma chi nasce tondo non muore quadrato. A pochi metri dalla vittoria, Manfredini si schianta contro la barriera di protezione. Ricoverato in ospedale, si sveglia all’improvviso e inizia a vagabondare per le strade di Buenos Aires in abiti femminili, rubati a un’anziana degente. Senza più una precisa identità, l’ex fantino tenta di scoprire chi vuole essere davvero. Solo che il gangster Sirena ha sguinzagliato i suoi scagnozzi pronti a ritrovarlo: vivo o morto.
La psicomagia di Alejandro Jodorowsky. Le strade perdute di David Lynch. Il Vagabondo delle stelle, il romanzo scritto da Jack London 1915. Nel libro il narratore è sottoposto a torture fisiche così intense da subire un’anamnesi: la perdita dell’oblio. Può ricordare tutte le sue vite passate. Dopo le torture, viene condannato a morte, ma nessuno può strangolare la sua immortalità. Tutte queste suggestioni vengono centrifugate in El Jockey alla velocità della luce. Il risultato è un’opera fluida, irrisolta, bizzarra, però non priva di fascino. Tra formiche che entrano nel naso in omaggio al celebre cortometraggio Un chien andalou, realizzato da Luis Buñuel e Salvador Dalí, e consigli su come mantenere luminose le mèche ai capelli, Ortega riflette sul famoso verso di Rimbaud “l’io è un altro”. Confuso e felice, il protagonista gioca ai quattro cantoni con il gender. E il risultato è un’opera che non rientra in nessun genere e degenera piacevolmente in un’allegra confusione in cui maschile e femminile si abbracciano, si fondono e si confondono. L’unica legge a cui obbedisce il lungometraggio è quella del desiderio, come nel primo Almodovar. Sicché risulta infruttuoso cercare un senso a ogni sequenza, a ogni mutazione, a ogni salto temporale. Per citare il Thomas Eliot di Gerontion Non sei né giovane né vecchio ma è come se dormissi dopo pranzo. Sognando di entrambe queste età. O al limite, più prosaicamente, perdersi nel sorriso di Úrsula Corberó, regina di questo labirintico castello di carte degno di una litografia di Escher.