Solo sfogliando i giornali (non quelli italiani che di esteri si occupano poco e male) è ancora possibile trovare una varietà di opinioni e di cronache che aiutano a farsi un’idea di quel che accade in paesi lontani. Sto pensando, naturalmente, al Venezuela di queste settimane così dure e terribili in cui è stato difficile farsi un’idea di quel che accadeva se non attraverso un lavoro di navigazione nella rete che comporta un impiego di tempo che non tutti possono permettersi ma che consente di farsi un idea degli avvenimenti e dei personaggi. Per esempio, aver potuto vedere e sentire, grazie a Youtube, Corina Machado intervenire in parlamento sfoderando foto dei morti durante i disturbi e poi fuggir via senza ascoltare l’incalzante risposta della collega “chavista”, aiuta a capire il personaggio e a misurarne la sfrontatezza quando, dopo il suo intervento all’OSA sotto la bandiera del Panama e la conseguente decadenza da parlamentare venezuelana, ha dichiarato che rimetterà piede in Parlamento checché ne dica il Presidente Diosdato Cabello.
Sul “Guardian” inglese, abbiamo letto una cronaca di Mark Weisbrot che dava una visione della città di Caracas alquanto diversa (e più tranquillizzante) di quella che ci offre l’assatanato El País, che anche il 30 marzo, ha aperto vistosamente la sua edizione America con un’intervista a Corina Machado di Alfredo Mez ed Ewald Schaerfenberg, in cui i giornalisti hanno posto domande corrette, seguito da un articolo di Cristina Marcano, “I rapporti smisurati fra L’Avana e Caracas” che ne dice di tutti i colori rivelando il vero pericolo per il mondo: la cubanizzazione del Venezuela!
Quanto alla Machado, voglio riportare solo qualche riga della sua intervista. I giornalisti le chiedono: “Lei ha sempre detto che è impossibile sconfiggere il regime attraverso le elezioni. C’era bisogno di tutto quello che è accaduto per rivelare alla comunità internazionale l’aspetto repressivo del Governo? Perché non aspettare che scadano i termini previsti dalla Costituzione per convocare alle elezioni?”. Risposta: “Crediamo nelle elezioni per definire il futuro. Ma ciò deve essere accompagnato da una grande mobilitazione cittadina che faccia retrocedere un regime che ha cooptato tutte le istituzioni. Pensiamo a quel che si è ottenuto in queste settimane di lotta. Pensiamo al Venezuela della fine di gennaio e a quella della fine di marzo. Un paese che da fuori era visto come terrorizzato e rassegnato, senza forza in contrapposizione a un Venezuela che si è svegliato e ha strappato la maschera democratica del Governo”. Domanda: “Questa è la parte epica, ma ci sono 36 morti e più di 1.000 detenuti”, risposta: “In Venezuela la delinquenza è smisurata. L’anno scorso hanno assassinato 25.000 persone. E vogliamo a discutere di 36 morti quando in Venezuela ogni giorno vengono assassinate 60 persone?”. L’energica Corina Machado non sembra molto versata per un discorso politico da leader dell’opposizione.
L’articolo della Marcano, corredato da un riquadro sulla presenza di cubani in Venezuela, è un capolavoro di luoghi comuni, di malignità e di “si dice”. Sostiene che ormai più di centomila cubani si sono insediati in quel paese amico per farsi mantenere, eppure riuscendo diabolicamente a farsi pure ringraziare dagli ingenui venezuelani, convinti di ricevere da Cuba grandi favori mentre sono proprio i cubani a dover ringraziare per il petrolio a prezzi di favore che ricevono, il che è anche vero. Ma chi sono questi occupanti stranieri di quel bel paese tropicale? Sono “burocrati, medici, infermiere, dentisti, scienziati, maestri, informatici, analisti, tecnici agrari, tecnici dell’elettricità, operai e cooperanti culturali. Anche nei Servizi Segreti e perfino nelle Forze Armate”. Eppure, astutamente “ancorata in una vecchia dittatura comunista, l’isola ha avuto ben chiaro dove trovare i dollari per mantenersi a galla. Negli ultimi 15 anni, quella lingua di 108.000 chilometri quadrati, con una delle economie più arretrate, è riuscita a saziare il suo appetito in Venezuela, un paese nove volte più grande, tre volte più popolato e con enormi risorse; fra cui le maggiori riserve di petrolio del mondo”.
Sulle ragione di tutto ciò la brillante giornalista non spreca una parola, non si chiede il perché, non allude alla solidarietà della maggior parte dei paesi dell’area a Maduro, non ricorda la situazione disastrosa del paese nel campo della salute pubblica, dell’alfabetizzazione, del problema abitativo.
D’altra parte, a El País interessa solo la demonizzazione del Venezuela e della sua eminenza grigia, Cuba.
Per fortuns, trovo sul quotidiano messicano La Jornada, l’intelligente articolo di Oliver Stone e Mark Weisbrot (28 marzo) sull’isolamento di Barak Obama nel contesto latinoamericano sulla questione del Venezuela, facendo notare che “Il Governo di Obama, in maniera surrealista, sembra non aver idea che questo continente è molto diverso da quel che era 15 anni fa”. Sono governi che respingono decisamente il quadro fornito da Washington dei recenti avvenimenti del Venezuela, compresa la neo insediata Michelle Bachelet, a capo del tradizionalmente conservatore Cile che ha usato senza remore la parola “destabilizzazione”. La conclusione di Stone e Weisbrot è lapidaria: “Se il governo di Obama desidera migliorare i suoi rapporti nella regione, potrebbe cominciare con l’unirsi al resto del continente nell’accettare i risultati delle elezioni democratiche”. Vien voglia di dire: “Elementare, Watson”.
Tornando ancora a El País, ricopio questa perla del giornalista Antonio Navlón (“Venezuela, il prezzo del riscatto cubano”, 17 marzo) sempre sul tema della cubanizzazione del Venezuela: “Personalmente considero che potrebbe essere Cuba, con Raúl Castro alla testa, a consegnare la rivoluzione chavista agli Stati Uniti, in cambio di ottenere il ritiro del blocco per Cuba”. Chi offre di più?