“Avevo 16 anni, durò un’estate, la bestia si chiamava Sheba. Entravo nella gabbia, roteavo la frusta, lei si alzava pigramente, si sedeva, come un cane, per fare un flebile ruggito. Diciamo che mi piacciono i gatti. Sono una buona compagnia”.
Il fantasma statuario che tiene a battesimo la ferocia, che distilla ruggiti: un fotogramma degno di simbolo, in simbiosi con un’indole inattuale, infera. Christopher Walken, semplicemente, è il più eccentrico degli attori americani: sfugge a ogni ruolo, interpreta il crollo, l’armonia nel delirio, la mania dietro l’angolo di casa, la visione che ci tormenta dalla nascita, come un’ascia, l’ambivalenza e l’enigma. Christopher Walken è la Sfinge seduta sul moloch della filmografia americana, l’epica del disfacimento, silente, meticoloso, ottimo. Egli è il re dell’altro mondo, è il lato notturno, nottambulo del cinema, è Ismaele e Caino, la dissipazione in ghingheri, l’etimo di una scelta sbagliata, il bivio inesatto.
“La mia vita è un accidente, la mia carriera è un insieme di incidenti”, dice lui, serafico fino al rischio di sparire. George Lucas lo contattò per la parte di Han Solo in Star Wars, “Per fortuna è andata a Harrison Ford, sarebbe stato un disastro…”. Invece, s’imbarca senza repliche nel western omerico, barocco, esagerato, impossibile, I cancelli del cielo, che cancellò Michael Cimino dal cinema che conta: fu uno dei più clamorosi fallimenti della storia del cinema, indimenticato; Walken è Nathan D. Champion, allevatore che resiste alla violenza con l’intemperanza dei giusti. Due anni prima, nel 1978, per Il cacciatore, film di sovrumana potenza – ancora Cimino, a razzolare nello splendore del disfacimento –, Walken aveva ottenuto l’Oscar come “miglior attore non protagonista”. In effetti, è sempre stato non protagonista, Walken, il turbinio di ombre dietro le star, disadatto alla fama capitale, in una contea di elusioni, un cobra. Il protagonismo va lasciato agli attori apollinei, a quelli eccessivi, da poster, infine ornamentali – è nei pertugi, tra le trame impervie, che si nasconde il genio.
Era stato Woody Allen, in verità, in Io e Annie (1977), a intuire gli aspetti ‘disturbati’, disturbanti, di lieta follia in Walken. Interpreta il fratello di Annie/Diane Keaton, Walken, e a un certo punto esce con la battuta, storica:
“Posso confessarle una cosa? Mi capita di guidare di notte, e vedo due fari venire verso di me. Rapidissimi. Ecco: ho come un impulso improvviso di girare il volante, di fronte all’auto che avanza…”.
Christopher Walken non è prepotente come Robert De Niro, non è bello come Robert Redford, non è versatile come Leonardo Di Caprio o Daniel Day Lewis, non è off come Rutger Hauer o cool come Johnny Depp: la sua singolarità lo rende per lo più inavvicinabile, la longevità non sembra corrodere un mito in minore, sempre in guardia, che non ha pari perché al di là della gara. Per capire il carisma lento, letale di Christopher Walken bisogna vedere film laterali, I mastini della guerra (1980), in cui interpreta un mercenario, in Africa, di inquietante eleganza, King of New York (1990) di Abel Ferrara, La zona morta (1983) di David Cronenberg, soprattutto, dove è un uomo slavato da un dono terribile, che gli fa vedere il futuro delle persone che entrano in contatto con lui. Probabilmente Walken non ha il physique di sostenere un film da solo: proprio per questo ha raffigurato la caduta e la fragilità, lo sterminio delle speranze, il candore di un eroismo votato al niente, un certo pudore, perfino, nel dirimere il bene sotto assedio del male, elencare la certezza mentre si trema e si crepa, con quel viso da impenetrabile confessione, segregato in un segreto di vetro, bellissimo. Egli è l’uomo che si disfa per mostrarci il premio: l’esigenza di una vita senza encomio, amata sulla cruna della crudeltà, consapevoli dell’insopportabile, belli.
Christopher Walken resta Penia, il vampiro di The Addiction (1995, gira Abel Ferrara), che umilia la fame col digiuno, estasi dell’ascetismo oscuro; resta “Nick”, il ragazzo del Il cacciatore che dopo il Vietnam, per eccesso di grazia e disperanza, resta a Saigon, adempie il nulla, l’azzardo per il gusto, azzerandosi. Dall’eccesso di bene all’eccessivo niente: Walken è forse l’attore autenticamente dostoevskjiano della cinematografia occidentale, elegge il sottosuolo a genere, e travalica il male con l’ago di un bene ulteriore, invalicabile, barbaro. Barbara gioia della vita violentata.
Troppo vasta la filmografia di Christopher Walken: ora è in tivù in un film della BBC, The Outlaws. Sei puntate, ambientate a Bristol, dirette da Stephen Merchant. “Ho sempre amato i ruoli di personaggi decentrati, nel gorgo del caos: gangster, suicidi, cose simili”, dice lui, ora. Tra i film che ha preferito girare c’è Cortesie per gli ospiti (1990; filma Paul Schrader, la sceneggiatura è di Harold Pinter), in cui interpreta un omicida che ama le pratiche sadomaso. Nella serie, è un criminale americano, Frank, beccato, che deve ripagare la comunità attraverso vari lavori ‘socialmente utili’. “Non ho passatempi. Tennis, nuoto, golf? Non mi interessano. Recitare è ciò che amo, e ho un forte senso del lavoro, mi viene da mio padre. Se non sono in giro per lavoro, non mi piace uscire di casa”, dice lui. Il monaco del cinema – spoglio, come un re privo di troni, orpelli, ruoli, destituito da tutto, che per questo incute una paura ancestrale, senza profitto, perfetta.