Ho letto Il modo di dire addio, il libro che raccoglie diverse interviste rilasciate negli anni da Leonard Cohen, ascoltando allo stesso tempo le sue canzoni, disordinatamente, a volte riascoltandole anche due o tre volte in seguito, facendole ripartire un istante dopo l’ultima nota. Ci manca Leonard Cohen e nelle pagine di questo libro, a dispetto del bellissimo titolo, il modo di dirgli addio proprio non si riesce a trovare. Vien voglia di cercare L.C. da qualche parte dove è passato, nelle città dove ha vissuto, Montreal – in due strade a suo dire “meravigliose”, Belmont e Vendome – Londra, New York, Los Angeles, ma anche l’isola greca di Idra, e a Cuba, a L’Avana. Lo ritroviamo nelle canzoni, certo, e nei libri che ha scritto. Curato dal giornalista americano Jeff Burger, questo volume (pubblicato in Italia dal Saggiatore) è, come dire, una panoramica d’artista.

Ora, cos’è una visione panoramica se non un insieme di dettagli, ognuno dei quali un nuovo paesaggio che si schiude su se stesso, nuovi particolari su cui potersi soffermare, addirittura perdersi? «Non ho mai ricercato assiduamente la verità», dice Cohen, e questo è proprio uno di quei dettagli-paesaggio, anche perché probabilmente è un’affermazione non vera. Per lunghi tratti della sua vita Cohen ha tentato di scomparire, ha coltivato l’assenza, sempre scosso da un male interiore che ha cercato di arginare con dipendenze di varia natura, con l’amore, la meditazione, la scrittura. Nei primi anni ‘70 se ne esce così: «Ho deciso di smettere […] Mi sono ritrovato a non scrivere neanche una riga. Non so se voglio scrivere o no. Mi trovo a questo punto […] per cui ho deciso di mandare al diavolo tutto e andarmene. Non è detto che l’altra vita sarà ricca di bei momenti […] ma questa so com’è, e non è quello che voglio. […] Sento solo di voler starmene zitto. Nient’altro che zitto.» E allora via, basta, niente più interviste. Poi una volta un ragazzino di sedici anni che è rimasto stregato dalle sue parole e che ha ambizioni da giornalista decide di tampinarlo in albergo, «per pura fortuna, entrai in ascensore e ci trovai Cohen intento a chiacchierare con una ragazza molto carina, anzi, proprio bella», e gli chiede un’intervista, e Cohen accetta, offrendogli un bicchiere di vino nella hall dell’albergo. Il ragazzino manda l’intervista al NME, «non è possibile, Cohen non rilascia interviste», fino a quando si ritrovano il pezzo sulla scrivania e devono cambiare idea.

La musica e Cohen si incontrarono relativamente tardi. Ha studiato lettere, scritto un paio di romanzi e pubblicato raccolte di poesie. Certo, ha messo su una band, i Buckskin Boys, ma senza troppa convinzione. Ha pensato di poter fare l’avvocato, frequentando per sei mesi la facoltà di Legge. Poi a trentatré anni pubblica il suo primo disco, «Songs of Leonard Cohen». Vale la pena di scorrere la scaletta per intero. Suzanne, Master Song, Winter Lady, The Stranger Song, Sister of Mercy, So Long, Marianne, Hey, That’s No Way to Say Goodbye¸Stories of the Street, Teachers, One of Us Cannot Be Wrong. Fermarsi un attimo. «Se si prende il ruolo della malinconia troppo sul serio, si finisce per perdere gran parte della propria vita», dice in un’intervista. Per aggiungere subito dopo: «ci sono cose contro cui ribellarsi e cose da odiare, ma c’e anche tanto di cui godere, dai nostri corpi alle nostre idee. […] Rifiutandole o disdegnandole, siamo colpevoli quanto coloro che vivono passivamente.» Tra le tappe più singolari e meno pubblicizzate del tour 1970 tra Stati Uniti e Canada figuravano alcuni ospedali psichiatrici. Lì dentro, sosteneva Cohen, «manca tutto quel senso di lavoro, di spettacolarità, di dover emozionare le persone».«Queste persone vivono nello stesso mondo da cui vengono le mie canzoni. Sento che le capiscono.»

«Ho quell’impermeabile da ormai dieci o dodici anni. È il mio impermeabile».

Quando l’isolamento diventava improrogabile, Leonard Cohen si rifugiava in un monastero giapponese sui monti della California. «È un po’ come fare le pulizie di primavera. Di tanto in tanto la polvere e i vestiti sporchi si accumulano negli angoli ed è tempo di dare una bella pulita», dice nel 1983.  Una volta si stava preparando a un’intervista per Rolling Stone. Scherza e chiacchiera con i cronisti del giornale. Nel loro racconto: «D’istinto io e Freddy avevamo adottato un atteggiamento amichevole, quasi confidenziale nei suoi confronti, perciò non dimenticherò mai quando si voltò e disse: ‘Ascoltate, voi ragazzi mi piacete, ma non pensate che siamo amici solo perché ce ne stiamo qui seduti a parlare. Nell’antichità, quando due giapponesi si incontravano, passavano almeno mezz’ora a inchinarsi e salutarsi, avvicinandosi gradualmente, perché comprendevano la necessita di penetrare con attenzione le rispettive coscienze’».

I nonni di Leonard Cohen, sia per parte di padre che di madre, erano entrambi rabbini, “uomini illustri” come spiega con una punta d’orgoglio, originari dell’Europa dell’Est ed emigrati in Canada. Il ruolo dell’ebraismo e delle radici europee nella vita di Cohen vengono sviluppati in una lunga intervista, uno sfoggio di erudizione scosso da elettricità e tormento. Racconta di quando Allen Ginsberg gli chiese come facesse a conciliare l’ebraismo con le dottrine zen, con “tutto questo e lui rispose «semplicemente che dentro di me non vi era nessun conflitto. Non credo siano due cose mutualmente esclusive, a seconda di come le se interpreti». Del resto, Cohen aveva “ficcato il naso”, così la mette lui, anche dentro Scientology, tanto che Famous Blue Raincoat conserva echi di quella dottrina.

Negli anni ‘90 Cohen è un uomo ormai maturo, sulla sessantina, ma tutt’altro che pacificato. Le relazioni sentimentali sono sempre difficili e la stabilità è lontana. Nel tempo, Cohen ha avuto due figli da Suzanne Elrod. Lunghi amori con Marianne Ihlen e Rebecca De Mornay. Un rapporto fugace con Janis Joplin. Un pezzo apparso nel 1993 sul Sunday Times Magazine inizia così: «È notte e a Los Angeles e la città è in fiamme, le periferie messe a ferro e fuoco da ignoti piromani. Dopo gli scontri e le inondazioni, l’intera metropoli sembra turbata da quest’ultima calamita. Eppure Leonard Cohen non perde occasione per ubriacarsi allegramente in un ristorante cinese sul Wilshire Boulevard». Cohen – che sta vivendo l’ennesima crisi sentimentale, anche se la sua riscoperta si sta facendo strada dopo un periodo d’oblio –  si scola tre Bloody Mary in fila, prosegue con “fiumi di vodka” e la conversazione è un disastro, messa giù da Richard Gulliatt, l’intervistatore, con un cinismo parecchio compiaciuto. «Mi sento solo stasera, non so chi chiamare. Sarà una lunga notte, e le mie notti non durano molto, perché mi alzo sempre alle tre e mezza». Per superare il tormento, Cohen torna sulle montagne di Mount Baldy, in California, dai suoi buddhisti. Nel 1996 viene ordinato monaco buddhista zen, il suo maestro lo chiama Jikan, “il Silenzioso”, e sembra davvero che il momento del ritiro sia ormai giunto.

Al principio degli anni Duemila, tuttavia, Cohen “scende” dai suoi monti e ricomincia a bazzicare Los Angeles. È rigenerato, pronto a vivere l’ultima fase della sua vita. Rilascia interviste («Innanzitutto, sentivo di essere giunto a una conclusione. Sono rimasto la per cinque o sei anni. Il mio legame con la comunità, comunque, permane ancora oggi», racconta nel 2001), le etichette pubblicano ristampe dei suoi vecchi dischi o nuove raccolte. Dice di trovare “fantastico” il rap e in particolare i testi di Eminem. Hallelujah, recuperata da Jeff Buckley, è diventata nel tempo un incredibile successo postumo («In un certo senso c’e anche dell’ironia in tutto questo, se ci pensi, perché il disco originale,Various Positions, e quello che la Sony non voleva pubblicare: non lo ritenevano abbastanza buono. Perciò devo ammettere che nel mio cuore è nata una vaga sensazione di rivalsa. Mi ha fatto molto piacere. Poco tempo fa, pero, ho letto la recensione di Watchmen, un film in cui veniva utilizzata, e l’autore del pezzo diceva: ‘Possiamo dichiarare una moratoria sull’uso di “Hallelujah” nei film e in televisione’». E devo dire che sono d’accordo», scherza Cohen).

Nell’introduzione a Il modo di dire addio, Suzanne Vega racconta questo episodio: lei e Cohen si incontrano in un albergo a Los Angeles, e decidono di fare colazione insieme il giorno dopo, a bordo piscina. «Le andrebbe di ascoltare una canzone a cui sto lavorando», chiede Cohen. Lei naturalmente acconsente: «Senza nemmeno un foglietto sottomano, andò avanti per ben otto minuti a declamare un brano dalla metrica perfetta e le rime precise. (Purtroppo, non riesco a ricordare quale.) Rimasi li seduta, incantata. Nel frattempo, alle sue spalle, proprio sotto i miei occhi, spunto una ragazza in bikini, poi un’altra. Si sistemarono intorno alla piscina per una giornata di tintarella e relax. Al termine della canzone, li attorno ci saranno state non meno di nove ragazze in costume. «Non puo immaginare cos’e appena successo!» esclamai, descrivendogli divertita la scena. Senza neanche voltarsi, scrollo le spalle e sorrise. «Funziona sempre» commentò.

Infine. Ci sono degli incroci multipli nelle nostre storie e nella storia in generale, e la coincidenza tra l’elezione di Donald Trump e la morte di Cohen è uno di questi, nient’altro di più che due foglie che si sfiorano casualmente vorticando nel vento. «Le canzoni che scrivo non seguono un programma. Scrivo semplicemente quello che mi viene». A differenza di molti cantautori dall’impegno ben visibile, Cohen è giunto presto a certe conclusioni. «Sai» continuo «e per questo che non voglio immischiarmi nelle esistenze altrui dando consigli. La verità sul mio modo di vedere il mondo e che non ho proprio nessun segreto. L’ho ribadito anche in una canzone: ‘Please understand I never had a secret chart to get me to the heart of this or any other matter’». Quanto alla politica: «Voto per candidati che si presentano bene, parlano bene e hanno meno probabilità di mettere in imbarazzo il paese». Probabilmente non un programma politico, ma può bastare.

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