Ah la Schadenfreude (pron. sciàdenfròide), la terribile e deprecatissima quanto ambivalente «gioia per le disgrazie altrui». Nemmeno Tommaso d’Aquino, gran santo e teologo ma soprattutto finissimo filosofo, riuscì a sfuggire al suo fascino ambiguo, tant’è che nella Summa theologica pare abbia introdotto la seguente superba asserzione:

Affinché quindi la beatitudine dei santi venga da essi più apprezzata, e maggiormente essi ne rendano grazie a Dio, viene loro concesso di vedere perfettamente la pena dei reprobi.

Come dire che più ci si compiace della propria santità quanto più si gode di essere sfuggiti alla pena e viceversa. Insomma bisogna immaginare santi e beati che, contemplando dalle loro nuvolette i dannati gettati nei pentoloni bollenti e inforconati da’ diavoli, godono (come ricci o come furetti, chissà perché) nell’assistere alla pena altrui. Anche l’Aquinate sembra dunque aver sdoganato la gioia malignazza per la disgrazia altrui, almeno a leggere questo divertente ma anche inquietante saggio della storica culturale inglese Tiffany Watt Smith, Schadenfreude. La gioia per le disgrazie altrui (tr. it. di Claudia Durastanti, Milano, Utet/DeAPlaneta Libri, 2019. Ed. orig. Schadenfreude. The Joy of Another Misfortune, Profile Books LDT 2018).

Un termine intraducibile

Che cos`e dunque la Schadenfreude? Innanzitutto una parola tedesca composta da Schaden (danni) e Freude (gioia, quella dell’Inno di Beethoven), detta intraducibile perché non ha un termine unico corrispondente nelle lingue di molti paesi e costringe a ricorrere a una perifrasi. Gli abitanti di quei paesi che conoscono il termine (non molti) e la difficoltà di tradurlo, sostengono di non possederlo perché a loro quel sentimento è alieno, e invece…

 

Un sentimento meschino

La nostra autrice lo dichiara sentimento universale e ben noto al mondo intero e aggiunge che esso suscita oggi grandissimo interesse. Watt Smith ne identifica cinque aspetti ricorrenti. Tra questi, il fatto che la Schadenfreude sia un sentimento un po’ meschino, da tenere nascosto, anche se si prova prevalentemente quando ci imbattiamo in una disgrazia di cui non siamo noi la causa, primo, e che in ogni caso può essere inquadrata, secondo, come una giusta rivalsa, una punizione meritata in seguito a comportamenti scorretti. Sarà. Ma allora che cosa giustifica le matte risate di chi assiste a programmi tipo «Paperissima», trionfo della Schadenfreude, dove si ride della caduta di bambinetti innocenti sulla buccia di banana (la cui immagine stilizzata decora in oro la bella copertina del volume, e ritorna anche nelle pagine del libro a ogni fine di capitolo e paragrafo)? Qualcosa non funziona. Come pure fa riflettere la gioia scatenata, in ambito sportivo, non dalla vittoria della propria squadra ma dalla sconfitta della squadra rivale. O forse, ci si chiede, queste risate maligne rivestono la stessa funzione educativa che avrebbero, a detta di psicologi evoluzionisti non meglio identificati, le scene di disastri e disgrazie, sulle quali prima ci si precipitava di persona e che ora si vanno a cliccare, perché insegnano a comprendere i rischi e a imparare a evitarli? Mah.

Ancora Tommaso, poi Spinoza e Voltaire

Quel che è certo è che noi moderni siamo diventati piuttosto indulgenti nei confronti di questa passione, sulla scorta di Tommaso che moderno di epoca non era, ma sicuramente la anticipava col il suo opportunismo etico; lo troviamo nella opinione del domenicano (che getta una lunga ombra su questo lavoro…) sulla Schadenfreude ma soprattutto nel suo principio del male minore o DDE, dottrina del duplice effetto, accuratamente spiegata da David Edmonds in Uccideresti l’uomo grasso? (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2014). La DDE sostiene che quando si compie un’azione volontaria di norma moralmente non ammissibile (es. l’omicidio di un aggressore) essa può essere giustificata da un secondo effetto indiretto (es. impedire che l’aggressore commetta altre violenze). Dell’effetto inteso e previsto ci si può dolere; di quello previsto ma non inteso invece è lecito godere, nonostante o meglio proprio a causa dei danni recati all’assalitore. Aquinas docet e mette lo zampino persino nel Decreto sicurezza.

Spinoza per parte sua constatava nell’Etica (III, 23) che:

 

chi immagina affetto da Tristezza chi ha in odio, si allieterà; se invece lo immagina affetto da Letizia, si rattristerà.

 

È così, diciamocelo. E anche Spinoza lo constatava, senza ridere, senza mentire e senza detestare, com’era suo costume. Non sarà un bel sentimento la Schadenfreude, ma chi non si allieta quando il collega di lavoro, che magari ti ha fregato il posto cui ambivi, viene sconfessato per qualche scorrettezza, e, piacere supremo, degradato e punito? Il cattivo ha ottenuto quel che merita, se non è un momento radioso e di pura gioia questo?!

Si sottrae invece alle posizioni giustificative dell’Aquinate e di Spinoza il raffinato Voltaire. Nella voce Curiosità del suo Dizionario filosofico Voltaire sembra proprio avere in mente il caso dell’osservazione delle pene dei dannati dell’inferno, quando propone il caso dell’angelo che attraverso una spaccatura della terra contempla le pene dei reprobi: se l’angelo ne godesse, tuona Voltaire, non sarebbe più distinguibile da un diavolo. E allora perché si accorre a questi spettacoli, si chiede Voltaire? Per curiosità, risponde. Controbatte a Voltaire, su questo punto, l’abate Galiani, sostenendo che si tratterebbe di curiosità soltanto se lo spettatore si trovasse al sicuro, su un terreno solido. Immagino che di fronte a quella dotta disputa svoltasi in epoca illuminista Watt Smith, che non la cita, risponderebbe che in ogni caso, che ci si trovi o meno al sicuro e che si osservi dalla riva sicura il naufragio lontano (questo è Lucrezio puro: Suave, mari magno… Bello, quando sul mare si scontrano i venti/e la la cupa vastità delle acque si turba,/guardare da terra il naufragio lontano:/non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, /ma la distanza da una simile sorte. de rerum natura, II,1-4, tr. di E. Cetrangolo, Firenze 1969, p. 73), tale piacere è sostanzialmente innocuo e ha in più molti meriti: la Schadenfreude fa star meglio quando ci si sente inferiori; solleva un po’ l’autostima delle persone, fa capire loro l’assurdità di molti casi della vita.

 

Schadenfreude e vendetta

Un punto che l’autrice affronta soltanto di sfuggita ma che ci sembra degno di attenzione è quello della vendetta e della gioia che essa procura, simile alla Schadenfreude (soddisfazione che gli psicologi rovinano invitandoci a perdonare perché fa bene a tutti). È l’esito di una giustizia fatta in casa che un po’ di soddisfazione, per quanto amara, procura, sempre che la rivalsa sia ritenuta meritata. In quel caso si sarà intervenuti di persona ad arrecare giustizia. La gioia pura scatenata dalla disgrazia altrui invece è determinata per lo più dal caso, che essendo casuale non è responsabile, e ci permette quindi di godere di quella che ci appare una punizione meritata pur essendo spesso un banale incidente, che ripristina egualmente un certo equilibrio morale. E poi pare che i bambini, addirittura neonati sorridano e ridano come matti quando a sbagliare (per es. facendo cadere qualcosa) sono gli adulti. Ha a che fare con l’apprendimento, dicono i soliti psicologi evoluzionisti. O non ha a che fare forse con una punta di sadismo, che fa riconoscere che falliamo sì noi, ma che tutti falliscono, persino i grandi?

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