In un romanzo incredibilmente cronenburghiano ante-litteram del 1972 intitolato Cars Harry Crews raccontava la storia di una famiglia proprietaria di un’enorme discarica di automobili a Jacksonville, Florida che viveva ossessionata dalle macchine. Tra questi, uno dei figli del protagonista, di nome Herman, decide a un certo punto di compiere il più grande tributo a un’automobile che sia mai stato fatto fino a quel momento: mangiare pezzetto per pezzetto, giorno per giorno, un’intera automobile, una Ford Maverick ultimo modello del 1971.
Parte con una sequenza simile Crimes of the Future, l’ultimo film di David Cronenberg presentato lunedì sera sulla Croisette (era il film più atteso a Cannes quest’anno e a lui dedichiamo interamente questo nostro secondo report dal festival): vediamo un bambino su una spiaggia di un’imprecisata località di mare che viene ripreso dalla madre che gli intima di non mangiare nulla di quello che trova sulla spiaggia. Pochi istanti dopo troviamo lo stesso bambino seduto da solo in bagno che stacca a morsi un cestino di plastica ingerendolo a grossi pezzetti come se fosse una normale pietanza. È un’immagine che già setta il mood di questo film ambientato in un imprecisato futuro (che però è anche un passato, dato che è un mondo pieno di aggeggi analogici dove non esiste il digitale) dove l’umanità sta evolvendo oltre i limiti della propria specie. E dove ormai è stato varcato ogni confine che separava l’organico dall’inorganico e il biologico dal sintetico.
I protagonisti della vicenda sono due artisti performativi d’avanguardia, Saul Tenser (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux), che hanno deciso di fare un’arte di questa nuova tendenza della specie umana chiamata Accelerated Evolution Syndrome: quando un corpo è interfacciato con alcuni strumenti tecnologici particolari può mutare in modo imprevedibile, sviluppando nuove protuberanze tumorali e persino nuovi organi dalla funzione sconosciuta. Tra questi strumenti vi è l’OrchidBed dove Saul rimane per gran parte della sua giornata, che è una strana cellula sospesa in aria e attaccata con dei fili al soffitto il cui software riesce ad anticipare il dolore e le sensazioni del corpo di Saul e di farlo mutare di conseguenza. Le performance di Saul e Caprice, che si richiamano a una comunità di freaks e marginali invasati e ossessionati da questi fenomeni, consistono in una rimozione chirurgica pubblica di questi nuovi organi, che vengono esposti e ammirati come se fossero delle vere e proprie opere d’arte. La produzione di organi e di materiale organico corporeo diventa quindi l’ultima frontiera di un’arte d’avanguardia che non si basa sulla produzione di oggetti e artefatti, ma del corpo stesso: oggetto manipolabile e dai confini incerti la cui mutazione diventa parte stessa del processo di produzione artistico.
Già da questa breve descrizione si può evincere come in Crimes of the Future sia presente tutto il classico armamentario iconografico e tematico cronenberghiano. E tuttavia non si può non chiedersi come mai Cronenberg abbia deciso di tirare fuori da questa sceneggiatura vecchia di vent’anni un film del genere proprio ora che tutta la sua filmografia recente era stata segnata da una transizione dal body horror di Scanners, Videodrome o Crash a una riflessione più sofisticata sulla soggettività che aveva finito per includere temi psicoanalitici come in Spider, A Dangerous Method o Maps to the Stars: come se la sua riflessione sulle mutazioni del corpo dal tardo-capitalismo non avesse potuto evitare di incontrare a un certo punto del suo sviluppo una dimensione del corpo che pur essendo invisibile gli era tuttavia centrale come quella dell’inconscio e del simbolico. Qual è dunque il posto di questo film nella riflessione di Cronenberg?
Storicamente ogni riflessione sulla centralità del corpo e sulla sua manipolabilità a partire dai cambiamenti farmaceutici, tecnologici e percettivi che continuamente l’hanno trasformato si è dovuta confrontare con un problema filosofico di fondo: quello del rapporto tra la parola e la materia. Spesso infatti incombe sulle filosofie che hanno rivendicato un primato del corpo – come si legge su un televisore durante una performance di Saul e Caprice: “Body is reality” – il fantasma di un possibile accesso a una dimensione della materia o della corporeità pura, non influenzata e non mediata dall’universo dei concetti e dell’astrazione. Non c’è forse nell’idea che gli affetti e le sensazioni corporee siano più autentiche e vere dei concetti e del pensiero una visione dell’astrazione come seconda rispetto alla materia? Non è forse il dualismo cartesiano la filosofia per eccellenza che deve essere rigettata nel momento in cui si dice che il corpo è la questione fondamentale dell’umano?
O ancora meglio, non sono forse le filosofie che rivendicano una continuità tra l’umano e il non-umano, e tra l’organico e l’inorganico, costrette e rigettare la dimensione del linguaggio e del simbolico come puramente fittizia in un mondo che invece, se guardato dal punto di vista della materia, non può che essere visto come Uno?
Il problema nasce nel momento in cui si deve spiegare l’esistenza dell’opaco e del divergente, dell’ambiguo e del polisemico (o direbbe Lacan, dell’ordine del significante come ciò che può far coesistere due serie di significazioni contemporaneamente e simultaneamente), che ha una sua prima manifestazione proprio nell’ambiguità del rapporto con il proprio corpo come qualcosa da cui il soggetto è diviso e che il soggetto non può rendere fino in fondo trasparente. Lo chiedono a un certo punto del film anche a Saul Tenser: è possibile considerare il proprio corpo, che sviluppa organi ed escrescenze tumorali in modo incontrollato, come autore della propria opera? Qual è la volontà che sta sotto a questo fenomeno? Chi è l’artista? Saul o gli organi del corpo di Saul?
La psicoanalisi ha un nome per questo problema, che è quello di erotica: non la volontà cosciente, ma quella in-consciente che parzializza il proprio corpo, e che rende gli organi diversi tra di loro; e che da liscia fa della materia qualcosa di striato e di diversificato. Il corpo è “erogenizzato” e gli organi vengono caricati di un desiderio diversificato, se è vero che il godimento non è solo un prodotto delle stimolazioni nervose ma è anche il prodotto di un procedimento simbolico (è il motivo per cui alcune persone godono persino di oggetti inanimati esterni al proprio corpo). E in effetti il problema di Crimes of the Future diventa ben presto quello dell’erotica di questo nuovo corpo: si gode tramite tagli nella carne, così come si gode delle cicatrici e delle ferite lasciate sul corpo.
Si potrebbe dire che tutto questo non è nulla di nuovo nell’universo di Cronenberg, dato che era il problema che già stava al cuore di Crash, che è un film del 1996, la cui radicalità è ancora oggi immutata (e probabilmente senza pari nella sua filmografia). E in effetti quello che forse lascia un po’ interdetti di questo Crimes of the Future è proprio la sua freddezza, a volte quasi glaciale in un’immagine digitale tutta a fuoco, e spesso sovrailluminata, dove non ci sono ombre così come non esistono zone grigie. E ha lasciato senza dubbio un po’ smarriti la quantità di parole e di discorsi che lo rendono probabilmente il film più verboso mai fatto dal regista canadese, dove anche le scene chirurgiche che avrebbero dovuto scioccare il pubblico della Croisette impallidirebbero rispetto a qualunque video medico di un’operazione chirurgica.
Ma forse la posta in palio del film è da ricercare proprio in questa esibita freddezza: “surgery is the new sex”, cioè la chirurgia è il nuovo sesso, è uno dei refrain del film. Eppure non c’è niente di erotico e nulla di desiderante in queste sequenze di tagli sui corpi di Viggo Mortensen e Léa Seydoux (per altro mostrati con effetti digitali innaturali per l’estetica di Cronenberg e rudimentali nella loro esecuzione), che semmai manifestano come il film mostri e sia l’emblema di un’eclissi dell’erotico nell’epoca della mutazione inorganica del corpo, dove i confini tra l’esterno e l’interno del corpo sono sempre più incerti. Forse è proprio il segno di come il cinema di Cronenberg – proprio nel momento in cui la sua estetica è diventata mainstream nell’epoca del disincanto apocalittico e della rinascita del body-horror in film come Titane – fosse destinato modernisticamente a essere un cinema della frattura e del conflitto: tra immagine cinematografica e video, tra organico e inorganico, tra cinema e televisione. E che nel momento in cui si fa largo un paradigma dell’immagine diverso – dove le fratture tra corpo e linguaggio sono sempre più invisibili – non possa che risultare inesorabilmente un po’ passé.