Domenica 18 ottobre è morto al Cairo Gamal al-Ghitani, scrittore egiziano tra i più autorevoli e conosciuti del mondo arabo. Lo ricordiamo con un’intervista pubblicata integralmente sulla rivista Lo Straniero nell’aprile del 2009.
Nato nel 1945 nel villaggio di Guhayna, nell’Alto Egitto, presto trasferitosi al Cairo con la famiglia, Gamal al-Ghitani è uno dei massimi rappresentanti della narrativa araba contemporanea, oltre che un acuto commentatore della vita politica egiziana. «Marxista a 15 anni», tra l’ottobre del 1966 e il marzo del 1967 è stato rinchiuso in carcere per le critiche rivolte al presidente Nasser. Da allora, non ha mai smesso di difendere con intransigente determinazione l’autonomia della cultura dagli attacchi del potere politico e religioso. Nello stesso tempo ha costruito con spirito irrequieto – e con una prosa spesso sontuosa – un universo letterario basato su un originale recupero del misticismo islamico, della tradizione Sufi e della storia egiziana pre-islamica.
Tra gli animatori della rivista “Galleria ‘68”, motore del rinnovamento della cultura letteraria egiziana, nel 1969 Gamal Aal-Ghitani è entrato nella redazione del quotidiano Akhabr al-Yom, per il quale è stato corrispondente di guerra per diversi anni, prima di dirigerne la sezione culturale. Nel 1993 ha fondato la rivista Akhbar al-Adab, tra le più autorevoli del mondo arabo, di cui ha continuato a lungo a esserne direttore. Autore di numerosi romanzi e racconti, tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo Zayni Barakat (Giunti, 1997, nuova edizione 2006), Il mistero dei testi delle piramidi (Giunti, 1998), Al di là della città (Edizioni Lavoro, 1999), Schegge di fuoco (Jouvence, 2005). Lo abbiamo incontrato al Cairo, nel suo studio nella redazione di Akhbar al-Adab.
Lei è stato un precocissimo scrittore, tanto da pubblicare il primo racconto a soli quattordici anni. Ci vuole raccontare quali sono state le esperienze che hanno modellato la sua immaginazione letteraria, e spiegare in che senso ha detto che la «familiarità con il quartiere al-Hussein del Cairo ha dato specificità» alla sua scrittura?
Sono nato in una famiglia molto semplice dell’Alto Egitto, ma posso dire di aver aperto gli occhi soltanto quando ci siamo trasferiti al Cairo. La mia era una famiglia molto semplice, mio padre non amava particolarmente la letteratura e avevamo pochi contatti con i nostri vicini. Ma abitando all’ultimo piano di una palazzina nella cosiddetta “vecchia Cairo” ho instaurato presto un rapporto speciale con l’orizzonte: in quel periodo da lassù riuscivo persino a vedere le Piramidi, oltre che i minareti delle moschee del quartiere al-Hussein.
Sin da bambino ho avuto un’immaginazione molto fervida; forse dipendeva dalle storie che raccontava mia nonna, nelle quali, seguendo la tradizione culturale dell’Alto Egitto, si parlava di un altro mondo che attraversava segretamente il nostro. Fatto sta che a un certo punto ho cominciato a raccontare a mia madre delle storie su fatti mai accaduti, per esempio su persone che arrivavano sulla terra da galassie lontane. E mia madre mi incoraggiava, oppure rimaneva in silenzio e ascoltava con attenzione.
A sei anni poi ho cominciato a frequentare le scuole elementari, e ho imparato molto in fretta sia a leggere sia a scrivere: ho letto il primo romanzo, I miserabili di Victor Hugo, a soli sette anni e credo che proprio la lettura mi abbia permesso di accedere a un nuovo mondo, che mi appariva magico e che continuavo ad “abitare” anche nei momenti in cui non leggevo: a otto anni, dopo aver letto Notre Dame de Paris, mi innamorai a tal punto di Quasimodo da camminare per tre giorni come lui. In quel periodo non leggevo soltanto i libri che trovavo nella biblioteca della scuola, ma approfittavo anche delle bancarelle del quartiere universitario per comprare libri a prezzi scontati. Fu così che cominciai a leggere libri di ogni genere, e ognuno mi conduceva verso nuove direzioni.
Nel 1959, poi, si sono verificati due episodi che si sarebbero rivelati importantissimi: il primo è che ho cominciato a scrivere. Ricordo ancora con estrema precisione la sensazione che provai allora (sono cinquant’anni esatti), quando, dopo aver sentito raccontare da mio padre la storia di un uomo molto povero che cercava di rimediare il pane per i propri figli, dissi a me stesso: “voglio provarci anch’io”. Desideravo intensamente provare a scrivere, e così scrissi il mio primo racconto. Il secondo episodio riguarda invece il mio primo incontro con Nagib Mahfouz, che incontrai un venerdì mattina nei pressi della vecchia sede dell’Opera, poi distrutta da un incendio nel 1961. Non so con precisione come riuscii a riconoscerlo, perché allora la televisione non c’era e la sua foto non era così diffusa.
Comunque sia Mahfouz mi invitò a frequentare gli incontri che si tenevano ogni venerdì (e che per una curiosa coincidenza erano iniziati proprio nel 1945, l’anno della mia nascita) in un caffè che ora purtroppo non c’è più. Fu in quel periodo, inoltre, che cominciai a maturare i miei interessi politici: provenivo come le ho detto da una famiglia molto povera, e nonostante Nasser dicesse che in Egitto voleva costruire – o che aveva già costruito – un sistema socialista, io ritenevo insoddisfacenti le sue politiche. Il suo socialismo mi sembrava molto distante da quello di cui leggevo sui libri. Durante l’adolescenza infatti avevo cominciato a leggere diversi testi della tradizione comunista e socialista, tanto che a soli quindici anni divenni marxista e a sedici mi unii a un partito clandestino di ispirazione maoista. Oltre ai testi del marxismo cinese lessi anche Marx ed Engels e tutto quello che riuscii a trovare sull’argomento: riconobbi subito che si trattava di testi importantissimi, utili per costruirmi un’adeguata visione del mondo e per interpretare la situazione egiziana.
La frequentazione con Mahfouz si è trasformata in un’amicizia intensa e duratura, di cui restano tracce per esempio in The Mahfouz Dialogue, un libro pubblicato dall’American University Press del Cairo in cui lei ricostruisce con partecipazione lunghi anni di discussioni e incontri. Secondo lei qual è l’eredità più rilevante di Mahfouz, e perché ha rappresentato «la coscienza dell’Egitto», come ha sostenuto in occasione della sua morte?
In una società come quella egiziana, che non ha ancora raggiunto la “stabilità” propria delle democrazie occidentali, ogni scrittore è costretto ad assumere un ruolo pubblico e finisce per rappresentare inevitabilmente la coscienza del paese. Anch’io in un certo senso lo sono. Il caso di Mahfouz è comunque particolare: per settant’anni di seguito, fino all’ultimo momento, ha continuato a scrivere senza interruzioni, rivolgendosi contro la dittatura successiva alla rivoluzione nasseriana del luglio 1952 e dando vita a opere che, se lette con la dovuta attenzione, avrebbero potuto insegnarci molto, per esempio sulle ragioni della sconfitta del 1967. È stato uno scrittore incredibilmente importante per l’Egitto, direi addirittura necessario, proprio perché sapeva individuare e scavare nelle ferite del paese. Nelle dichiarazioni ufficiali era piuttosto diplomatico, ma quando cominciava a scrivere non si curava di niente e nessuno.
La rivista “Galleria 68”, di cui lei è stato uno dei fondatori, ha contribuito in modo determinante al rinnovamento del panorama letterario egiziano. Quell’esperimento è nato come una reazione allo spaesamento sociale e politico successivo alla disfatta del ‘67 o, piuttosto, come un mezzo per dare forma a orientamenti culturali che non erano ancora riusciti a trovare espressione?
Nella nostra storia contemporanea c’è stato un momento davvero pericoloso: il 5 giugno del 1967, giorno della disfatta con Israele. Nonostante siano passati quarant’anni credo di poter dire che l’eco di quegli avvenimenti continui a risuonare ancora oggi. In quel periodo come le dicevo io e i miei compagni sapevamo che il sistema, così com’era, non funzionava; che le condizioni economiche per molti erano difficili; che la corruzione era troppo diffusa (certo non come oggi!). Ma quando l’esercito fu sconfitto da Israele rimanemmo veramente sconvolti. Come tutti gli egiziani. Per la prima volta nella sua storia, l’Egitto divenne un “corpo” unico, e il senso di appartenenza nazionale crebbe parallelamente alla sensazione che il paese fosse in pericolo; io stesso andai al fronte, come corrispondente di guerra, perché sentivo che era giusto farlo.
Tuttavia, dopo qualche tempo molti intellettuali cominciarono a interrogarsi non solo sulle ragioni della sconfitta, ma più in generale sulle condizioni in cui ci trovavamo. Alcuni pensarono che quelle ragioni andassero trovate nel presente; altri, come me, ritennero invece che potessero essere depositate anche nel passato, nella storia. “Galleria 68” era il risultato di questa urgenza di sapere. Per quanto mi riguarda, rivolsi l’attenzione a una sconfitta simile a quella del giugno 1967, ma avvenuta cinque secoli prima, quando l’esercito dei Mamelucchi venne sconfitto dagli Ottomani.
Nel corso di un’intervista ha dichiarato che, se si guarda retrospettivamente ai risultati ottenuti in campo letterario dalla generazione degli anni Sessanta, emergono due tendenze principali, incarnate rispettivamente dal lavoro di Sonallah Ibrahim e dal suo. Ci vuole spiegare meglio cosa intendeva dire?
Da quando ho iniziato a scrivere ho sempre dovuto assecondare una spinta interna, una tensione che deriva dal bisogno, direi anzi dalla necessità di aggiungere forme e codici letterari nuovi a quanto già esiste. Credo infatti che sia vero scrittore solo quello che riesce a ottenere uno stile diverso, ad adottare uno sguardo inedito. Chi non riesce a farlo è un semplice stenografo, un copista. Ancora oggi fortunatamente sento lo stesso bisogno di dare vita a qualcosa di originale, ed è per questo che ogni romanzo rappresenta per me una nuova avventura.
Negli anni Sessanta il tentativo di elaborare un nuovo stile letterario che partisse dal recupero del linguaggio usato nel medioevo nasceva da questa stessa esigenza. Cercavo infatti una via che mi permettesse di far dialogare la modernizzazione del presente con il passato, di combinare stili diversi, una via che mi conducesse a una forma estetica che potesse arricchire l’umanità intera, non solo una certa tradizione culturale, ma che allo stesso tempo fosse fortemente riconoscibile in quanto espressione arabo-egiziana.
La generazione letteraria a cui appartengo era cresciuta leggendo la letteratura occidentale, e i miei colleghi ritenevano che la mia attenzione per l’eredità culturale araba ed egiziana non si addicesse a un vero progressista. Erano più vicini all’altra tendenza letteraria, quella incarnata da Sonallah Ibrahim, che ha interloquito in modo magistrale con i processi di modernizzazione stilistica occidentale. Ultimamente, però, sembra aver rivolto lo sguardo alla tradizione.
Lei ha detto di appartenere a una generazione per la quale l’engagement politico è stato in qualche modo inevitabile; in molti casi però è stato anche costoso: le critiche rivolte a Nasser per esempio le sono costate il carcere, dall’ottobre del 1966 al marzo del 1967. Ci vuole parlare di quel periodo e di quell’esperienza?
Allora era molto difficile essere politicamente impegnati senza finire nei guai. Esisteva un solo partito, perché nel 1964-5 tutti i grande partiti di ispirazione comunista avevano deciso di sciogliersi e di convergere nell’Unione socialista araba, dichiarando il proprio appoggio alle politiche di Nasser che, così sosteneva, lavorava per il socialismo. Nasser era certo un uomo straordinariamente carismatico, godeva di un vasto consenso interno e internazionale e cercava di edificare un Egitto moderno che includesse veramente la maggior parte della popolazione. Io e il gruppo di intellettuali che frequentavo sapevamo però non solo che non venivano rispettati alcuni basilari principi della democrazia, ma che il sistema socialista che intendeva costruire non rispondeva ai nostri desideri. Così cominciammo a criticarlo, e finimmo in prigione. Furono mesi molto duri, di una durezza gratuita, perché eravamo solo degli intellettuali che provavano a dire la loro.
Io finii per due mesi nella prigione della Cittadella, destinata agli interrogatori, e fui tenuto in isolamento, senza vedere nessuno, neanche quando andavo al bagno; poi fui trasferito alla prigione di Torah, dove incontrai altri miei compagni. Ma anche lì le condizioni erano dure. Volevano metterci alle corde, ma nonostante tutto non parlammo. O almeno la maggior parte di noi non parlò. Per quanto mi riguarda, non lo feci, nonostante abbiano usato ogni metodo immaginabile, a partire dalle scosse elettriche. La cosa curiosa è che riuscimmo a uscire grazie a Jean-Paul Sartre. Nel 1967 infatti venne invitato in Egitto, e dichiarò che non avrebbe accettato l’invito se non fossero stati rilasciati gli intellettuali arrestati senza processo. Il 12 marzo del 1967, quando Sartre arrivò al Cairo uscimmo di prigione.
A proposito di Nasser: nelle note introduttive all’edizione inglese di Zayni Barakat, Edward Said sostiene che il suo romanzo può essere letto come un’allegoria della «tenebrosa atmosfera di intrigo e cospirazione» che ha caratterizzato il governo di Nasser. Lei però ha spesso insistito nel dire che Zayni Barakat, il censore che intende riformare con metodi polizieschi il paese, «non è Nasser». Ritiene che in questo caso l’interpretazione di Said sia troppo riduttiva?
L’associazione esclusiva con Nasser riduce la portata del romanzo. È vero che Barakat “proviene” in qualche modo dalla mancanza di democrazia del periodo nasseriano, ma intendevo criticare qualunque regime poliziesco che amputi le libertà personali opprimendo i cittadini, non un governo specifico. Dopo aver studiato a fondo l’epoca dei Mamelucchi ho deciso di usarne alcuni elementi per alludere alla più recente storia egiziana, dal momento che quel sistema di potere – che si basava non sui meriti ma sui contatti personali con il sultano, e in cui chiunque poteva essere arrestato senza motivo e senza avere il diritto di chiederne ragione – presentava delle affinità fortissime con l’Egitto contemporaneo, dal 1952 a oggi.
Così decisi di prendere a modello quel periodo e di instaurare un parallelismo, rovesciando il valore di alcuni dettagli, con il più recente processo di modernizzazione del sistema egiziano. E l’ho fatto adottando uno stile ormai passato, desueto, tanto che quando inviai il manoscritto al settimanale su cui sarebbe stato pubblicato a puntate tra il 1971 e il 1972 molti pensarono che si trattasse di un manoscritto antico. Ma ridurre Zayni Barakat al solo parallelismo con il governo Nasser significa escludere che Zayni Barakat possa parlare anche del tempo di Sadat o di quello attuale, mentre funziona benissimo anche oggi. Certo: sotto Nasser chi parlava in pubblico rischiava qualche anno di carcere, mentre ora si può parlare liberamente. Ma oggi nessuno ti ascolta: più o meno è lo stesso.
Zayni Barakat da molti è considerato un esempio paradigmatico dell’attenzione che la letteratura araba contemporanea rivolge al romanzo storico. Eppure, nonostante la dimensione storica sia fortemente presente anche in altri suo scritti, sembrerebbe che per lei la storia sia soprattutto un pretesto per sollevare quesiti esistenziali, relativi per esempio alla memoria e all’oblio, alla vita e alla morte, o paradossalmente per guardare con più urgenza al presente…
Non mi considero uno scrittore di romanzi storici, e non credo che Zayni Barakat possa essere considerato tale proprio perché non riguarda il passato, ma il presente e il futuro. Mi sono sempre rivolto alla storia a partire da un forte senso del “mio tempo” e spinto dal bisogno di rispondere ad alcune domande che mi accompagnano sin da bambino: “Il momento appena trascorso, che fine ha fatto?”, “Quand’è che il presente fugge nel passato?”. Sono domande che continuano a sollecitarmi, tanto che spesso mi rendo conto di continuare nella stessa ricerca di quando da bambino mi chiedevo: “Ieri, dov’è finito? E può ritornare?”.
Per rispondere a queste domande ho letto tantissimi libri sul tempo e sono stato portato a interessarmi in modo quasi naturale ai misteri delle galassie e dei sistemi stellari. Nel frattempo ho scoperto che la vita non è altro che memoria, e per questo negli ultimi tempi ho provato a ricostruire la mia memoria, e dunque la mia vita, attraverso la scrittura.
Quest’interrogazione sulla natura dell’uomo, sul rapporto tra il carattere contingente degli esseri umani e la dimensione ultraterrena si svolge nei suoi libri anche attraverso il ricorso alla tradizione mistica e Sufi musulmana. In che modo ha cominciato a interessarsene?
Mi sembrava che la tradizione Sufi avesse elaborato delle risposte agli interrogativi sulla natura del rapporto tra l’umano e l’assoluto e sui limiti dell’esistenza, e che a un livello più personale “soddisfacesse” almeno in parte le mie ansie e inquietudini. Del sufismo ho sempre apprezzato l’apertura e la profondità: non è un caso che i fondamentalisti ne abbiano spesso contestato la legittimità, e che la loro interpretazione non abbia trovato consensi laddove la tradizione Sufi era più radicata. Abbiamo un disperato bisogno di pensatori come Ibn Arabi o Jalaluddin Rumi, capaci di suggerire vie di ricerca senza pretendere che siano esclusive.
Negli ultimi trent’anni alla ricerca sulla tradizione arabo-islamica e Sufi ho affiancato però l’interesse per la storia dell’Egitto faraonico. Mi sono convinto infatti che nella vita spirituale degli egiziani ci sia una frattura profonda, che deve essere ricomposta e che deriva proprio dall’ingiustificata rimozione, o perlomeno dalla sottovalutazione di questa storia. Non possiamo continuare a gloriarci di aver costruito le Piramidi e insieme rifiutarne l’eredità spirituale.
Lei ha contribuito a recuperare quest’eredità con un’opera affascinante come Il mistero dei testi delle piramidi, in cui l’elemento narrativo viene quasi fagocitato da meditazioni filosofiche e da una lettura evocativa dei simboli del passato. Ci vuole spiegare perché, come recita una frase spesso citata, sia quei testi che le piramidi sono «troppo meravigliosi per essere ignorati e troppo misteriosi per essere compresi»?
Le piramidi non sono semplici edifici, per quanto architettonicamente mirabili, ma vere e proprie riflessioni filosofiche, che nel modo stesso in cui sono state progettate manifestano uno straordinario parallelismo con il sufismo e con il carattere contingente dell’esistenza umana: all’inizio (la base), abbiamo a disposizione molto tempo, un tempo che progressivamente si assottiglia fino ad arrivare al momento in cui termina, e con esso ogni cosa. Si tratta però di una fine che coincide con un nuovo inizio, che non può essere visto con gli occhi ma eventualmente percepito in altri modi.
Ricordo ancora la sensazione provata alcuni anni fa, quando per la realizzazione di un numero speciale di “Akhbar al-Adab” abbiamo ottenuto il permesso di dormire all’interno delle piramidi. Io ho dormito in un sarcofago senza luce, immerso in un buio profondo, talmente profondo che ha finito per aver il sopravvento sul mio corpo, che è diventato parte del buio, e dunque delle piramidi.
A proposito di “Akhbar al-Adab”: sin dalla fondazione, nel 1993, lei è direttore di questo settimanale distribuito in tutto il mondo arabo, considerato da molti come la più importante rivista culturale dell’area. Ci vuole spiegare quali sono i criteri con cui gestisce il giornale?
In quanto scrittore sono parte della vita culturale del mio paese, e sin dall’inizio della mia attività editoriale ho avuto l’ambizione di fare un giornale che si presentasse come uno strumento di alta qualità non solo nel campo letterario, ma in quello culturale nel suo complesso. Il primo dei principi che ci ispirano è la difesa della libertà: contro il fondamentalismo religioso, che ci ha causato diversi problemi, e contro il governo, che continua a voler imporre la censura e con il quale non smettiamo mai di confrontarci aspramente. L’altro principio invece è quello della sperimentazione e dell’apertura verso l’esterno: nel 1993, quando abbiamo cominciato le pubblicazioni, tra la cultura egiziana e quella araba si può dire che non ci fosse alcun contatto.
Oggi invece il nostro giornale rappresenta un vero e proprio ponte culturale. In tutto il mondo arabo non esiste niente di simile. Neanche nei paesi economicamente più ricchi, che d’altra parte sono anche quelli più restii a promuovere lo sviluppo culturale. Basta pensare all’Arabia Saudita, che, tra l’altro, ancora una volta ha deciso di bandire il nostro giornale, nonostante nel paese ci siano timidi segnali di un risveglio culturale. Da parte nostra, continuiamo a ospitare giovani scrittori e a raccontare ai nostri lettori i movimenti culturali più significativi del nostro tempo. Senza dimenticare le migliori tradizioni letterarie.