Da cinque mesi abbondanti, ogni mattina, raccatto qua e là informazioni sulle novità. Le novità sono quelle che raccontano la più sconvolgente tragedia a cui il mio mondo ha partecipato con responsabilità dirette e manifeste da quando io esisto, ossia da più di mezzo secolo. Questa definizione purtroppo è incontestabile. Mai prima, il mio Paese e l’Europa stessa, intera, nonché – potremmo dire – l’Occidente in genere, mai prima era arrivato, tutto insieme, al punto di avallare, sostenere e finanziare qualcosa di indescrivibile e inaccettabile come l’orrendo massacro che da cinque mesi abbondanti, ogni giorno, viene portato avanti sull’altra sponda del Mediterraneo. I numeri di questa tragedia potrebbero, da soli, definirne la dimensione. Credo che siano sotto gli occhi di tutti, perché i numeri è difficile nasconderli.

Mi limito a segnalare che uno degli aspetti più eclatanti di questa vicenda – l’uccisione di bambini del tutto inermi, nonché evidentemente innocenti a prescindere – è arrivato a toccare un record mostruoso: il numero delle vittime ha superato, in questi cinque mesi, il numero di bambini che hanno perso la vita in tutte le guerre del pianeta dal 2019 al 2022, ossia in quattro anni (che erano 12.193 – fonte ONU)

Il paragone, in realtà, è forzato. Questa infatti non è una guerra. Non si fronteggiano due eserciti. Da una parte c’è un esercito dotato di forze sconcertanti e dall’altra non c’è praticamente nulla, e certo non ci sono soldati come peraltro ripetono di continuo i sostenitori di questo immondo massacro (“gli uomini di Hamas sono terroristi, non soldati”). Ma se non è una guerra, cosa è? Molti discutono se si possa o meno chiamarlo genocidio. Alcuni ritengono che non abbia importanza il termine da usare e francamente trovo questo ragionamento inaccettabile perché è chiaro (addirittura palese a chiunque sia dotato di minimi rudimenti di linguistica) che le parole non sono etichette, ma ritagliano il mondo e dunque mostrano il modo in cui il mondo lo pensiamo e viviamo. Tuttavia, non entrerò in questo dibattito. Mi basta sottolineare che non si tratta di una guerra. Bensì di un eccidio, un massacro, uno sterminio, un’ecatombe, una strage, una carneficina, e dunque sostanzialmente un olocausto (etimologia greca: da holon, ossia “intero”, e kaustos da kaio, ossia “brucio”).

Ora, poiché siamo noi, tutti noi occidentali, responsabili di questo olocausto, è davvero difficile esserne completamente informati. I mezzi a cui in generale facciamo ricorso, tranne rare eccezioni rappresentate da realtà per così dire minoritarie, sono insufficienti e fuorvianti. In alcuni casi, in questi mesi, la sorpresa è stata annientata dalla rabbia, nel vedere per esempio come un quotidiano che fu glorioso si sia ridotto a giocare sulle parole per mostrare sempre clemenza verso gli artefici del massacro. O nel vedere media in genere attenti alla condizione femminile incapaci di raccontare il livello di degrado più totale in cui sono state ridotte le madri, le ragazze, le donne tutte, annichilite in una condizione di bestialità.

Ma sono questioni che è inutile sottolineare. Esiste internet, esistono canali diversi per cercare notizie. Per vedere ospedali rasi al suolo, luoghi religiosi e archeologici spianati, vecchi umiliati, medici prelevati o uccisi, prigionieri tenuti al buio, bendati, piegati, nudi, in condizioni disumane. Immagini mostruose. Che dicono da sole tutto. Circolano abbondanti, in continuazione. E io le cerco e le osservo ogni volta sconvolto. Ogni mattino, appunto, nei limiti del possibile.

Ogni mattino, tuttavia, non mi limito a informarmi. Seguo una regola che mi sono dato ormai da mesi: inoltrare, ripostare, diffondere alcune delle immagini, dei video, dei numeri che mi paiono più significativi. Sono convinto che sia l’unico modo per dare almeno la possibilità di percepire ciò che fino a ieri ritenevamo impossibile, ossia il Male Assoluto. Ora, non è che fino a ieri fossimo tutti imbecilli, convinti che il Male Assoluto sia estraneo all’essere umano. Però eravamo cresciuti immaginando di non poterne essere artefici, di non poter essere di nuovo responsabili. La Storia con la S maiuscola ci ha insegnato tutto – lo dicevamo spesso. Dunque non avremmo mai ripetuto quel che fin dai primi anni a scuola ci era stato raccontato come il Male Assoluto. E invece siamo qui. Ogni giorno a contemplare le immagini di bambini umiliati, sconvolti, menomati per sempre, arti amputati, volti bruciati, corpi morti, corpi in pezzi, corpi chiusi in sudari occasionali. E ciascuno di noi ha la sua parte. Ciascuno di noi può fare la sua parte. Anche questo lo abbiamo sentito dire da sempre. Ossia che il Male Assoluto si era fatto strada perché in molti avevano voltato la testa, dimenticando che nel momento più drammatico ciascuno ha sempre però la possibilità di fare la sua parte.

La mia parte fino a oggi l’ho fatta così. Diffondendo notizie e immagini, e parlando ovunque della linea di demarcazione che abbiamo oltrepassato, noi occidentali: un superamento che non prevede ritorni e che sarà distruttivo innanzitutto per noi, se volessimo limitarci a fare un calcolo puramente egoistico. Parlando ovunque del Male e del Male Assoluto e di ciò che lo genera. Ovunque. In questi cinque mesi non c’è stata situazione in cui non abbia detto almeno una parola su questa vicenda. Incontri fra amici, bar, taverne, scuole, convegni, conferenze, presentazioni. Ovunque. Come se fosse la legge morale kantiana. Il dovere per il dovere. Parlare ovunque e sempre di Palestina, nei modi consentiti, e non smettere mai.

Non scrivo queste righe, ora, per dire che la mia parte si è esaurita. Non ho cambiato opinione. La legge rimane la stessa. E d’altronde, in questi mesi, chi mi ha scritto domandando cosa sia possibile fare, ha ricevuto sempre la stessa risposta: raccontare, parlare, diffondere, non stancarsi, non smettere di dedicare forze per dire quel che molti continuano a ignorare, soprattutto mostrandolo, perché commentare è inutile. Le immagini parlano da sole. E le immagini ci sono, ne arrivano in continuazione al punto che, come è stato detto in una frase perfetta da Blinne Ní Ghrálaigh alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia: “Questo è il primo genocidio della storia in cui le vittime trasmettono la propria distruzione in tempo reale, nella speranza disperata e finora vana che il mondo possa fare qualcosa”.

Eppure proprio su un aspetto di queste immagini credo sia necessario a questo punto fare una considerazione. Una riflessione che per certi versi può illuminare la dimensione di questo olocausto. Per distinguerlo da ogni altro olocausto.

Ecco perché mi sono deciso a scrivere.

La questione è la seguente. Fra i video e le immagini che ogni giorno arrivano, molti sono opera dei soldati. Inutile specificare quali soldati. Ecco, ci risiamo: non è una guerra.

Si tratta di video e immagini di varia natura, ma la gran parte di essi è stata diffusa dai soldati stessi, in alcuni casi su canali social come TikTok.

Ne ho messi insieme moltissimi e potrei farne una rassegna. Ma si può dire tranquillamente che raccontano tutti quanti la stessa cosa: l’irrisione e il disprezzo della vittima, con atteggiamenti che un umano non potrebbe mai nutrire nei confronti di un suo simile.

Si sente dire: è brutto, sì, ma è la guerra. Non risponderò stavolta che non è una guerra. Dirò piuttosto che mai prima avevamo assistito a un fenomeno analogo. O meglio: mai si erano visti soldati che si ritraggono in selfie e in video, magari saltando ridenti sulle culle dei bambini fuggiti, feriti, uccisi, chi lo sa, disprezzando i loro giochi, i loro tricicli, le loro stanze. E mai si erano visti uomini e donne tanto fieri e convinti che sia cosa bella e divertente, al punto di postare questi video sui social quasi fossero immagini di un party.

In un filmato che ho rivisto molte volte, sempre con un senso di sorpresa e meraviglia, sempre provando un senso di incredulità, come se ogni volta mi sembrasse un sogno, i soldati hanno messo in scena una specie di gag. Credo che sia paradigmatico di quel che voglio raccontare.

Il video è girato da una soldatessa che bussa alla porta prendendo la parte di una donna venuta all’appuntamento con un agente immobiliare. Deve comprare casa, la signora. E le apre un agente che evidentemente non ha preso sul serio il suo ruolo di attore, visto che è ancora in uniforme, con tutte le dotazioni del caso. Però ha buono spirito, il tipo. Porta la signora a visitare l’appartamento. Le mostra la cucina, le stanze, il bagno. La signora è disgustata da ciò che i precedenti proprietari mangiavano e dalle condizioni in cui hanno lasciato casa. L’ “agente immobiliare” ridacchia parecchio, conviene con lei sul degrado degli spazi, ma lascia intendere che si potrà rimettere a posto tutto, comprando e ristrutturando. Gli amici dell’agente, i soldati che sono stravaccati in salotto, ridono, fanno grandi cenni, brindano.

Non andrò oltre. Sono decine gli esempi di questo genere. Ovviamente molti sono ben più crudeli e sconcertanti, ma è proprio nella sua “leggerezza” che questo video si fa paradigma. Esso dimostra perfettamente due cose. Da una parte che gli esseri umani che questi soldati stanno uccidendo, ai loro occhi non sono in alcun modo esseri umani, bensì – come del resto spesso li chiamano – animali. Animali che dunque l’umano può uccidere a suo piacimento e persino prendere in giro. Un atteggiamento che il nostro tempo ha ormai moralmente e legalmente vietato, intendo nei confronti degli animali non razionali. È fatto noto a tutti, sotto gli occhi di tutti. La gran massa dei giornali che oggi chiamiamo ancora a sproposito informazione raccontano quotidianamente storie di animali e metterebbero alla gogna – giustamente – chi volesse umiliare e uccidere un cane o un gatto indifeso senza neppure lo scopo minimo (e certo estremo) di mangiarne la carne.

Ma un’altra è la questione, ben più rilevante. Se certamente l’essere umano è arrivato spesso a fare cose analoghe e a irridere la vittima e umiliarla mettendola alla gogna, mai prima era arrivato a sbandierare le sue azioni con la stessa baldanza, arrivando al punto di riprendere scene analoghe e immaginarne la pubblicazione su canali social che chiedono like e promettono divertimento. Balletti, selfie, storie organizzate per la gogna e il godimento non se n’erano mai visti. E certo mai prima qualcosa di analogo era stato consentito dagli alti gradi degli eserciti di cui questi soldati fanno parte, e soprattutto dalla cosiddetta opinione pubblica.

Ma stavolta questo accade di continuo. Accade perché chi posta contenuti del genere è assolutamente certo dell’impunità. E questa impunità gli è assicurata da tutti noi.

Il motivo dell’impunità è semplice, in effetti. Si tratta di una colpa di cui noi ancora crediamo di doverci liberare, una colpa su cui questi “esseri umani” fanno leva ormai automaticamente e inconsapevolmente per portare avanti da anni una politica insensata che raggiunge in questi giorni il culmine sconvolgente dello stesso Male Assoluto da cui è stata originata.

La domanda allora è la seguente: quanto sangue palestinese, noi occidentali, corresponsabili dell’olocausto della Shoah, abbiamo intenzione di far scorrere prima di liberarci della nostra colpa? E poiché il sangue palestinese non partecipa di alcuna colpa, neppure remota, nell’olocausto della Shoah, come dobbiamo intendere quel che stiamo portando avanti? Come un sacrificio?

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Matteo Nucci

Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha studiato il pensiero antico, ha pubblicato saggi su Empedocle, Socrate e Platone e una nuova edizione del Simposio platonico. Nel 2009 è uscito il suo primo romanzo, Sono comuni le cose degli amici (Ponte alle Grazie), finalista al Premio Strega, seguito nel 2011 da Il toro non sbaglia mai (Ponte alle Grazie), un romanzo-saggio sul mondo della moderna tauromachia: la corrida. Nel 2013 ha pubblicato il saggio narrativo Le lacrime degli eroi (Einaudi), un viaggio nel pianto che versano a viso aperto gli eroi omerici prima della condanna platonica. Nel 2017 è uscito il romanzo È giusto obbedire alla notte (Ponte alle Grazie), finalista al Premio Strega. Del 2018 il nuovo saggio narrativo sul mondo greco antico: L’abisso di Eros, indagine sulla seduzione da Omero a Platone. I suoi racconti sono apparsi in antologie e riviste (soprattutto Il Caffè Illustrato e Nuovi Argomenti) mentre gli articoli e i reportage di viaggi escono regolarmente su Il Venerdì di Repubblica.

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