“Perché non ti sembro africana?”, dice uno dei personaggi del nuovo romanzo di Chimananda Ngozi Adichie, la più celebre e amata autrice nigeriana della sua generazione, almeno in Occidente. “Perché hai una camicetta troppo stretta”, commenta la sua interlocutrice. “Credevo che venissi da Trinidad o un posto del genere. Devi fare attenzione, o l’America ti corromperà”.
A dir poco complicato, per noi occidentali, capire la confusione identitaria di chi ha lasciato l’Africa per gli Stati Uniti o l’Europa, ma che in Africa continua a tornarci, continua a scriverne e a considerarla in qualche modo “casa”. Tale il disorientamento e l’assenza di terminologia per gli artisti cresciuti a cavallo di queste due culture – tra antichissime tradizioni e jeans aderenti, tra la voglia irrefrenabile di scappare da un paese corrotto e disfunzionale e il desiderio inequivocabile di tornare in un continente in crescita economica e culturale – che sono nati addirittura alcuni neologismi.
“Americanah” è il titolo del nuovo libro della Adichie e americanah è definita la protagonista Ifemelu, una ragazza nigeriana che, dopo lunghi anni di studi a Princeton e una improvvisa fama come blogger di “african lifestyle”, prima di tornare in Nigeria dopo 15 anni di assenza va a farsi fare le treccine afro da una parrucchiera senegalese. Per non sembrare troppo yankee. Afropolitan è il termine oggi molto in voga, coniato dalla scrittrice Taiye Selasi nel 2005 in un articolo intitolato “Bye Bye Barbar”, divenuto poi una sorta di manifesto per gli africani cosmopoliti che in quel testo si sono ritrovati. Taiye Selasi, autrice trentaquatrenne di un libro magnifico, “La bellezza delle cose fragili” (Einaudi), e volto noto in Italia per la sua partecipazione al talent show letterario “Masterpiece” in veste giudice, scriveva così, quasi dieci anni fa: “Loro – cioè, noi – siamo afropolitani, la nuovissima generazione di emigranti africani, che stanno per arrivare o sono già stati presi da uno studio legale, un laboratorio chimico, un locale jazz, una banca di credito nei pressi di casa tua. Siamo afropolitan: non cittadini, ma africani del mondo”.
Da quando Tayie Selasi – che ora vive tra Londra, Roma e l’Olanda, ma ogni tanto torna in Ghana dove è in parte cresciuta – inventò questo termine, “afropolitan” è stato giornalisticamente abusato e privato del suo senso originario e di recente anche molto contestato da vari intellettuali. A partire da Binyavanga Wainaina, scrittore kenyota che ha dichiarato di non sentirsi in nessun modo afropolitan, ma al contrario “panafricanista”. Anche Alain Mabanckou, autore de “Le luci di Pointe Noire” (66theand2nd) – un racconto teso e intimo del suo ritorno in Congo dopo 23 anni di assenza – ha detto che è “un pericolo incasellare gli scrittori dentro delle categorie”. Secondo Mabanckou, che insegna letteratura francofona in America, “la globalizzazione non è un fenomeno dei tempi recenti, anche nei romanzi africani dell’epoca coloniale si trattava il tema dell’incontro tra culture: l’Europa e l’Africa, o l’America”.
Come ha fatto notare Emma Dabiri sulla rivista online “Africa is a Country” se oggi si cerca Google il termine “afropolitan” escono quasi esclusivamente siti di shopping oline o riviste di moda lussuose. “Per me l’afropolitanesimo è troppo educato, troppo corporate, troppo patinato”, chiosa la Dabiri. Perfino Minna Salami, autrice del blog “Ms Afropolitan”, ha ammesso che l’afropolitanesimo “potrebbe prendere la deriva della mercificazione della cultura africana”. L’accusa principale fatta al fenomeno è quella di dimenticare la ricchezza culturale africana e produrre opere che non sono altro che versioni africane di quelle americane ed europee. Taiye Selasi in particolare è stata attaccata per la sua visione dell’Africa “Instagram-friendly” e per essersi rivolta solo a una classe di africani benestanti e apolidi.
“Tutte le parole che usiamo per penetrare nella giungla intricata dell’identità personale – “hipster”, “internazionalista”, “pan-africanista” – includono o escludono qualcosa”, dice Taiye Selasi a “Pagina99”. “In realtà è solo un esercizio di demarcazione, di disaggregazione di una parte dal tutto. Più interessante è la questione economica. Quando si parla di middle class africana, le critiche sono inevitabili. Non si sa cosa sia peggio: le madornali ingiustizie economiche? l’insidiosa influenza dell’Occidente? i processi ostici per aver i visti? l’insufficiente mobilitazione politica? C’è di tutto. Lo vedo. È sotto i miei occhi. E ho molte cose da dire a questo proposito. Datemi il tempo”, dice accennando un sorriso. “E in ogni caso il fatto che il termine afropolitan sia stato via via frainteso non mi interessa più di tanto. Come scrittori siamo obbligati a far uscire le nostre parole, lasciare che se la sfanghino da sole per il mondo. Io mi limito a descrivere quello che vedo. Il resto, i dibattiti, le etichette, la politica, le lascio ai professionisti”.
Tra i “professionisti” abbiamo interrogato Minna Salami, padre nigeriano e madre finlandese, blogger di “Ms Afropolitan”: “L’afropolitanesimo è per natura connesso alla vita urbana e alle differenze di classi, e questo è il fattore più critico e destabilizzante per gli africani. Del resto il paradosso è che l’afropolitanesimo offre anche un linguaggio con il quale si può discutere in modo critico proprio quei problemi e quelle ineguaglianze, una linguaggio per la nuova decolonizzazione, proprio grazie alle sue connessioni con la tecnologia, l’architettura, la cultura l’arte”, continua la Salami. “Non direi che gli scrittori afropolitani siano gli unici oggi in Africa, e nemmeno che abbia un senso chiamarli così – non so nemmeno se oggi ha senso dire “letteratura africana” – ma direi piuttosto che molti autori contemporanei affrontano di petto alcuni temi cari all’afropolitanesimo”.
Innegabilmente, le storie che più amiamo (o forse le uniche che arrivano in Occidente?) siano quelle scritte da autori che hanno studiato in America o in Francia e hanno raccontato la loro Africa con una giusta distanza, anche stilistica e narrativa. E immergendosi nella lettura di questi nuovi autori africani o biculturali o afropolitan che dir si voglia – Chimananda Ngozi Adichie, NoViolet Bulaywo, Teju Cole, Scholastique Mukasonga, Alain Mabanckou, Dinaw Mengestu, la stessa Tayie Selasi – si coglie senza dubbio lo spaesamento, la novità, il dolore, l’entusiasmo della Nuova Africa. Senza mai cadere nell’esotismo o nell’etnicismo, questi giovani autori scrivono di storie di rottura, e lo fanno con tecniche raffinate (forse imparate in qualche college statunitense?).
Prendiamo un’autrice come NoViolet Bulaywo, classe 1981, nata e cresciuta in Zimbabwe, un paese ai margini della crescita economica. “Abbiamo bisogno di nuovi nomi” (Bompiani) è un romanzo sconvolgente per stile e contenuti: la storia di un gruppo di bambini di 10 anni che si aggirano per le strade dei sobborghi di una grande città, in cerca di cibo. Una delle bambine è incinta, e i suoi amici l’ha accompagnano ad abortire. Nella seconda parte del libro la ragazzina narratrice si trasferisce in Michigan da una zia per studiare, ma non sarà tanto facile nemmeno lì. Nel romanzo a un certo punto arriva un volontario di una ONG che incontra il gruppo dei ragazzini: “E quando ci hanno chiesto da dove venivamo, ci siamo scambiati occhiate e abbiamo sorriso con la timidezza di spose bambine. Ci hanno detto: Africa? Abbiamo fatto segno di sì con la testa. Quale zona dell’Africa? Abbiamo sorriso. Quella zona dell’Africa in cui gli avvoltoi aspettano che i bambini affamati muoiano? Abbiamo sorriso. In cui l’aspettativa di vita è trentacinque anni? Abbiamo sorriso. Dove i dissidenti ficcano kalashnikov tra le gambe delle donne? Abbiamo sorriso. Dove la gente va in giro nuda? Abbiamo sorriso. La zona in cui si sono massacrati a vicenda? Abbiamo sorriso. Dove il vecchio presidente ha truccato le elezioni e la gente è stata torturata, uccisa, in gran parte messa in prigione, dove la gente muore di colera… Oddio, sì, l’abbiamo visto il vostro paese. Era in tv”.
L’Africa che si vede in tv è molto diversa anche dall’Africa raccontata da Teju Cole, nigeriano e americano. Dopo il celebrato esordio “Città aperta”, una specie di sebaldiana passeggiata di un giovane psichiatra nigeriano a New York, Cole ci racconta un altro viaggio, questa volta a Lagos, la capitale economica della Nigeria. A tornare in Africa è di nuovo un giovane medico, che, come l’autore, è cresciuto e ha studiato negli Stati Uniti ed è tornato per indagare “su cosa mi mancava davvero tutte le volte che avevo nostalgia di casa”. La scrittura di Cole è implacabile. Il suo sguardo è ironico, disilluso, affettuoso. La sua città, dopo 15 anni, è cambiata ma è pur sempre corrotta e piena di contrasti. Lo stesso narratore si contraddice, in un certo senso: prima afferma che Lagos è un posto stupefacente, meraviglioso, pieno di dettagli vividi, anche violenti, ma perfetti per uno scrittore.
Altro che i tranquilli sobborghi statunitensi, commenta Cole: “Se John Updike fosse stato africano, avrebbe vinto il Nobel vent’anni fa. Sono convinto che il suo materiale lo ostacolava”. Poi però si rende conto che non ci tornerebbe mai a vivere: “La Nigeria è un ambiente ostile per la vita della mente”. E pensare che, scrive Cole, esiste addirittura un termine yoruba, tokunbo, che letteralmente significa “da oltre i mari” e che viene dato, con una lieve connotazione peggiorativa, a quelle persone che sono nate all’estero e poi tornate a casa. Forse bastava chiamarli così gli africani della Diaspora. Da oltre i mari.