È il 18 ottobre 1974, venerdì. Il cielo sopra Parigi è grigio.

Per tre giorni Georges Perec siede a un caffè di Place Saint-Sulpice. Elenca ogni dettaglio, annota quello che vi accade in maniera meticolosa. “Ci sono molte cose a Place Saint-Sulpice”. Tentativo di esaurire un luogo parigino è una lunghissima lista: due taxi vuoti alla stazione dei taxi; una betoniera arancione; orme indistinte; un 87 vuoto, un 70 pieno, un altro 87 vuoto; il vento che fa cadere la pioggia accumulata sulla tenda del caffé; un’ambulanza che fa ‘pim pom’; i piccioni che si lavano nella fontana ed anche una bambina che piange tra i suoi genitori (o i suoi rapitori); un carro funebre davanti alla chiesa e una porzione non troppo grande di cielo.

Osservare la strada, annotare il luogo, l’ora, la data, le condizioni meteorologiche. Osservare il resto di place Saint-Sulpice, quello che non ha importanza, l’infraordinario che fa da sfondo al passare del tempo.

Lo sguardo non vede che quello che incontra. Ma cosa succede quando non accade niente?

Bisogna, scrive Perec, registrare cose prive di interesse: i grattacieli che non crollano e la terra che non trema, i mattoni, il cemento, gli orari. I giornali parlano di tutto e lasciano fuori il giornaliero, quel giornaliero che non ci colpisce perché non lo sappiamo vedere.

È come per i soffitti o per le scale: nessuno se ne interessa più.

© Samuel Neural

 

Contare le macchine, decifrare una città e le sue evidenze, descrivere la gente, quella che ha fretta, quella del quartiere, quella che viene da altrove. Aspettare, soprattutto.

Parigi è guardata attraverso gli oggetti e le persone come oggetti. La voce della parola scritta è una voce sgomberata dal potere di dire io: fissa degli istanti intatti e cerca di trattenere qualcosa.

 

Ma cosa?

Anche il diario intimo diviene per lo scrittore francese un registro oggettivo delle sue giornate: l’ora della sveglia, gli spostamenti, il pasto consumato, i dischi ascoltati, i film visti. Un diario intimo senza alcuna intimità.  “Detesto ciò che chiamano psicologia”: come per Palomar, anche per Perec ci si può spingere a cercare quello che c’è sotto una volta esaurita la superficie. E anche per Perec la superficie è inesauribile. I ricordi non sono fedeli né individuali, non vanno interpretati. E non è l’inconscio che si deve andare cercando nei sogni. Non vi è verità.

Fogli, schemi, tabelle, elenchi, una ricerca scrupolosa, una meticolosa mappatura del mondo: un tentativo di pensare il nulla senza mettervi attorno qualche cosa, senza sovrappiù, senza desiderio di comunicare o significare, scacciando funzioni, ritmi, abitudini e necessità; un tentativo di dire il grado zero dell’esistente, interrogando la realtà attraverso l’appropriazione degli spazi fisici, misurati con il corpo.

L’elenco non riempie lo spazio: pretende di dire tutto ma non lo può fare. Non definisce nulla. La nominazione che fa esistere le cose, portata all’eccesso, perde qualsiasi potere di rappresentare. Gli inventari non diventano che litanie profane. “A furia di precisione”, dichiara Perec in un’intervista, “il sistema esplode”: è una trappola, una vertigine. L’effetto straniante della saturazione è come il cambio di scala dei pittori iperrealisti: i dettagli esasperati, in ossequio alla verità, non significano più quello che sono. I luoghi smettono di essere consueti: niente più strade né palazzi né marciapiedi. Dove c’erano case che sembravano aver obbedito alle ordinanze sulla intonacatura, piovono piogge diluviali, cresce l’erba, le mucche prendono il posto della gente e si vede apparire “centro metri al di sopra dei tetti dei palazzi, King Kong o il topolino ingigantito di Tex Avery”. È il volto nascosto, l’ombra, il doppio perturbante, la radicale estraneità del familiare, l’illusione di realtà.

Lo scrittore francese gioca con il passaggio degli uccelli, degli esseri e dei veicoli; con Parigi e con le vetrine; con le tessere dei puzzle; con le brevi linee di inchiostro sparse sul suo tavolo da lavoro insieme al tagliaunghie, al pennarello verde, al minuscolo posacenere rotondo di ceramica bianca. Gioca con i luoghi e le cose; con lo spazio e con le parole come cose. Non è un caso che è alla pagina bianca come condizione di possibilità che consacra il primo capitolo di Specie di spazi: la pagina bianca è come piazza Saint Sulpice e come le vie di Parigi, come i muri, le strade e la città.

“Descrivere lo spazio: nominarlo, tracciarlo, come gli autori di portolani che saturavano le coste di nomi di porti, di nomi di capi, di nomi di cale, finché la terra finiva con l’essere separata dal mare soltanto da un nastro continuo di testo. L’Aleph, questo luogo borghesiano in cui il mondo intero è simultaneamente visibile, che altro è se non un alfabeto?”

© Pierre Getzler

È lo statuto della realtà in discussione. La scrittura trasforma il mondo, e l’uomo, in linea. E la linea non è solo l’elemento più semplice, quello con cui gioca un bambino che impugna la matita; la linea, come insegnano gli scarabocchi di Saul Steinberg che attraversano il luogo incerto tra scrittura e disegno e tra arte e vita, dà corpo a voci e costruisce trappole di senso. Le restrizioni, i passaggi obbligati, le regole del gioco, non sono che queste trappole: “l’astuzia ci circonda, ma come circondare l’astuzia?”.

L’oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone poi di uscire: traccia confini, stila elenchi, osserva la realtà, cerca di “fidarsi di qualcosa”, come Perec scrive nel 1959 raccontando la propria esperienza di lancio con il paracadute. Di fronte al vuoto – sotto ai piedi o di senso – è necessario confidare nell’equipaggiamento, attenersi a regole, indagare le cose e gli oggetti per provare a non rinunciare a un compito sempre troppo grande. Ma tu, dentro il tuo labirinto – scrive Perec – non apprendi niente: l’intero lavoro di scrittura si fa sempre rispetto a qualcosa che non c’è, qualcosa che può darsi a vedere per un istante, semmai, intrappolato dove non lo si va cercando. Perec costruisce trappole con le parole; cerca, per parafrasare la formula cara a Klee, di provocare l’errore, ovvero l’incontro, dentro il sistema, ovvero la ripetizione: “un perché scrivo cui non posso rispondere che scrivendo”.

La letteratura è altrove rispetto a quello che ci propone la lettera. C’è sempre un tradimento, un sospetto.

Tentativo di esaurire un luogo parigino non è che un tentativo: esaurire non è possibile, resta un’ombra, una differenza. Gli spazi sono fragili. È il buco – un buco di senso, una memoria mancata, una tessera che non c’è – al centro. Solo così ogni lettore può investire lo spazio così come la pagina bianca, solo così può appropriarsene, renderlo abitabile, proseguirlo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *