“ERAVAMO IL CANTANTE E IL PITTORE, DUE DILETTANTI UN PO’ SPECIALI” – SANDRO LUPORINI, AUTORE DEI TESTI DI GIORGIO GABER, RACCONTA A GNOLI LA LORO AMICIZIA IN CUI “NESSUNO DEI DUE HA FATTO OMBRA ALL’ALTRO” – ”PER NOI LA POLITICA ERA PROVARE A RACCONTARE QUELLO CHE CI PORTAVAMO DENTRO, PARLARE DI VITA. AL ‘CAPITALE’ DI MARX HO SEMPRE PREFERITO ‘VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE’ DI CELINE” – ‘GLI ULTIMI ANNI E LA PAROLA “CANCRO” – “IL SIGNOR G? L’INIZIALE FAREBBE PENSARE PROPRIO A GABER. IN REALTÀ ERA IL…”
È una tarda mattinata quella in cui Sandro Luporini mi riceve avvolto nella sua vestaglia color amaranto. Artista e memorabile scrittore dei testi di Giorgio Gaber, vive i suoi 92 anni alla periferia di Viareggio, in un complesso di palazzine immerse nella quiete. Dalla finestra si intravede un lembo di pineta. La stanza è ampia e disordinata. Sembra di essere piombati nello spazio di un fantasioso rigattiere.
Ammonticchiati da un lato si vedono una chitarra, una vecchia macchina da scrivere, un imponente ventilatore, armadi a vetro pieni di carte e di libri, delle scarpe appese, qualche lampada e naturalmente quadri, che fanno parte della sua storia. Sediamo su due sedie di solido legno scuro ,che un tempo arredavano immagino stravaganti tinelli, in mezzo un tavolino su cui poggia il gioco di una dama con una partita ancora in corso. Gli chiedo se lo preferisce agli scacchi.
Mi risponde che nella dama tutto è più semplice, meno arzigogolato. Ma agli scacchi ha giocato a lungo: «Passavamo interi pomeriggi con Gianfranco Ferroni a muovere pedoni e i pezzi importanti.
Avevamo accanto alla scacchiera l’orologio da premere dopo ogni mossa. Sembravamo due autorevoli giocatori. Ma la verità è che preferivamo le bocce e il bridge».
Dove eravate?
«A Milano, è lì che ci siamo conosciuti. Ci siamo annusati come artisti e frequentati per poi diventare amici. Gianfranco non era un tipo facile. Ma se entravi nelle sue grazie non c’era cosa che non avrebbe fatto per te».
In che anni vi siete frequentati?
«La seconda metà degli anni cinquanta. Facevamo parte della Galleria Bergamini. Ferroni era la punta di un movimento che si chiamava “realismo esistenziale”. Niente a che vedere con le teorie di Sartre e le Cave dove Boris Vian suonava la tromba e la Greco di nero fasciata illanguidiva sulle note di Les feulles morte, quella roba rifatta da noi rischiava di essere caricatura».
E voi che cosa volevate progettare?
«Abbiamo rimosso tutta la roba intimista e dolente e ci siamo chiesti che cos’ è che conta per un artista? Abbiamo capito che la cosa importante è come vedi quello che c’è fuori. Il mondo è molto più ricco di quello che ti porti dentro. Questo abbiamo pensato cercando di realizzarlo con i nostri quadri.
Ricordo che un discorso analogo feci a Giorgio Gaber e lui che allora leggeva poco e poco sapeva di arte mi ascoltò con curiosità. Non era la prima volta che ci vedevamo. C’eravamo già incrociati al Bar Sempione di via Procaccini, dove abitavo e la casa di Giorgio non era distante. Poi arrivò quel pomeriggio, mi vide in Galleria ed entrò. Fu in quel momento che ebbe inizio il nostro rapporto. Sto parlando dei primi anni Sessanta».
Tu sapevi che era un cantante?
«Sapevo che suonava. Un giorno si presentò in galleria con la chitarra e strimpellò un po’ di note accompagnandole con la voce. Gli dissi mica male, Giorgio. E lui, molto timidamente, mi ringraziò e poi disse che gli sarebbe piaciuto dar vita a un progetto comune».
Quale?
«Voleva che lo aiutassi a scrivere i testi per la sua musica. E lì compresi la prima cosa che Gaber possedeva: una grande modestia. Credeva fermamente nel suo lavoro di musicista, ma conosceva perfettamente i suoi limiti letterari. Ha impiegato anni prima di sentirsi su quel piano meno insicuro».
Ma tu non avevi mai scritto testi per canzoni?
«La mia prima reazione fu appunto di dirgli no. Poi ha prevalso la curiosità. Con Ferroni provammo a buttare giù qualcosa, decisamente troppo cupa, un po’ come i quadri “esistenzialisti” che dipingevamo.
Alla fine riuscii a dargli un testo compiuto con un titolo bizzarro: Suono di una corda spezzata. Giorgio lo musicò e divenne il retro del 45 giri che conteneva La ballata del Cerutti. Era il 1961. Quella canzone piacque solo a noi due, ma fu l’inizio di una collaborazione durata mezzo secolo».
Ti sei sempre sentito in sintonia con Gaber?
«Di screzi ce ne sono stati pochi. Discutevamo tantissimo. A casa, in osteria, in albergo. Lui adorava vivere in albergo. Potevamo passare ore attorno a un tavolo cercando di mettere a fuoco che cosa volevamo dire con una canzone. Eravamo il cantante e il pittore, due dilettanti – diceva Giorgio – un po’ speciali».
Quando hai capito che anche il rapporto con lui era speciale?
«Beh, quando all’inizio degli anni Settanta abbiamo pensato che scrivere canzoni fosse un’occasione per fare teatro».
La conferma vi arrivò con “Il signor G”?
«Un po’ prima. Negli anni in cui cominciò a fare televisione, Gaber scoprì la sua vocazione recitante. Fu in virtù del bellissimo rapporto professionale con Mina che riuscì a tirare fuori le doti di intrattenitore a volte ironico e altre caustico. “Il signor G” che doveva essere all’inizio una canzone divenne un vero e proprio spettacolo. E fu grazie a Paolo Grassi, allora direttore del Piccolo di Milano, che lo spettacolo un po’ alla volta decollò».
Ma chi era questo “Signor G”?
«L’iniziale farebbe pensare proprio a Gaber. In realtà era il piccolo borghese che cercava di scrollarsi di dosso la patina di conformismo. La storia di un uomo insignificante che, in un periodo di cambiamento sociale, cerca di rispondere ai primi dubbi che gli vengono su di sé».
Volevate farne un rivoluzionario?
«Ma no, la sua presa di coscienza non aveva niente di ideologico. Vedevamo anche i limiti di quei tentativi di cambiamento. Infatti, subito dopo realizzammo Dialogo tra un impegnato e non so e l’anno successivo, 1973-74, Far finta di essere sani. Fino alla stagione 1974-75 quando realizzammo Anche per oggi non si vola, dove era abbastanza chiaro che il desiderio di cambiamento era naufragato nel velleitarismo».
Prendeste la politica dalle corna per abbatterla?
«Non ci credevamo più, la stagione si stava concludendo nella violenza e nel fumo del settarismo. Io non avevo rinunciato alla mia piccola dose di utopia, ma non si adattava a quel clima. Per me e Giorgio la politica era parlare di vita, provare a raccontare quello che ci portavamo dentro. In polemica con una certa cultura dominante».
Ma era una cultura di sinistra quella che allora dominava.
«Sai, ho sempre avuto un atteggiamento un po’ anarcoide, diciamo pure da irregolare. Al Capitale di Marx che pure ho leggiucchiato preferivo Viaggio al termine della notte. Dicono: Céline era un fascistone, antisemita. D’accordo, e non sarò io a giustificarlo.
Ma quel libro a me ha cambiato la vita».
Cosa vuol dire?
«È quando cominci a respirare insieme allo stile del romanzo, che arrivi a comprendere come certe parole diventano qualcosa di vitale. Mi fai venire in mente che, a proposito dello spettacolo Polli di allevamento, scrissi una canzone La festa che prende spunto proprio da Céline, quando dice che gli uomini riescono a dare il peggio di sé durante i giorni di festa.
Non sanno che farsene del tempo libero, lo usano in maniera convenzionale, meccanica. Il tempo libero è il modo con cui la società del consumo mette noi in catene».
A proposito di tempo libero, trovavi il modo di continuare a dipingere?
«Non ho mai smesso. L’ho fatto durante i vent’ anni in cui ero a Milano e ho continuato quando sono tornato a Viareggio».
Perché andasti via?
«Me ne andai perché era finito un periodo. Milano era ormai l’esaltazione del superfluo, una città modaiola e di faccendieri divisi tra politica e finanza. Feci la mia scelta. Quanto alla pittura passai insieme ad altri artisti – Bartolini, Biagi, Ferroni, Mannocci, per fare dei nomi – dal realismo esistenziale alla Metacosa. Aggiornai così il mio linguaggio in un tentativo di confronto con le esperienze artistiche americane».
Dipingi ancora?
«Ho continuato a farlo fino a sette, otto anni fa. A un certo punto mi sono accorto che quello che volevo dire con la pittura l’avevo detto. Gli ultimi miei quadri sono delle mareggiate, ne ho realizzate diverse. Mi sembrava di dipingere a memoria. E allora ho messo un punto. Il bello della pittura è di non sapere dove vai a parare. E non mi divertivo più sapendo perfettamente in anticipo cosa avrei realizzato».
Hai anche continuato a scrivere di teatro dopo la scomparsa di Gaber?
«Sì l’ho fatto, mi pareva che avessi ancora qualcosa da dire».
Come sono stati gli ultimi anni della collaborazione con Gaber?
«Immagino che ti riferisca al periodo della malattia. Sono stati anni intensi, anche se mi pare nel 2002 Giorgio aveva smesso di sperare di tornare sul palcoscenico».
Te lo disse?
«No, ma lo capii dalla sua stanchezza, dal riserbo. Quasi una forma di rassegnazione. Almeno così io ho vissuto quei momenti. Sai, durante quel periodo non nominammo mai la sua malattia. La parola “cancro”.
E non c’entra niente se eravamo più o meno intimi in quel momento. Era una forma di pudore. Se le parole non spiegano il mistero della vita e della morte, allora meglio tacere. Continuammo a vederci con regolarità. Ma ogni nostro incontro apparentemente pieno di progetti, in realtà era una recita. Facevamo finta di lavorare».
Lui ne era consapevole?
«Lo eravamo entrambi. Anche se qualcosa provammo ad allestire. Immaginammo uno spettacolo dal titolo emblematico Io non mi sento italiano. Fu quello l’ultimo disco. Ricordo che allestimmo un camion con tutte le attrezzature davanti alla sua casa di Montemagno. Giorgio cantò Se ci fosse un uomo. Non ce la faceva a stare in piedi per lungo tempo. Cantò dalla poltrona. Era seduto e la voce nel microfono mascherava la sofferenza.
Quella fu l’ultima canzone di Gaber che ascoltai».
Cosa immaginavate con “Se ci fosse un uomo”?
«Non lo so, sono passati tanti anni e certe volte le risposte si rivestono degli interrogativi del momento. Eravamo entrati baldanzosi nel nuovo millennio. Ma l’Occidente era ancora traumatizzato dal crollo delle “Due torri”.
Avemmo la sensazione che gli uomini fossero stati sostituiti dagli eserciti, dal fanatismo, da entità strane come la mega-finanza o da quelle nuove strutture, allora nascenti, che tengono interconnesso il mondo. Non ci piaceva quello che sfilava sotto il nostro naso. E, con qualche ingenuità, cominciammo a pensare a un nuovo umanesimo, un nuovo modo di stare insieme. Un abbaglio? Forse. Ma ci piaceva pensare che da una nuova terra sconosciuta ci fosse di nuovo l’uomo al centro della vita».
Hai smesso di pensarlo?
«Ho smesso di pensare a un sacco di cose. Alla fine tutto quello che è sguardo sull’orizzonte si chiude o si concentra su un punto.
La vecchiaia è anche un modo di riportare lo splendore dell’aperto, quando tutte le possibilità esistono, al lumicino di ciò che resta. Non mi lamento. Ero bello e ho perfino fatto l’attore. Ero forte e sportivo e ho giocato per anni ai massimi livelli del basket. Mio padre pittore mi ha trasmesso il dono del dipingere. Giorgio mi ha dato l’opportunità di aprire un lungo e splendido capitolo delle nostre vite».
Splendido quanto?
«Nella misura straordinaria di qualcosa che si è tradotta in un’amicizia vera. Grazie alla quale nessuno dei due ha fatto ombra all’altro. Nessuna gelosia o invidia ha oscurato il nostro territorio comune. Non accade spesso. Ma quando succede anche un non credente come me può gridare al miracolo»
Luis Ferdinand Celine nella sua casa di meudon nel 1960 giorgio gaber 2 colli gaber giorgio gaber giorgio gaber giorgio gaber giorgio gaber giorgio gaber enzo iannacci e dario fo fotografati da guido harari
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