Per anni i trafficanti di droga del Guatemala hanno evitato di farsi la guerra. Nessuno voleva prendere il sopravvento e la violenza era sotto controllo. Fino all’arrivo degli Zetas, un gruppo di feroci sicari messicani. L’inchiesta di un giornale salvadoregno.
L’ultima volta che ha preparato della cocaina è stato tre anni fa. Era in carcere da sette anni. Quel giorno un gruppo di detenuti si è presentato nella sua cella. Hanno srotolato sulla sua branda un involucro di plastica che conteneva della pasta di coca e gli hanno chiesto di cos’altro avesse bisogno. Lui ha risposto che serviva del bicarbonato. Gliel’hanno portato e, il giorno dopo, hanno ricevuto i loro cristalli di crack. È stata l’ultima volta che il Colombiano ha preparato la cocaina. Prima lo faceva tutti i giorni per lavoro.
Fa un caldo asfissiante in questa prigione ma il Colombiano sembra abituato: è arrivato qui in Guatemala nel giugno del 1997 e si è stabilito a Mazatenango, il capoluogo del dipartimento di Suchitepéquez. A duecento chilometri dalla frontiera con El Salvador e a 150 da quella con il Messico, Mazatenango emana il calore balneare di una costa che non ha importanti porti commerciali o grandi complessi turistici. In carcere alcuni detenuti giocano a calcio, parlano sottovoce, mangiano nella mensa o aspettano in manette di essere portati in qualche aula di tribunale. Ci sono prigionieri comuni (li chiamano paisas) ed ex appartenenti a qualche gang. Io e il Colombiano c’incamminiamo verso un angolo isolato per chiacchierare senza dover abbassare la voce.
Negli ultimi dieci anni è stato un testimone diretto dell’evoluzione dei rapporti tra i narcotrafficanti in Guatemala. Prima di essere arrestato, il Colombiano era quello che, nel mondo della droga, si chiama un agente libero. Non lavorava in esclusiva per nessun cartello. Era un libero professionista, un uomo che, come suo padre e suo fratello, sa usare l’acetone, il bicarbonato, le anfetamine e l’ammoniaca. L’hanno arrestato in una casa di Mazatenango in compagnia di suo padre e di un militare guatemalteco loro complice. È convinto che qualcuno li abbia venduti. La polizia ha sfondato la porta proprio quando il Colombiano aveva le mani immerse in ventidue chili di cocaina. I suoi clienti erano soprattutto trafficanti insoddisfatti che avevano ricevuto una miscela cattiva o a cui si era inumidito uno dei carichi. Ma lavorava anche con chi aveva le sostanze chimiche necessarie per trasformare la pasta di coca in polvere bianca.
Appena arrivato in Guatemala il Colombiano ha offerto i suoi servizi a tutti quelli che lo potevano pagare in contanti. Ha lavorato per le famiglie che avevano contatti nel resto dell’America Centrale e in Messico, come i Mendoza e i Lorenzana, ma anche per gruppi meno noti che operavano sulla frontiera occidentale, quella dei migranti e del contrabbando. Lavorava per chiunque lo pagasse e per questo i suoi clienti non hanno mai diffidato di lui. Erano bei tempi, ricorda il Colombiano, e il Guatemala era un buon paese per un agente libero come lui.
Sono passati dieci anni da quando l’hanno arrestato e fuori sono cambiate molte cose. “Quando uscirai ricomincerai a lavorare?”, gli chiedo. “Non credo, amico. Fuori c’è un problema: con l’arrivo degli Zetas è cambiato tutto. Con loro non ci sono trattative che tengano. Si occupano di tutto quello che c’è da fare e hanno rivoluzionato il mercato”. “E tu come fai a saperlo?”. “Guardati intorno. Arriva gente di ogni tipo, si imparano più cose qui dentro che lì fuori”.
Il cortile del Messico
Se in fatto di droghe il Messico è il cortile degli Stati Uniti, allora l’America Centrale può essere considerata il cortile del Messico. Un cortile sporco e trascurato, collegato al Messico da una porta sul retro. La frontiera con il Guatemala è quanto di più simile ci sia a quella porta. Con un affaccio sull’oceano Atlantico, uno sul Pacifico e più di 950 chilometri di confine con il Messico, quella frontiera è un enorme portone. E i narcotrafficanti lo sanno bene, da decenni. A differenza del Salvador, dove negli ultimi dieci anni sono emersi narcos locali di spicco, in Guatemala ci sono famiglie di trafficanti che dominano il mercato fin dagli anni settanta, quando i tamburi della guerra civile risuonavano in tutta l’America Centrale.
Per risalire a quell’epoca mi faccio aiutare da Edgar Gutiérrez. Quest’economista e matematico di cinquant’anni ha fondato varie organizzazioni per aiutare i guatemaltechi fuggiti dalla guerra civile che vogliono tornare in patria, per lottare contro l’impunità delle giunte militari e per recuperare la memoria storica. Gutiérrez ha lavorato anche per il governo: dal 2000 al 2002 è stato capo dell’intelligence guatemalteca e dal 2002 al 2004 è stato ministro degli esteri. Mi descrive la storia del narcotraffico fino alla sua trasformazione in uno dei tanti pilastri del gioco di potere in Guatemala.
“Negli anni sessanta e fino alla metà degli anni settanta il narcotraffico non era come oggi né per volumi di cocaina né per dimensioni del mercato”, spiega Gutiérrez. “A quell’epoca molti cubani si trasferirono a Miami e da lì andarono in Guatemala, attirati da varie agevolazioni fiscali. Questi cubani facevano da ponte per i colombiani e nascondevano le loro operazioni dietro ad attività commerciali, soprattutto l’esportazione di gamberi. Andavano a Miami e nei carichi portavano la droga. Negli anni settanta decisero di abbandonare il narcotraffico per dedicarsi solo ai loro affari legali, e così è ancora oggi”. Documentare questa prima fase è complicato. Gutiérrez si basa sulle testimonianze di persone che facevano parte di quel giro e che lui ha conosciuto direttamente.
Invece la seconda tappa ha avuto risonanza internazionale e se ne parla anche in alcuni documenti dei servizi segreti degli Stati Uniti. “L’amministrazione Reagan s’impegnò per combattere i sandinisti in Nicaragua”, ricorda Gutiérrez. “Pensiamo allo scandalo Iran-contras, il finanziamento degli Stati Uniti ai contras (i gruppi armati controrivoluzionari del Nicaragua) attraverso la vendita illegale di armi all’Iran. A quell’epoca, all’inizio degli anni ottanta, gli Stati Uniti cominciavano a impegnarsi per combattere i narcos colombiani, ma la Cia aveva deciso che la cocaina e l’eroina che passavano dall’America Centrale dovevano essere gestite dagli eserciti locali. Gli Stati Uniti coinvolsero gli eserciti del Salvador, del Guatemala e dell’Honduras in modo che una parte dei proventi finanziasse i contras. Poi tra il 1985 e il 1986 scoppiò lo scandalo. Tutto cominciò con la scoperta, poi confermata dall’amministrazione Reagan, che gli Stati Uniti avevano venduto illegalmente più di quaranta milioni di dollari di armi all’Iran durante la guerra che il paese stava combattendo contro l’Iraq”.
Dopo lo scandalo Iran-contras, il flusso di denaro fu bloccato. La seconda parte della trama, molto più confusa nonostante il passare del tempo, comincia proprio a questo punto. Nel 1996 il quotidiano San Jose Mercury News pubblicò un’inchiesta che metteva in relazione i trafficanti di cocaina e di crack di Los Angeles della fine degli anni ottanta con i finanziamenti dei contras e la Cia. L’articolo provocò uno scandalo e il senato statunitense aprì un’inchiesta. Secondo quelle informazioni, alcuni militari centroamericani parteciparono al trasferimento della droga attraverso l’istmo. I boss più svegli, quando seppero della porta privilegiata aperta dall’onnipotente Cia, si fecero avanti.
“La permissività degli Stati Uniti negli anni novanta spianò la strada all’arrivo dei colombiani in America Centrale, soprattutto in Guatemala”, dice Gutiérrez. “Quando i narcos decisero che il paese era una piazza importante per i collegamenti con il Messico, si rivolsero a ex agenti di frontiera, ex commissari militari ed ex specialisti dell’esercito”.
“Perché proprio loro?”, gli chiedo. “Perché lavoravano sul campo e conoscevano la frontiera. Non facevano più parte delle forze dell’ordine, ma avevano ancora degli agganci. Usavano i proventi della droga per comprare terreni, aprire nuove linee di trasporto e stazioni di servizio, tutti affari che servirono per riciclare il denaro e che poi si stabilizzarono. Così è nata la fortuna dei Mendoza nel dipartimento di Izabal e dei Lorenzana nel dipartimento di Zacapa. Waldemar Lorenzana faceva il doganiere e poi ha cominciato a trafficare in capi di bestiame. Era bravo negli affari”.
Il Colombiano rimpiange quell’epoca, quando tra le famiglie dei narcotrafficanti regnava la pace e gli invitati scomodi non erano ancora entrati in scena.
Domande retoriche
Il piccolo indigeno quekchí mi aggredisce con una domanda così retorica da suonare quasi offensiva: “Lei porterebbe i suoi figli a giocare in un parco dove ci sono persone ubriache con dei fucili?”. Mi fissa perché vuole sentire il monosillabo d’obbligo. “No”, rispondo.
È un informatore dei militari guatemaltechi. L’ho incontrato grazie a una persona di fiducia, che me l’ha presentato a Cobán, il freddo capoluogo del dipartimento settentrionale di Alta Verapaz. La sua testimonianza è servita per scovare una casa usata come deposito di armi dagli Zetas, l’ex ala militare del cartello messicano del Golfo, diventata autonoma. È uno dei tanti cittadini che, nonostante la paura, ha deciso di parlare con i soldati arrivati a Cobán quando è entrato in vigore lo stato d’emergenza.
Sento che sta per farmi un’altra domanda retorica. Mi spiega che a farlo infuriare non è il traffico di droga, ma il fatto che i narcos l’hanno costretto a cambiare il suo stile di vita. Prima portava i figli al parco San Marcos, ma da più di un anno gli uomini degli Zetas hanno scelto quel parco per starsene seduti a fare la guardia, con i fucili e una birra in mano, gridando e dando fastidio alle ragazze.
Ecco che arriva la domanda. “Lei chi aiuterebbe: uno che si fa gli affari suoi senza disturbare nessuno o uno che le rovina la vita?”. Prima che gli Zetas occupassero il parco, alcuni dipendenti della famiglia Overdick, i narcos locali, facevano la guardia controllando i movimenti delle forze dell’ordine. Il mio informatore mi racconta che salutavano sempre con gentilezza, al massimo nascondevano qualche pistola alla cintura ma non si facevano mai vedere ubriachi. Qualche volta, mi confida, lui stesso li ha avvisati quando dall’autobus vedeva un posto di blocco militare. Questi altri, invece, ubriachi e con il fucile, meritano solo una smorfia di disprezzo.
Il 19 dicembre 2010 il governo del presidente Álvaro Colom ha decretato lo stato d’emergenza nel dipartimento di Alta Verapaz. Secondo la legge sull’ordine pubblico, lo stato d’emergenza precede lo stato di guerra: limita la libera circolazione e permette di fare perquisizioni senza mandato. Secondo quanto affermano molte mie fonti, tra cui un ex ministro della difesa, un ex capo dell’intelligence militare, un colonnello, un generale e l’ex cancelliere, la dichiarazione dello stato d’emergenza è stata più una mossa propagandistica che una strategia reale.
Alla fine del 2008 gli Zetas hanno scelto l’Alta Verapaz come base delle loro operazioni per il Guatemala e, sostengono alcuni, per tutta l’America Centrale. La scelta di quel dipartimento era quasi scontata: l’Alta Verapaz è il collo di bottiglia del Petén, un dipartimento grande quasi il doppio del Salvador, il più esteso alla frontiera con il Messico, e tradizionalmente un punto di passaggio di armi e droga. Per arrivare nel Petén, l’Alta Verapaz è un passaggio obbligato e ha il vantaggio di trovarsi a tre ore di macchina da Città del Guatemala. L’esercito, la magistratura e la polizia sono venuti qui su ordine del presidente Colom quando la situazione è diventata insostenibile. Tutte le notizie che arrivavano da Cobán ricordavano quelle dalla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti: narcos che violentavano donne, e uomini ubriachi che ostentavano in pubblico i loro fucili.
Incontro un agente dell’intelligence militare che si trovava a Cobán a dicembre, quando è entrato in vigore lo stato d’emergenza. Mi racconta di come i capi delle famiglie di narcotrafficanti locali hanno visto i nuovi arrivati mettergli sottosopra la casa. Juan Ortiz “Chamalé”, che gestiva il contrabbando e il traffico di migranti alla frontiera con il Messico fino al suo arresto il 30 marzo 2011; Waldemar Lorenzana, che operava ai confini con El Salvador e l’Honduras, ed è stato catturato il 26 aprile 2011; Walter Overdick nel dipartimento di Alta Verapaz; i Mendoza nel Petén e sulle coste vicine al golfo dell’Honduras: tutti erano o sono ancora ricercati dagli Stati Uniti. Tutti sono in allarme per il temibile invitato che si aggira in casa loro: gli Zetas.
Due obiettivi
Ci vediamo nel ristorante della mia pensione a Città del Guatemala. La conversazione con questo militare allegro e diretto ha due obiettivi: voglio sapere se l’intelligence militare dà per scontato che è stata l’uccisione di un narcotrafficante, Juancho León, ad aprire le porte del paese agli Zetas, e fino a che punto un’operazione come quella nel dipartimento di Alta Verapaz può essere considerata solo una mossa propagandistica.
Rispetto al primo punto la nostra chiacchierata dura pochissimo. La risposta è decisamente sì. Nel marzo del 2008, dopo uno scontro armato di mezz’ora tra due gruppi formati da almeno quindici uomini, nello stabilimento balneare La Laguna, nel dipartimento di Zacapa, alla frontiera con l’Honduras, sono rimasti a terra alcuni cadaveri. Tra cui quello di Juan José “Juancho” León, un importante narcotrafficante guatemalteco di 42 anni, leader della famiglia León.
Juancho León sarà ricordato come l’uomo che aveva rotto il patto di convivenza tra le famiglie di narcotrafficanti del Guatemala. “È stato lui a far diventare di moda i cosiddetti tumbes. Gran parte del suo potere economico derivava dalla droga rubata”, mi spiega l’agente dei servizi segreti. I tumbes sono i furti di carichi di droga tra narcotrafficanti. E sono una dimostrazione di come il patto tra le famiglie fosse appeso a un filo ancora prima dell’arrivo degli Zetas.
Juancho León cercava di scoprire i luoghi e gli orari dei trasporti di droga fatti da una famiglia, per esempio dai Lorenzana. La droga entrava attraverso qualche punto cieco della frontiera con l’Honduras e gli uomini di León aspettavano il carico più avanti, quando si muoveva verso il Messico. Rubavano la droga e poi la rivendevano a un’altra famiglia che, a sua volta, la faceva passare attraverso un altro punto della frontiera. Era ingenuo pensare che le vittime dei furti non avrebbero scoperto chi aveva rubato il loro carico.
Secondo l’agente, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato un furto organizzato da Juancho León a danno dei Lorenzana all’inizio del 2008, durante il trasporto di un carico di cocaina per il cartello di Sinaloa, il più potente del continente. Quest’episodio, sommato all’arroganza di Juancho León, alla sua preoccupante espansione territoriale e agli altri furti che aveva commesso, ha spinto i Mendoza e i Lorenzana a stringere un patto per eliminarlo. Ma León aveva un esercito a sua disposizione e si muoveva sempre sotto scorta. Bisognava rivolgersi a dei professionisti che in passato erano già venuti in Guatemala per proteggere alcuni carichi speciali, per addestrare i sicari dei Mendoza o reclutare i cosiddetti kaibiles, soldati d’élite dell’esercito del Guatemala.
È stato a quel punto che le due grandi famiglie guatemalteche hanno spalancato la porta al terribile invitato messicano. Hanno chiesto la collaborazione degli Zetas pensando solo alla loro abilità di sicari. Non hanno riflettuto al fatto che, proprio alla fine del 2007, quel gruppo di ex militari scelti si era allontanato dal cartello del Golfo, ed era quindi orfano, alla ricerca di nicchie di mercato da conquistare e di attività illegali da compiere per supplire alla mancanza di contatti in America Latina. Lo stato d’emergenza a Cobán è stata la prima mossa forte del governo per cercare d’imporre le sue regole all’ospite scomodo. Gli Zetas hanno immaginato che lo spettacolo del governo sarebbe finito presto e hanno deciso di non reagire.
Operazione a sorpresa
Per scherzo la donna mi dice che forse suo marito l’ha tradita. Non è andato a caricare la droga degli Zetas, ma a trovare la sua amante a Cobán. Ci troviamo a El Gallito, il quartiere di Città del Guatemala noto per essere il centro operativo dei narcotrafficanti della capitale. La donna è venuta all’appuntamento nella casa del mio contatto e ci beviamo una birra insieme in attesa che suo marito torni da Cobán. Verso sera si presenta un uomo basso, scuro, con i capelli lisci e i baffi. Sembra così stanco che perfino la moglie mette da parte l’arrabbiatura: “Guarda come ti hanno ridotto quei selvaggi!”, esclama.
Dopo aver bevuto un po’ di birra risponde con calma alle mie domande. “Ho deciso di andarmene perché c’era troppa roba da caricare”, racconta. “Abbiamo riempito molti camion, dalle sei di mattina fino a mezzanotte. Poi gli ho detto: pagatemi e me ne vado”.
“Cos’era tutta quella merce che caricavate?”, gli chiedo. “Scatole e sacchi pieni di… roba”.
Lo lascio parlare senza interromperlo perché in famiglia e tra vicini si raccontano più cose. L’uomo scende nei dettagli. Tutto è cominciato una settimana fa, dopo neanche un mese dall’inizio dello stato d’emergenza, quando lui e altri quindici caricatori della capitale hanno ricevuto un’offerta da parte di un vecchio conoscente che molti sanno essere uno degli Zetas. Hanno caricato e scaricato camion vicino a Cobán: le laboriose formiche degli Zetas hanno fatto uscire dalla zona di rischio la maggior parte della loro merce.
A due giorni dalla mia chiacchierata con lo scaricatore di El Gallito, torno a Cobán, dove la sesta brigata di fanteria ospita i trecento soldati inviati dal governo. Mi accoglie il colonnello Díaz Santos. Fuori, alcuni uomini escono per la prima pattuglia della sera. Un mese e mezzo dopo l’entrata in vigore dello stato d’emergenza, la polizia riusciva ad arrestare solo ubriachi al volante o che si picchiavano per strada, al massimo qualche ladruncolo con un coltello. “Da quando siamo arrivati”, spiega il colonnello, “gli Zetas hanno capito il messaggio: sono diventati più rispettosi e non vanno più in giro come dei pazzi con i loro fucili”.
Racconto al colonnello che gli Zetas hanno dovuto lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro per portare via tutta la loro merce da Cobán. Spero che mi smentisca, e invece conferma e completa la mia versione. “È chiaro. Sono stati avvisati delle perquisizioni e hanno dovuto risistemare gran parte del loro arsenale e dei loro carichi di droga. Noi abbiamo messo le mani su quello che hanno lasciato indietro”, mi spiega.
Acquista sempre più credibilità il racconto di due informatori che vivono a Cobán: il giorno prima della dichiarazione dello stato d’emergenza, la sera del 18 dicembre 2010, c’è stata una partita di calcio. Alcuni membri degli Zetas hanno giocato insieme a poliziotti, giudici e dipendenti comunali della zona. Alla fine hanno ucciso una mucca e l’hanno cucinata arrosto, poi si sono salutati perché i narcotrafficanti dovevano occuparsi della loro merce prima dell’alba.
Alcuni giorni prima a Città del Guatemala avevo incontrato il generale Vásquez Sánchez, il superiore del colonnello Díaz Santos. Lui mi aveva parlato dei successi ottenuti dalle forze dell’ordine: sono stati sequestrati 45 veicoli, soprattutto jeep di lusso e modelli recentissimi di pick-up, 39 fucili d’assalto, 23 mitragliatrici e 35 pistole, compresa una Fn Five-seven, ribattezzata in Messico “l’ammazzapoliziotti” perché i suoi colpi possono attraversare i giubbotti antiproiettile.
Il generale e il colonnello mi hanno raccontato, in due momenti diversi, che tutto è stato possibile grazie alle informazioni fornite dai cittadini. Le persone segnalavano le officine dove le auto venivano modificate per nascondere i carichi e i nascondigli delle armi (nel rancho che apparteneva all’ex narcotrafficante Otoniel Turcios c’era un arsenale): “Basta che andiate lì, a due chilometri dal centro di Cobán, e vedrete la pista degli aerei. I piloti sembrano dei tassisti abusivi, senza permesso per volare e in attesa che qualche cliente gli chieda di portare dei pacchi con chissà quale merce e per chissà quale destinazione”. Nel dipartimento di Alta Verapaz anche la pista aerea di proprietà dello stato era usata impunemente dagli Zetas. Niente controllori aerei, nessun piano di volo o registro con i nomi dei piloti, il modello del velivolo, le ore di volo.
A volte quelle piste erano usate anche per le sfilate di carri, le corse di cavalli o le feste. In fin dei conti, era roba loro. “Strano”, commenta il generale. “Neanche una persona si è presentata per reclamare uno dei cinque aerei che abbiamo sequestrato per mancanza di piani di volo. Lei abbandonerebbe così il suo aereo?”.
Le parole di un colonnello con cui parlo a Cobán rispondono bene a questa domanda. Anche lui è convinto che gli Zetas abbiano imparato la lezione e che non cercheranno di riprendersi le cose che sono state sequestrate. Resta da vedere se la lezione che hanno imparato sarà sufficiente per farli rigare dritto. Gli Zetas non sono maestri di discrezione e la loro decisione di non passare al contrattacco in un certo senso è stupefacente. Per il resto si sono comportati come in Messico, come a casa loro.
Un avvertimento
Il 1 marzo ho cenato con alcuni capi della polizia, militari e consulenti di sicurezza. Ognuno ha un’idea su quello che sta per succedere in Guatemala e su come reagiranno gli Zetas. C’è anche uno dei miei informatori di Cobán. Lo saluto e con la mano gli faccio cenno di allontanarsi con me. Mi fa capire che possiamo trovarci all’angolo del cortile. Passa qualche minuto e il mio informatore arriva. “Allora, hai già pubblicato l’articolo?”. “No, ancora no, lo sto finendo”. “Hai visto che è finito il famoso stato d’emergenza?”. “Sì, venerdì 18 febbraio. Cos’è successo ad Alta Verapaz?”. “Sono tornati gli Zetas. Sono sempre lì, vanno sempre armati per strada, si muovono con un po’ di prudenza in più ma girano sempre in bella vista a bordo dei loro grandi fuoristrada”.
Il 25 febbraio, sette giorni dopo che il presidente Colom era andato a Cobán per annunciare la fine dello stato d’emergenza, un commando armato è entrato in una concessionaria, ha incendiato tre macchine e ne ha colpite altre tre con delle raffiche di Ak-47. La mia fonte è sicura che siano stati gli Zetas: stanno cominciando a vendicarsi. Stavolta erano auto, ma presto saranno persone.
Ora che lo stato d’emergenza è finito e Cobán torna alla normalità, il mio informatore mi fa l’ennesima domanda retorica: “Cos’altro potevamo aspettarci?”.
Traduzione di Sara Bani.