Com’era prevedibile, dopo tanto disquisire sulla “nuova guerra fredda” ci ritroviamo immersi in una nuova guerra calda, effettiva, reale. È inutile illudersi, lì stiamo. Magari non siamo in guerra ma siamo in una guerra: che ci circonda, ci avvolge, permea i nostri spiriti e influenza la nostra vita. Anche l’informazione è ormai informazione di guerra. I nostri e i loro, il bene e il male. La battaglia per Mosul è bella e buona e i civili non muoiono se non per mano dell’Isis. Quella per Aleppo è brutta, sporca e cattiva e i civili muoiono solo a causa dei russi. I civili nello Yemen muoiono ma non si dice, vedi mai che ci perdiamo qualche buon affare con i sauditi. A Gaza anche muoiono i civili ma parlar male delle bombe di Israele non è più di moda e parlar male dei miliziani di Hamas è poco fine.
Dovremmo riconoscere la realtà della guerra se non altro per rispetto verso i morti. Che non sono ipotesi, come la guerra fredda. Sono realtà, come la guerra vera. In Siria sono state ormai falciate tra 300 e 450 mila vite, secondo i pareri dei diversi osservatori e i risultati dei diversi sistemi di censimento. In Afghanistan più di 100 mila, in Ucraina più di 10 mila, in Libia più di 20 mila, oltre 10 mila anche nello Yemen. Per non parlare dell’Iraq, dove la più colonialista e imperialista delle guerre, l’invasione anglo-americana del 2003, ha provocato centinaia di migliaia di morti e favorito l’irruzione dell’Isis. Davvero riusciamo ancora a sostenere che non siamo in una guerra?
La convinzione, viva ancora in molti, di essere estranei a tutto questo affonda le radici in due fenomeni. Il primo è che, incredibilmente, siamo ancora convinti che tutto ciò che non succede in Europa non succede davvero. Fa ridere, è vero. Però questa curiosa forma di presunzione corrisponde perfettamente all’Europa vecchia e sazia che conosciamo, il continente del declino demografico e dei pensionati rampanti ai quali nessun politico ha il coraggio di dire che tra quarant’anni, se non cambia nulla, gli europei saranno il 20% meno di adesso, e comunque qualcuno dovrà andare in fabbrica e qualcuno dovrà pagare le pensioni.
Signore e signori anche simpatici ma attempati e sazi, ai quali nessuno spiega che di fronte a questo continente che s’impoverisce poco e si svuota tanto ci sono un Medio Oriente in cui più del 30% della popolazione (quindi, 120 milioni di persone) ha meno di trent’anni e un’Africa in cui vive gran parte di quell’1,2 miliardi di persone con meno di 25 anni che abitano il pianeta Terra. L’Italia, età media 44,3 anni. La Germania, età media 54,2 anni. L’Austria, età media 43,8. La Francia, età media 41,2 anni. Ma, appunto: se non succede in Europa non succede davvero. Quindi basterà tenere i migranti fuori dall’Europa, parcheggiandoli in Turchia per esempio, perché le migrazioni non esistano. E pazienza se le Nazioni Unite, attraverso l’Alto Commissariato per i Rifugiati, ci dicono che anche qui c’è la guerra, la guerra vera. Perché i profughi (quelli che hanno dovuto abbandonare il luogo in cui vivevano) nel 2015 hanno raggiunto la cifra di 65,3 milioni, record storico (erano 42 milioni solo nel 2011) e guarda caso i Paesi che hanno “prodotto” più profughi sono quelli dove ci si combatte e dove noi buoni abbiamo messo le mani per distribuire democrazia e progresso. Al primo posto per i rifugiati c’è la Siria (4,9 milioni), poi l’Afghanistan (2,7 milioni), terza la Somalia (1,1 milioni). La Siria e l’Iraq, poi, sono anche tra i Paesi con il maggior numero di profughi interni, gente che ha perso tutto ma non ha lasciato il Paese: 6,6 milioni in Siria, 4,4 milioni di Iraq.
L’altro fenomeno per cui continuiamo a credere di non essere in una guerra solo perché non siamo noi stessi in guerra è la fondamentale incomprensione (ma forse il termine rigetto sarebbe più adatto) della natura della guerra contemporanea, che ha questa caratteristica precipua: fa morire soprattutto persone che non portano armi né uniformi. Durante la prima guerra mondiale (1915-1918) le vittime civili furono il 16% delle vittime totali. Con l’invasione dell’Iraq (2003-2008), la percentuale di vittime civili raggiunse il 90%. I soldati, oggi, sono le “vittime collaterali”, un fattore tutto sommato secondario nel body count dei conflitti. Le vittime senza aggettivi sono i civili, uomini donne e bambini sui quali si scarica tutta la violenza.
L’abbiamo visto in Iraq e in Siria. L’abbiamo visto in Afghanistan, dove più di un terzo dei 100 mila morti registrati tra il 2001 e il 2014 è formato da civili indifesi. Lì, dove la nostra retorica voleva che tutto fosse risolto, dove le donne bruciavano i burqa, nel primo semestre di quest’anno c’è stato il record di vittime civili: 1.601 (con 3.565 feriti), ovvero il 4% in più dello stesso periodo dell’anno scorso. E un terzo delle vittime, ci dice il rapporto Onu, era costituito da bambini: 388 minori uccisi, 1.121 feriti.
Questo perché le grandi nazioni, le potenze vere o presunte, hanno da tempo capito che ci si può benissimo combattere, anche per lungo tempo. Basta farlo in casa d’altri: Usa e Russia per esempio lo fanno in Ucraina e in Siria, Iran e Arabia Saudita (con l’evidente ombra di Usa e Russia a sovrastarli) in Iraq e nello Yemen. Perché affrontare lutti e distruzioni quando si possono perseguire gli stessi scopi lasciando ad altri tutta la sofferenza? È più che venuto il tempo di accettare la realtà: siamo in una guerra. Non l’abbiamo proclamata noi, non sappiamo nemmeno più come e quando sia cominciata, ma è lì, alle porte. Sarà meglio guardarla negli occhi per capire dove stiamo andando. Altrimenti, oggi qualche centinaio di soldati sulla diga di Mosul, qualche decina di soldati in Lettonia ai confini con la Russia, migliaia di migranti in arrivo dalla Libia devastata dalla guerra franco-inglese-americana del 2011… Domani?