Negli ultimi anni l’attenzione critica per Peter Handke si è concentrata soprattutto sulle sue discutibilissime prese di posizione filo-serbe sul sanguinoso smembramento dell’ex-Jugoslavia e poi sui processi di Amsterdam. Molti vecchi titoli importanti in libreria non si trovano e le ristampe sono diminuite, anche se qualcosa sembra muoversi ultimamente. Le traduzioni continuano però a un ritmo abbastanza regolare: il che significa che, a dispetto della corposa diminuzione delle recensioni, un suo pubblico lo scrittore austriaco di origini slovene continua ad averlo. E meno male.
L’attenzione è risvegliata anche dai premi (Premio Kafka, 2008; Premio Ibsen, 2014), oltre che dal risorgere delle polemiche, che non sempre però centrano il bersaglio (forse perché è troppo facile, ciò che esime dall’approfondire e analizzare anche il ventaglio delle motivazioni, non tutte così scandalose, che Handke si è fatto premura di dispiegare; anche se la pubblicazione dei suoi dialoghi con Milosevic che ne sposano in toto le tesi ha suscitato un comprensibile sgomento, per non dire nausea, in primo luogo già nei serbi democratici attuali).
Le ultime traduzioni, dopo l’importante La notte della Morava (2008, trad. it. 2012) che in un certo senso si riallaccia al fondamentale Il mio anno nella baia di nessuno (1994, trad. it. 1996), sono rispettivamente di un libro di sogni (Un anno parlato dalla notte) e del Saggio sul luogo tranquillo, che segna il ritorno a uno dei generi in cui a mio parere Handke ha raggiunto alcuni dei suoi risultati più felici: un saggio: qui sulle toilettes, o bagni, o gabinetti o cessi che dir si voglia (termini che l’autore non usa, perché è il luogo che gli interessa più che la funzione; e, penso, per non calcare la mano ancor di più sulla provocazione di averlo scelto a oggetto di un libro, anche se lo spazio che gli dà Tanizaki nel suo bellissimo Libro d’ombra, qui citato, è molto ampio).
Prenderò spunto da quest’ultimo volumetto per parlare anche degli altri libri affini e per cercare di capire come funziona nello scrittore austriaco il saggio, che gli ha dato l’occasione di scrivere alcuni dei suoi libri che reputo più riusciti, o quantomeno che mi interessano e amo di più. Trasporto che non sempre provo per i suoi romanzi, nonostante le numerose pagine altissime che da sole basterebbero a giustificarne la lettura integrale. Handke stesso afferma in una intervista recente: “Io sono un pensatore dell’istantaneo: solo questo. Narrare non mi interessa, i miei intrecci sono mascherati, sepolti; preferisco realizzare, nel senso in cui lo intendeva Cézanne”.
Anche in Un anno parlato dalla notte i sogni non appaiono come tali, come storie o frammenti di storie, ma solo sotto forma di frasi o segmenti isolati, per quanto strutturati in un modo molto originale e con una scansione che ne accentua le potenzialità evocative e l’intensità.
Che è un modo come un altro per non raccontarli, però. Proprio perché le storie gli sembrano consumate, marce, Handke ha sempre cercato di evitarne i tranelli sperimentando molti generi e tecniche (libri di appunti, diari, sogni, anche opere teatrali pochissimo drammatiche – nel senso dell’azione –, forme “poetiche” in versi e in prosa con intenzioni epiche ecc.), ma da nessuna parte vi è riuscito, a mio parere, come con i saggi, che peraltro gli hanno poi permesso di recuperare la narrazione affidandole un ruolo importante ma non più preminente. Del resto sono la forma stessa del saggio, la sua storia e la sua vocazione, a favorire questa (controllatissima) deriva sperimentale, e al contempo a richiedere una struttura e un lavoro sul linguaggio che lo scampi dalla “lingua da fuchi di un’età di latta”, dal suo “tanfo di banalità”, che non rinuncino alla trasmissione, cioè alla comunicazione, e a un legame, sia pure disgiuntivo o oppositivo, con la tradizione. Legame che Handke, dopo le “provocazioni” avanguardistiche giovanili, ha voluto ben presto ripristinare, sia pure in modi innovativi, gli unici in cui esso può essere tenuto vivo. Anche se poi, alla lunga, basta tornarci dopo brevi o lunghe assenze, con il carico di oblio ma anche di conoscenze e esperienze maturate nel frattempo, perché questi modi si impongano quasi da sé.
Torniamo per un momento ai sogni e alla narrazione. Quando i sogni compaiono nelle sue altre opere, Handke non si diffonde in descrizioni e nemmeno accenna alle emozioni che hanno suscitato, ma si limita a enumerare azioni o segmenti di discorsi, di dialoghi o pensieri, semplici enunciati, in brevi frasi autonome, disposti l’una di seguito all’altra senza alcun nesso al di là della regolarità della spaziatura che le separa (Saggio sul Juke-box, 24)
Anche in Un anno parlato dalla notte, che di sogni è tutto composto, non li racconta ma lascia che siano essi, o ciò che ne rimane, a presentarsi alla parola e (così) a parlare. Il problema della connessione, centrale (Handke lo dice in vari luoghi, in particolare in Intervista sulla scrittura, passim), è scavalcato, non esiste nemmeno; per quanto poi la costruzione del libro, con la regolarità delle sue griglie e le cadenze che ne derivano, finisca per istituire forme sottili di connessione attraverso i vuoti, le peculiarità delle singole sequenze, le somiglianze, i richiami e i dialoghi interni che la loro stessa coesistenza implica e permette.
Anche la forma del saggio che Handke è venuto elaborando nel tempo, già a partire da quello che secondo me è il suo incunabolo, se non il primo esemplare (Nei colori del giorno), in un certo senso risponde alla necessità di raccontare senza trama, senza personaggi o accadimenti, e conseguente svolgimento (e relativi passaggi, nessi, parallelismi o contrapposizioni, intreccio di tempi e luoghi, ecc.), se non ridotti al minimo o funzionali (o piuttosto inseriti, successivi, con-seguenti, accanto) ad altro; non esemplificazioni però: quasi mai, perché l’esemplificazione è una subordinazione, che contrasta con l’assunto principale della sua scrittura, di qualcosa che si afferma nella pienezza del suo essere lì, né prima né dopo, né sopra né sotto quindi.
Il saggio, in quanto tentativo e prova come dice l’etimo e anche il termine tedesco Versuch, è sperimentale per definizione, instabile, mutevole, adattabile e insieme formativo: non solo nel senso che dà forma al suo oggetto mentre lo saggia, ma anche perché è una pratica che verte, in Handke e nei saggisti più avveduti, anche sulle sue stesse forma e lingua.
Uno scrittore, anche se cresciuto in pieno modernismo nel clima delle neoavanguardie postbelliche, non può fare a meno di raccontare; ma chi si è formato in quel periodo ha in sospetto, o avversa esplicitamente, la “storia”, la “trama” (come si desume, ancor prima che da interviste e dichiarazioni dirette dello scrittore austriaco, dalla lettura delle sue opere, anche le più recenti), i personaggi e tutti gli elementi legati all’azione, specie se fortemente marcati.
E più ancora, come dichiarato nella polemica germinale con il gruppo 47, non dà nessun credito a chi fa un uso irriflesso e strumentale del linguaggio e lo subordina alle esigenze di una presunta rappresentazione della realtà che gli sarebbe anteriore e esterna, mentre invece va considerato, o meglio assunto, affrontato (in un far fronte che è anche lotta, oltre che impegno e responsabilità) in primo luogo come realtà esso stesso, come barriera e luogo e punto di partenza e soglia, poiché convenzionale e trasmesso, come d’altra parte convenzionali e tradizionali, e quindi esse stesse luogo di conflitto, sono le trame. Bene, anche costui alla fine non può che cedere al raccontare (alla gioia di riuscire a raccontare), sia pure soltanto trovando modi alternativi, ogni volta diversi, ma sempre e comunque “necessari”, “vincolanti”, perché ogni volta la scrittura deve trovare la propria legittimità (“Ma qual era la legge del mio oggetto – la sua forma ovvia, vincolante?”, Nei colori del giorno, 62) e necessità: altrimenti non inizia nemmeno (“Il “diritto di scrivere” – necessario, sempre, ad ogni nuovo lavoro”, ibid., 45).
Da qui l’adozione della descrizione come racconto, la ricerca di una nuova epica dell’effimero e dell’apparentemente secondario o banale (da non confondersi quindi con l’odierno new epic: più vicino a Francis Ponge, piuttosto, che personalmente preferisco per asciuttezza di dettato – e di ciglio), ma soprattutto il saggio: la scelta di un oggetto-tema-argomento che si afferma e impone come innesco della scrittura mediante un’immagine, un’espressione (per esempio “giornata riuscita”) o solo un vago, anche se intenso, sentimento, che tuttavia in un certo senso non preesiste alla scrittura ma in essa viene ad essere, a definirsi e configurarsi man mano, anche attraverso la narrazione del soggetto che la circoscrive e delinea e approfondisce.
Il soggetto qui è anzi richiesto: a saggiare non è una mente astratta, la prova non è effettuata da una razionalità disincarnata, ma deve per forza passare attraverso l’esperienza di chi la affronta, e senza di lui non ha valore: ciò che comporta la necessità del soggetto e insieme quella del suo superamento, perché è soltanto uscendo da se stesso, andando verso l’oggetto, lasciandosi catturare da esso mentre lo si cattura, e verso gli altri, che l’oggetto può essere recepito e trasmesso: in uno spazio comune. E così diventano indispensabili anche l’attenzione per le circostanze e i luoghi, come anche gli incontri e i ricordi, e le ipotesi e le fantasie, che accompagnano questo percorso, di cui anzi il cammino è costituito. Handke infatti insiste spesso sulla fase di preparazione, sulla scelta del luogo (Soria, la città di Antonio Machado, in Spagna, per il Saggio sul juke-box; Salisburgo per quello sulla giornata riuscita…), sulle modalità e il periodo (fine anno in almeno un paio di casi: in particolare, nel Saggio sul juke-box, la fine del ʻ89, anche come gesto di sottrazione alla prosopopea del cambiamento e alle richieste di unirsi al coro dei magnificatori dell’evento), e in genere su tutto il rituale di ingresso e passaggio alla scrittura, oltre che sulle condizioni materiali e la scansione delle giornate nel periodi di redazione. Il racconto passa da lì.
Non più funzionale a un fine o a una fine, non più adattato o strutturato attorno a uno scheletro preesistente, il racconto può allora sorgere e svilupparsi e interrogarsi in mille modi senza chiudersi né chiudere tutto in sé, senza finire. Dal momento cioè che il saggio verte su un’esperienza in via di farsi, anche solo prestare attenzione ai suoi modi di porsi e imporsi si traduce in una forma di racconto. Raccontare cade così sotto il segno della necessità, è sottratto all’arbitrio di una decisione estrinseca come alla camicia di forza di griglie preconfezionate, pronte all’uso come se fossero contenitori neutri, pura accoglienza, e deve pertanto trovare, o inventare, ogni volta la forma e il linguaggio della specifica esperienza che costituiscono quel saggio specifico.
In genere i romanzi di Handke, e più ancora gli ultimi dei primi, sono un tour de force per non raccontare, o meglio: un continuo rinvio, una lotta per dire e narrare senza ricorrere ai fatti, a eventi di qualche rilevanza, se non scarnificati, appena evocati o sminuzzati in pura enumerazione di gesti, posture o azioni separate, scomposte e semplicemente allineate (ma certo poi l’allineamento è già una costruzione, il detto è già una scelta, il ritaglio dal continuum è già l’assegnazione di un senso, sia pure ridotto quanto più possibile ai minimi termini, essendo il grado zero, per chi vi ambisce, al massimo un ideale regolativo).
Handke gli gira attorno, dicendo tutto fin nelle più sottili implicazioni, di quanto li ha determinati o ne è direttamente o meno derivato, a volte senza neppure nominarli, non tanto lasciandoli nel vago con una scrittura non rappresentativa a seconda dei casi per eccesso di astrazione e per una tensione a volte difficilmente sostenibile, che comporta una lettura ravvicinata dei membri della frase che però poi è molto difficile ricomporre nell’unità di un pensiero; ovvero, all’opposto, per eccesso di vicinanza concreta, per l’immersione totale nello spazio e nelle cose, di cui si percorrono tutte le componenti e le nervature nominate con una precisione quasi maniacale, tanto che alla fine è piuttosto arduo delinearne il profilo o farsene un’idea concreta (Lento ritorno a casa; In una notte buia uscii dalla mia casa silenziosa, La miniera di sale).
La cosa e lo spazio si eclissano, anziché esserne esaltati, nel loro profilo, nella sagoma tracciata in negativo, o disegnata solo percorrendone l’orlo, dentro e fuori i margini che così perdono la continuità che aiuterebbe a riconoscerli, ovvero quasi si dissolvono in qualche fattore innominato ma (o: perché) decisivo che, come un baleno, appare e scompare da tutto ciò che viene detto al posto della sua vietata nominazione e definizione, della sua impossibile rappresentazione mimetica (impossibile in primo luogo a chi scrive: nel senso che proprio non ce la fa; non può e non vuole, e sa che solo sottraendosi arriverà a scrivere, e a dare corpo). Una “lingua smaterializzata eppure concreta” che Handke (in Nei colori del giorno, 47) confessa di cercare per il libro che sta scrivendo (Lento ritorno a casa), e che troverà e affinerà nei libri successivi, con risultati a volte forse faticosi per il lettore (qualche sforzo è bene che lo faccia lui pure, o no?, dato l’assenza di fatica è solo blandizie, sicurezza del già noto), ma in più di un caso straordinari, come pochi se ne trovano nella prosa contemporanea.
Nei saggi invece c’è un narrare più disteso, e più ancora nell’ultimo, legato forse al fatto che qui la memoria attinge per una volta con maggiore continuità e minori resistenze (stilistiche e formali, ma anche soggettive, esistenziali, “di principio”) al passato remoto, a qualcosa di mai detto e ora finalmente, a 70 anni, dicibile, anche se non c’era niente, in esso, di temibile o vergognoso, di rimosso o da tenere nascosto.
Si potrebbe dire, paradossalmente, che mentre alcuni scrivono saggi in margine, in alternativa o a proposito di romanzi e racconti, Handke li scrive per raccontare. D’altra parte come rimproverare a Handke il sollievo che deve aver provato, parlando in modo così diretto e piano di sé, lui che in tutta la sua opera in fondo non aveva fatto altro, ma sempre per vie indirette in modi e figure diverse, persino in quella dedicata al suicidio della madre, Infelicità senza desideri (cfr. Intervista sulla scrittura, 86-87)?
È come se in questo Saggio sul luogo comodo, più ancora che negli altri saggi e a dispetto delle dichiarazioni, Handke abbia abbandonato, o quantomeno messo in sordina ogni ambizione epica, e fosse pure l’epica dell’insignificante che acquista rilievo solo nell’attimo in cui emerge come da sé dall’indistinto del luogo reale o della mente e si impone all’attenzione, che vi resta catturata essa pure per un attimo che però può anche non spegnersi mai, ovvero impigliata per un tempo (intervallo o durata) che può propagarsi a lungo, e in largo, a luoghi cose e persone (al mondo e al vivere) e al soggetto stesso come una sete, o meglio un vuoto, che ci vorrà molto a colmare. Ridotta così l’enfasi, e con essa la tensione, sia quella del controllo esasperato onde evitare le cadute nei cliché e nel banale scritto ecc., sia quella dell’intensità del sentire e della scrittura da trattenere e far durare il più a lungo possibile e anzi da portare verso il punto massimo di incandescenza e lì tenerla (come si narra di certo erotismo tantrico o cinese: qui del piacere, invece che “del dolore”, se mi si passa il ribaltamento di un titolo famoso), è come se Handke in questo libretto non avesse più paura della pace: non quella che afferma di aver cercato e talvolta trovato per tutta la vita, ma quella dell’abbandono a un racconto non più sentito a priori come meccanismo che già di per sé svuota o appiattisce, ma come qualcosa di possibile perché già pieno di pensiero e di esperienza.
Luogo, lentezza, attenzione, descrizione narrativa, minuzia “epica” (per tono e sviluppo), assenza di trama o sua riduzione al minimo, come “costrutto” sempre da infrangere e dislocare, irruzione accidentale dell’azione (della storia) in un discorso che non la prevedeva (come l’imprevisto della scrittura, quindi, e non come il suo binario prescritto); e ancora: io come fattore strutturante, come soggetto non separabile, immerso e fatto vivere dalla percezione e dall’emozione, ma non sentimentale; io autobiografico, ma dove l’“auto” è importante, decisivo solo per e quindi scevro di ogni narcisismo (in linea di principio: poi non sempre nemmeno uno puntiglioso come Handke ci riesce) e di conseguenza anche della “memoria”, del suo culto in sé o del gusto aneddotico, da recuperare o salvare, per cercarvi di conseguenza una qualche personale o storica salvezza, o consolazione, o altri palliativi. La memoria, qui, e l’autobiografia sono sempre raso-scrittura (come si dice di un volo, o di un tiro rasoterra), sempre a filo di scrittura, né prima, né dopo.
Uno degli aspetti più interessanti (originali) di questi saggi è che non vertono su un oggetto “culturale” classico (libro, quadro, musica…), ma su qualcosa di molto preciso (juke-box, luogo tranquillo), e a volte su una vaga nozione, o meglio su un’espressione (giornata riuscita) o addirittura una parola (stanchezza), che prende corpo e viene definita nel movimento stesso che la costeggia e corteggia, e lentamente circoscrive e focalizza. O un’immagine, un oggetto o un sentimento, una condizione, che vengono fatti oggetto di indagine, di pensiero nel suo senso più lato, che non perde di vista l’assenza, o la vaghezza, il puro potenziale da cui è stato innescato e in cui resta innestato. “Pensare,” dice G. Agamben (Il fuoco e il racconto, Nottetempo, 2014, p. 111), “significa ricordarsi della pagina bianca mentre si scrive o si legge. Pensare – ma anche leggere – significa ricordarsi della materia”. La materia del mondo, e del corpo, e, per chi scrive, prima di tutto della scrittura: la lingua.
Nel Saggio sul luogo tranquillo, per esempio, il luogo tranquillo è il privato, dove ci si ritira per stare soli con il proprio corpo e le sue funzioni più intime, che ogni gruppo sociale regola e separa, ma è anche il luogo che apre all’emozione che riporta alla parola chi vi si rinchiude. È il più privato del privato, tanto che lì non occorre, come ognuno sa, fare ciò per cui è stato fatto. È la sicurezza, la separazione in cui, dell’esterno, penetra e da cui si accede solo a ciò che si desidera, o che ci viene concesso, ma in modo che sia esso quasi a chiedere di essere accolto, invece di imporsi con la sua ingombrante presenza. Rifugio, ma insieme anche appaesamento, presa di possesso di un luogo che magari fino al momento prima era ostile o anche solo estraneo. Handke lo illustra benissimo quando parla del suo arrivo in seminario o della toilette del tempio di Nara: “Solo quella mattina, quando entrai nella toilette del tempio a Nara, il Giappone mi divenne familiare; fu allora che approdai sull’isola; allora mi impadronii del paese, tutto intero” (p. 64).
La sua ricerca è una costante nello scrittore austriaco, lo si vede non solo quando cita la toilette in altri libri (cfr.), ma già in Nei colori del giorno, quando parla dell’Estaque cézanniano, o della catasta di legno dell’infanzia: “con il tempo, fu come se potessi addirittura determinare, di caso in caso, di essere “l’Invisibile”. Non mi consideravo sparito o dissolto nel paesaggio, ma ben occultato nei suoi oggetti (gli oggetti di Cézanne.) Non avrebbe dovuto essere così da sempre, e non c’era già stato qualcosa nell’infanzia che, come più tardi l’Estaque, fu per me il luogo, la cosa del riparo?” (p. 44).
È in questo luoghi rifugio che l’autore si ritira per superare il blocco, quasi-autistico per sua stessa ammissione, che spesso lo prende quando è tra la gente, “muto, dolorosamente escluso dai fatti” (che è poi il primo dei “quattro modi in cui il [suo] Io, come soggetto di linguaggio, si rapporta al mondo, Saggio sulla stanchezza, 38) e poter passare “dal mutismo, al ritorno del linguaggio”: il luogo della separazione è anche la soglia che apre al ritorno. È anche l’immagine dell’emozione che conduce alla parola, alla scrittura, dello spazio che essa apre e che in essa si apre (Saggio sul luogo tranquillo, 103).
La straordinaria cura della lingua è la stessa che Handke rivolge anche agli infimi particolari di ogni cosa e persona e sensazione e emozione, e anzi con quella forma suprema di attenzione per ogni singola cosa che si può manifestare solo non trascurando nessun dettaglio fino alla più lieve sfumatura.
Un’attenzione non come atto volontario, di dominio, per ghermire il sensibile, assimilarlo alla nostra chimica, ma come disponibilità, accoglienza: un esercizio di riduzione dell’io, o meglio: un’eclisse non cercata né voluta, ma autoinstallantesi (come certi virus informatici: ma benigno qui) per accogliere tutto in modo che risalti, e risuoni, nella sua singolarità, per ciò che è e per come è, e al contempo dia il tono e la definizione, l’intensità, a chi la esercita, o meglio: ne viene pervaso, e in certi casi travolto.
A volte la frase non è la delimitazione dello spazio della descrizione (della cosa, persona, sensazione…), ma traccia il percorso di avvicinamento, racconta il processo di focalizzazione, conducendo il lettore all’interno dei meccanismi della percezione e del pensiero dello scrittore mentre sta osservando e scrivendo.
Questo processo, questa approssimazione che diventa racconto, avventura, non è dettata tanto, o solo, dalla fedeltà, dall’ubbidienza alla cosa o alla percezione, ma anche, se non soprattutto, alla lingua, ai meccanismi, sonori ritmici e semantici che fanno slittare da una parola all’altra, creano ponti, o disgiunzioni, parentele o affinità per differenza e opposizione, e dunque legami ancora più forti, e non per vezzo poetico o esibizione di perizia retorica o formale, ma perché sarebbe solo attraverso tale ascolto, e pulsazione, che anche quello alle cose può avvenire e manifestarsi.
È difficile dire di cosa parla Handke. Non appena si cerca definirli, temi e oggetti perdono peso e concretezza, diventano inconsistenti, si dissolvono. Se li si nomina, non resta che il nome, che al massimo richiama qualche concetto banale nella misura stessa dell’importanza della sua storia o della sua pregnanza: la natura, lo spazio, il tempo, il mito. Estratti dal testo, dal suo flusso, dai delicati, quasi invisibili, ma insieme fortissimi ingranaggi e legami da cui sono non definiti ma costituiti, dalla grande tensione che tiene insieme e salda ogni parte al tutto meditato in ogni dettaglio, nomi e cose, pensieri e emozioni si svuotano; anzi, peggio, si afflosciano.
Un autore che si ama non è un modello, ma un modo. Il suo procedere non è la proposta di una direzione sociale o esistenziale, ma, per chi legge, una realizzazione e al contempo uno strumento: un arricchimento, non una regola. Al massimo un invito, delle occasioni eventualmente da sperimentare. Un esercizio, materiale e spirituale. E allora non importano gli aspetti “romantici” o che l’autore configuri ciò che fa nell’orizzonte di un’utopia estetica. Quello concerne solo lui.
Quello che importa quindi non sono gli “insegnamenti” diretti, o qualche forma di dottrina o di idea sulle cose, ma l’esemplificazione pratica di procedure di visione e di pensiero, l’uso della lingua, della sintassi in primo luogo, e la precisione del lessico anche quando l’astrazione è forte e il rischio della vaghezza incombente.
In Il peso del mondo, Handke scriveva: “Come scrittore ho sempre la pretesa di inventare miti, di trovarne altri che non abbiano dunque nulla a che fare con quelli occidentali: come se avessi bisogno di nuovi miti, innocenti e desunti dalla vita quotidiana, a partire dai quali ricostruire me stesso (non alessandrini rimandi a miti come in Joyce e Beckett)” (p. 78, cors. mio): bisogno che nei Saggi trova alcune delle modalità più dirette di soddisfazione.
Poi ancora: “Sono convinto di dover dimenticare completamente il passato, per non soggiacere più a questo dolore di petto: devo perdere la mia memoria! Contro Proust e Benjamin e la ben protetta coscienza borghese con il suo piacere del ricordo e con la sua coscienza di esso (la mia lotta contro la memoria, che mi limita fin dall’infanzia, che mi minaccia tramite la morte!)” (p. 38): lotta che si manifesta nella concentrazione sul presente della percezione e della scrittura, ma che in alcuni dei saggi (in particolare quello sul juke-box), si allenta, e che in Saggio sul luogo tranquillo Handke accetta di aver perso, o ha finalmente smesso di sostenere.
Quello che trasmettono allora i suoi libri, non sono solo idee o emozioni, che certo non mancano, quanto un modo per imparare a vivere, per vivere imparando a vivere, perché si vive solo se si cerca ogni momento di imparare a vivere, a muoversi tra le cose, nel mondo, e a vederle, maneggiarle e insieme rispettarle per ciò che sono e in tutte le relazioni possibili, che le avviluppano e le collegano allo spazio e al tempo, anche, se non soprattutto a quelli interiori, per riuscire a essere saggi. Cioè felici. O non infelici. O solo un po’ meno, se possibile.