Tony Pagoda, il protagonista del romanzo di Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione, è un personaggio che non si dimentica tanto facilmente. Sin dal suo debutto sulla pagina, questo cantante cocainomane sfatto, cinico, baro, sentimentale sino alle lacrime, assurdo e paradossale, si stampa nella mente del lettore che ne segue l’eruzione verbale mentre dilaga, a ritmo serrato, per pagine e pagine. Un essere orrendo, ma assolutamente simpatico. Vero, meglio, verace, una vera vongola che racconta come e perché filtra con la sua mente l’acqua inquinata del Golfo di Napoli e dintorni.
Ha schifo degli altri e anche di se stesso; un vero animale in grado di far leva sulle debolezze altrui per farsi largo nel mondo: sedurre donne, intortare il pubblico, tenere testa ai suoi musicisti, farsi beffe di tutti, dalla moglie alla figlia, dalla sorella alle vicine di casa. Un guaglione e un po’ tossico: un vero eroe dei nostri tempi. Sorrentino possiede senza dubbio una lingua per dar voce al monologo: un impasto di italo-napoletano, con spruzzatine di dialetto e frasi fatte perfette. Tutto ha ritmo. Ed è adatto a Tony, cantante dalla voce d’oro. Ci racconta la realtà attuale; anche se poi tutto è retrodatato di almeno trent’anni rispetto all’oggi.
Funziona perfettamente, almeno sino a due terzi del libro, quando entra in scena la contessa Fonseca e si racconta l’iniziazione di Pagoda a sesso e cocaina. Da lì in poi, invece di dar voce al delirio paranoico di Tony, Sorrentino si mette a raccontare, e il romanzo, per quanto piacevole e interessante, perde quota, a cominciare dall’improbabile fuga in Brasile. La lingua cambia: meno inventiva, meno mossa. Il finale col ritorno in Italia, nel 1999, è in discesa. Un peccato, perché Tony è grande, e la performance di Sorrentino notevole. Il regista di storie prevale sullo scrittore di parole. Non sempre narrare è davvero necessario.