Abbiamo visto “ Happy end “ diretto da Michael Haneke.
con Jean-Louis Trintignant, Isabelle Huppert, Mathieu Kassovitz, Fantine Harduin. Genere Drammatico – Francia, 2017. Durata 110 minuti. Uscita giovedì 30 Novembre 2017 – distribuito da Cinema.
Dopo cinque anni Michael Haneke ( Monaco di Baviera, 1942 ) ritorna sugli schermi italiani con questo Happy end; ci porta, con un altro bel film, i suoi grandi temi, la rappresentazione della vita apparentemente ordinata ed educata, la violenza, l‘anaffettività, l’infermità, la morte. In fondo sono parte di quei sintomi che portano all’autoritarismo e a un nuovo modello di fascismo. Questa volta però il racconto sposta un po’ il tiro, attraverso una commedia drammatica con sfondo noir, in cui l’anaffettività e la decadenza, della famiglia dell’alta borghesia francese Laurent, lentamente porta allo sfaldamento se non alla dissoluzione di tante brave persone. Haneke al solito usa il suo sguardo senza alcuna falsa clemenza, scarnificando con un bisturi in primo piano esseri e fatti, senza un attimo di commiserazione, affondando in quel ventre molle della struttura sociale occidentale, con le sue ipocrisie e nel sovrabbondante senso della realtà conformista e apparente: una via di mezzo tra Il mondo come volontà e rappresentazione di schopenhauriana memoria e la decadenza di una famiglia, sottotitolo de I Buddenbrook. Haneke lo fa al solito coinvolgendo in prima persona lo spettatore e provocando reazioni di rifiuto, fuga dalla visione anche con l’abbiocco; ma questa volta sembra spostare l’asse del suo cinema in un cinismo che raggiunge quasi la metafisica dei sentimenti e così facendo tutto ha in sé un sentire grottesco, quasi ilare, come ad esempio un vecchio che non riesce a morire e chiede per strada, nel traffico cittadino più comune, a degli extracomunitari di essere soppresso, oppure una madre che spezza la mano di un figlio adulto per calmarlo, o una ragazzina che col cellulare riprende il tentativo di annegamento del nonno. Tutto così estremo che non può non sembrare evidentemente grottesco, perché la famiglia Laurent è composta da gentili ricchi bastardi, chiusi in se stessi in un egoismo che sa di morte e indifferenti a tutto il resto, ma sempre però con un fare a modo e civilissimo ( assai lucido il modo in cui i Laurent trattano tutti quelli che ritengono sottoposti: gli extracomunitari, i camerieri, il barbiere ). C’è il vecchio capostipite che ha deciso di morire benché, nonostante l’età, sia in piena forma, c’è la figlia arida e conformista che pensa solo al lavoro nonostante tutto le dica di smettere, il fratello medico che consuma amori nella più totale indifferenza emotiva, la nipotina di tredici anni, il risultato di tale anaffettività collettiva, che sfiora tutte le varianti della morte, da quella da dare agli altri, a quella che si vuol dare a se stessi, a quella subita, a quella a cui assiste.
La famiglia Laurent – tre generazioni che si ritrovano assieme – dell’alta borghesia di Calais, c’è il vecchio padre ( un Jean-Louis Trintignant che sta diventando la bandiera francese ) è il fondatore di un importante azienda, condotta adesso dalla figlia ( una Isabelle Huppert perfetta in un ruolo già interpretato varie volte ), il fratello chirurgo ( un Mathieu Kassovitz, bravo ma mestamente anonimo ) che nonostante abbia la ex moglie in coma all’ospedale e una nuova moglie che gli ha dato da poco un figlio pensa solo a chattare e vedere l’ennesima amante, e gentilmente non si cura della figlia adolescente del primo matrimonio che è costretta a vivere con lui, in più c‘è il nipote, inadeguato e forzatamente erede della casata. Il giovane e la madre devono risolvere il grave incidente che ha causato una vittima sul lavoro, mentre lei cerca in tutti i modi di far sopravvivere l’azienda di famiglia anche scendendo a compromessi con il capitale finanziario. Mentre il vecchio e cinico patriarca prova in vari modi di morire, tra una festa di compleanno e un concerto di musica classica…
Haneke decide di raccontare con il suo tipico stile asciutto e lucidissimo, una storia classica ( potrebbe ricordare un certo cinema italiano degli Anni Sessanta ), ma decide di non usare una narrazione classica bensì divide la storia in quadri separati, al cui interno c’è quel racconto unitario che rende il tutto omogeneo. E la forza dell’opera è proprio in quel fastidio che provoca nello spettatore oramai satollo e impigrito, che ripudia qualsiasi sgradevolezza reale. Il centro del film è lo sguardo della adolescente Eve ( la algida e lucidissima Fantine Harduin ), che attraverso il telefono cellulare riprende freddamente ciò che avviene in famiglia e la realtà che riproduce non mostra alcuna possibilità di cambiamento né tantomeno una remissione dei peccati familiari, mentre lei ( il possibile futuro, e anche la più saggia e fredda allo stesso tempo ) è in realtà il risultato di ciò che è il peggio della sua famiglia. Forse sarcasticamente l’happy end è la costatazione che siamo alla fine di tutto.