Abbiamo visto Hugo Cabret diretto da Martin Scorsese.
Tratto da un bel romanzo illustrato per ragazzi La straordinaria invenzione di Hugo Cabret scritto da Brian Selznick, Martin Scorsese realizza un film sontuoso per scenografia, costumi, fotografia. Il cast è ben amalgamato, ma nonostante ci sia un attore grandissimo come Ben Kinsley (nel ruolo di George Méliès) e una serie di attori bravi come Ray Winstone (zio Claudio),
Christopher Lee (il libraio Labisse) e Sacha Baron Cohen (l’antipatico poliziotto della stazione) sembra che facciano il loro ruolo senza fantasia, costretti in ruoli un po’ stereotipati, prevedibili, quasi impossibilitati a partecipare alla visionarietà della storia. I due ragazzini protagonisti, Hugo e Isabelle, nonostante tutto, non entrano in empatia con lo spettatore, risultando un po’ freddi e anonimi.
Scorsese è un maestro della regia, tecnicamente un “mostro” di bravura, però questo suo stile ‘perfetto’ non è sufficiente a coprire un certo tecnicismo senza passione che lo contraddistingue già da parecchi anni. Probabilmente l’emotività, la passionalità, il voler entrare nelle viscere delle storie che contraddistinguevano film come Mean Street, Taxì Driver, Toro Scatenato non ci sono più nell’artista italoamericano. Il film, pur molto godibile, non gioca la sua avventura sul registro del cinéfils (come è stato fatto in Artist) né tantomeno ha inserito scene fantasmagoriche ‘alla Mèliès’, pur essendo la storia di un ragazzo che, cercando la figura del padre e la sua creatività, trova il cinema (in un paio di passaggi ci viene in mente il personaggio di Antoine Doinel e di riflesso Francois Truffaut).
Siamo nella Parigi degli Anni Venti, Hugo Cabret è un ragazzino di dieci anni, orfano e con il cuore rivolto al padre creativo-orologiaio. Da quando gli è morto vive con lo zio ubriacone nei cunicoli e all’interno del grande orologio della stazione di Parigi Saint Lazare di cui l’uomo cura il funzionamento (la stazione è famosa per l’incidente del treno uscito dai binari e caduto sulla strada – come nella cartolina molto conosciuta. Oggi è il Museo D’Orsay). Ma ben presto lo zio muore e il bambino resta da solo e si occupa di far funzionare i tanti orologi della stazione mentre sogna di aggiustare l’uomo meccanico lasciatogli dal padre che conserva nel suo nascondiglio e che in fondo è tutto ciò che gli è rimasto del rapporto col padre. Per poterlo riparare, sottrae gli attrezzi di cui ha bisogno al chiosco del giocattolaio, ma viene colto in flagrante dal vecchio proprietario e derubato del prezioso taccuino di suo padre con i disegni dell’automa. Riavere quel taccuino è per Hugo una questione vitale. Allo stesso tempo vive nella solitudine della stazione, affollata di persone che vanno e vengono freneticamente; una vita fatta di espedienti, furtarelli, con il desiderio di riparare l’automa ma che può funzionare solo con una chiave e cercando di evitare l’arresto da parte del poliziotto della stazione. Un giorno Hugo scopre che il giocattolaio è George Méliès, il regista di ben 500 film fantastici con effetti speciali eccezionali al tempo del cinema muto, ormai dimenticato e ritenuto morto anche dagli studiosi. E grazie a lui, Hugo conosce la sua figlioccia, l’eccentrica Isabelle, poco più grande; anche lei innamorata dell’avventura e l’azzardo e con lei scopre che l’automa conserva segreti che riportano a galla vicende del passato. Sono storie e ricordi che coinvolgono anche il padrino della ragazza. Il finale non ve lo raccontiamo, ma si può immaginare come termina nonostante i rischi e i pericoli che vive il piccolo Hugo.
Un racconto dalle premesse e dalla condizione dickensiana dove però prevale il sogno l’illusione, l’incoscienza infantile. La condizione drammatica di Hugo è riscaldata e rimossa dal potere dell’immaginazione: un block notes di disegni paterni, altri nascosti dentro un armadio, i meccanismi di un piccolo robot, le immagini dei passanti della stazione viste da degli spiragli dal bambino come fossero immagini in movimento, film visti di nascosto nel buio di un cinema. E la morale (come per l’Antoine Doinel di Truffaut) è che solo grazie alla fantasia si può sopravvivere alle difficoltà e guardare avanti con speranza, anche di fronte a un passato e un presente doloroso, che si deve superare per sempre. La fantasia del cinema è quella che aiuta nei momenti bui, da ben 118 anni, gli uomini e le donne di questa terra.
Il mese scorso Martin Scorsese ha ottenuto il Golden Globe come miglior regista. Il film è in gara agli Oscar con ben 11 nomination.