Abbiamo visto Hunger diretto da Steve McQueen.
Un film durissimo, essenziale, originale nella costruzione delle scene (in cui un dialogo serrato, convincente e sunto di morale, etica e religione tra un prete e un prigioniero politico cattolico nell’Irlanda del Nord nel 1981 dura poco più di una inquadratura in cui un secondino lava un pavimento dal piscio dei prigionieri). Arriva in Italia con quattro anni di ritardo e con il premio
Camera d’or al Festival di Cannes del 2008 e altri sedici premi importanti; probabilmente sulla scia del secondo film di questo grande autore inglese, “Shame”, ma anche per il protagonista Michael Fassbender che è diventato negli ultimi due anni un attore internazionale di notevole spessore e carisma.
Il sottotitolo è Il corpo umano come luogo ultimo della guerra tra individuo e società, un po’ ad effetto intellettuale ma in realtà è proprio così. Ci sono degli indugi strazianti su corpi maschili provati dalla fame e dalle ingiustizie del carcere duro inglese, inquadrature che creano disagio vero e mostrano la scarnificazione della sofferenza e si fermano giusto in tempo per la sopportabilità dello spettatore sano e normale. Si potrebbe quasi dire che è un film che riprende il discorso pasoliniano di Salò o le 120 giornate di Sodoma in cui la violenza è solo violenza e non contiene null’altro, sia se si chiama nazifascismo che thatcherismo o Guantanamo. Una violenza esplicita e in alcuni passaggi quasi insopportabile come deve risultare la violenza.
La parola “Hunger” in inglese vuol dire soprattutto affamare, ma anche agognare. E infatti, oltre allo sciopero della fame dei militanti dell’Ira, la storia racconta di questi uomini affamati di giustizia e libertà, che agognano il rispetto delle loro idee e il rispetto di una dignità che passa anche per il corpo. Insomma in questi tempi depressi e malinconici fare e vedere un film del genere vuol dire avere ancora una forza interiore non scalfita, una voglia di resistere allo sfacelo morale ed esistenziale.
Il film, come avrete già capito, racconta della vita inumana e segregata che facevano i militanti dell’Ira nelle carceri dell’Irlanda del nord ai tempi della Lady di ferro (uno di quei personaggi politici nefasti per l’umanità che soltanto reazionari e ignoranti possono apprezzare. I cui ultimi anni di vita hanno relegato in un mondo di smemoratezza e vaghezza). Tra celle con i topi, pareti imbrattate di cibo e merda, piscio a terra e nei corridoi, praticamente nudi perché non vogliono indossare la divisa dei criminali comuni, pestati e brutalizzati più che alla Diaz in quella notte di macelleria messicana, uno dei leader Bobby Sands, un muratore ventisettenne della zona cattolica di Belfast, condannato a 14 anni perché in un’auto in cui si era con altri quattro era stata trovata una pistola, decide, contro il governo inglese, contro quei secondini e il loro direttore, ma anche contro la dirigenza dell’Ira inerme e sbandata, di iniziare uno sciopero della fame assieme ad altri militanti fino all’estremo se non verranno riconosciuti come prigionieri politici e avere restituiti la dignità di uomini e combattenti. E come tutti sappiamo, dopo oltre sessanta giorni di resistenza, Bobby Sands morirà di inedia e dopo di lui altri nove uomini (6 dell’IRA e 3 dell’INLA) tra il maggio e l’agosto del 1981.
Cosa aggiungere? E’ un film di rara radicalità e durezza, di una violenza anche algida e senza clamore effettistico, privo di quei riferimenti ideologici dell’epoca ma molto ideologico esteticamente e formalmente in questi tempi.
Una direzione originale, di grande impatto narrativo, un’interpretazione di Fassbender anche fisica oltre i canoni della ottima immedesimazione, da segnalare anche tra gli altri Stuart Graham (il picchiatore del carcere) e Brian Milligan (il detenuto politico che entra in carcere con noi), splendida la fotografia di Sean Bobbitt e lo script di Enda Walsh.