Strano destino, quello di un’opera che, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto dargli una rispettabilità letteraria mai avuta prima, e finì viceversa con l’affrettare la rovina della sua reputazione.
Quando, nel 1800, vengono dati alle stampe I crimini dell’amore, Donatien Alphonse François de Sade è reduce da oltre due decenni di tribolazioni. La lunga detenzione nelle prigioni del castello di Vincennes e della Bastiglia, nel periodo subito anteriore alla Rivoluzione, lo ha crudelmente minato nel fisico, trasformandolo in un uomo obeso, affetto da tosse cronica, emicranie, gotta, dolori agli occhi e allo stomaco; la sua troppo convinta adesione al dissolvimento della religione dell’Ancien Régime (con le posizioni espresse in Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani) gli è valsa, all’epoca del Terrore, una condanna alla ghigliottina, cui fortunatamente riuscirà a sfuggire grazie alla caduta di Robespierre; le sue finanze e i suoi beni sono stati inghiottiti dall’amministrazione del Direttorio, riducendolo in miseria.
Eppure, per la prima volta nella sua vita, Sade può aspirare a una fortuna letteraria che, in quegli stessi decenni, non ha cessato di inseguire, scrivendo con eccezionale prolificità anche nelle difficilissime condizioni impostegli dalla prigionia. Il Marchese si appresta a pubblicare una monumentale edizione clandestina in dieci volumi, ornata da cento incisioni licenziose, della Nuova Justine – terza e definitiva versione di un romanzo la cui prima redazione risaliva al 1787 – seguita dalla Storia di Juliette, apoteosi del sistema di pensiero sadiano, e atto di decesso delle aspirazioni illuministiche al progresso, secondo l’interpretazione che, un secolo e mezzo più tardi, ne daranno Adorno e Horkheimer.
Questa colossale impresa editoriale, per cui è prevista una tiratura di svariate migliaia di copie messe in vendita a un prezzo esorbitante, sembra dover garantire all’autore una almeno temporanea prosperità finanziaria. La decisione di dare alle stampe I crimini dell’amore – undici racconti tratti dal manoscritto di una più ampia raccolta il cui disegno era stato nel frattempo abbandonato – nasce dalla stessa intenzione di cogliere le opportunità offerte dal mercato librario, ma si spiega anche con il desiderio di tentare nuovamente, dopo gli esiti fallimentari della pièce Oxtiern e del romanzo epistolare Aline e Valcour, una carriera non relegata alla clandestinità, percorribile sotto lo sguardo del pubblico e, se possibile, alla luce del successo.
A questo proposito, la critica sadiana è solita applicare una distinzione fra libri esoterici ed essoterici: da un lato, le fantasmagorie libertine a cui l’autore avrebbe affidato il segreto del suo pensiero e del suo sentire, con un’ambizione diretta non solo ai fruitori contemporanei di testi clandestini (i libri che, secondo un’espressione in uso nel Settecento, si leggevano con una sola mano), ma anche, e innanzitutto, alla posterità; dall’altro, le opere in cui, adattandosi ai codici letterari in voga, e adeguandosi ai limiti di libertà dell’espressione insiti in essi, egli si sarebbe rivolto senza travestimenti ai comuni lettori dell’epoca, alla ricerca di un pubblico riconoscimento e consapevole della necessità di sminuire il proprio genio sovversivo. Questa distinzione viene ovviamente sfumata dai migliori specialisti di Sade, i quali, confrontatisi a lungo con un autore i cui scritti rappresentano una sfida permanente al senso comune del lettore, non sono certo inclini a ingenuità interpretative (fra di loro è doveroso citare perlomeno Jean-Jacques Pauvert, curatore della prima edizione completa delle opere di Sade, e Michel Delon, grazie al quale l’autore più controverso delle lettere francesi ha potuto fare il proprio ingresso nella «Bibliothèque de la Pléiade»).
Eppure, la capacità di Sade a scavare canali di comunicazione tra il versante clandestino e quello ufficiale della sua opera è rimasta nella penombra, a prezzo di una certa sottovalutazione di testi come Aline e Valcour o, per l’appunto, I crimini dell’amore, nei quali la dirompenza del pensiero e l’audacia della mimesi sono, sì, smorzati da dispositivi di enunciazione tendenti all’effetto di sordina, ma a beneficio di una concentrazione drammatica e di un’ambivalenza psicologica altrove assenti nello sterminato dominio narrativo conquistato dal Marchese nei decenni della sua disgrazia (a eccezione, forse, della versione primigenia di Justine: Gli infortuni della virtù).
Questa raccolta di più o meno lunghi racconti – alcuni sarebbero oggi etichettati come romanzi brevi – si presenta a un primo sguardo come un’opera letteraria edificante, in conformità al genere di derivazione: le histoires tragiques, propaggine transalpina di una novellistica tragica diffusa nelle principali letterature europee grazie alla fortunatissima ricezione di Bandello. Il periodo aureo delle histoires tragiques si situa agli inizi del Seicento, e coincide con l’opera di autori come François de Rosset e Jean-Pierre Camus, ma i volumi che raccolgono questi brevi testi grondanti di sangue e profumati d’incenso, in cui l’iperbolica rappresentazione di crimini violenti si accompagna a notazioni morali e religiose volte a giustificarla, gode presso i lettori francesi di una popolarità ininterrotta sino alla fine del secolo seguente. Quando, nel 1800, Sade si decide a pubblicare I crimini dell’amore, potrebbe dunque passare per un ritardatario che segue il riflusso di una corrente letteraria in via di estinzione; non fosse che, proprio in quegli anni, esplode in Francia la moda del romanzo gotico inglese, genere non privo di contatti con quello delle histoires tragiques, perlomeno quanto alla morbosa ricerca di effetti perturbanti sul lettore.
Non è certo un caso se lo scioglimento tragico dell’intreccio di Florville e Courval, uno dei tre racconti qui riuniti, comincia proprio nel momento in cui l’eroina, immersa nella lettura di «un romanzo inglese incredibilmente cupo, di cui all’epoca si parlava molto», s’identifica a tal punto con la protagonista femminile da gettare per terra, con rabbia, il volume. D’altronde, I crimini dell’amore erano preceduti nell’edizione Massé da un ambizioso scritto di poetica, Idea sui romanzi, in cui l’elogio sofferto delle opere di Ann Radcliffe e del Monaco di Lewis, autori rispetto ai quali Sade provava una forte “angoscia dell’influenza”, chiude un lungo excursus sulla storia del genere romanzesco.
Con questa raccolta ci troviamo quindi in presenza di testi non solo alieni dalle oltranze erotiche e ateistiche del Sade clandestino, quello destinato alla gloria e all’ignominia postume, ma rivestiti di un’ampia patina moralizzatrice. Una patina, tuttavia, incline allo sgretolamento. È Sade stesso, sempre nella sua Idea sui romanzi, a disinnescare con aristocratico gesto di autosabotaggio le reiterate rivendicazioni di moralità contenute altrove nell’opera, suggerendo in limine come la sua pratica di un genere edificante non possa che sfociare in una feroce dissacrazione:
Credo sia qui necessario rispondere all’eterna obiezione di alcuni spiriti atrabiliari, i quali, per darsi la parvenza di una moralità che tengono ben lontana dai loro cuori, non cessano di chiedere: a cosa servono i romanzi?
A cosa servono, uomini ipocriti e perversi? Non è un caso che siate i soli a porvi questa ridicola domanda: i romanzi servono a ritrarvi quali siete. Ma voi, nel vostro orgoglio, vorreste sottrar- vi al pennello, e ne temete gli effetti. Poiché il romanzo è, per così dire, l’affresco dei costumi di un’epoca, esso sarà altrettanto essenziale della Storia per il filosofo che voglia conoscere gli uomini. Il bulino della Storia li ritrae solo quando vogliono mostrarsi, ma allora non sono più loro: l’ambizione e l’orgoglio ne coprono la fronte con una maschera che non ci lascia intravedere nulla all’infuori di quelle stesse passioni. Il pennello del romanzo, al contrario, li coglie nel privato, li sorprende nel momento in cui si tolgono la maschera, e il risultato, oltre che molto più interessante, è anche più veritiero. Ecco l’utilità dei romanzi, freddi censori incapaci di amarli, simili allo storpio che a sua volta si chiedeva: e perché si fanno i ritratti?
Non pago di questa veemente apostrofe ai censori, Sade difende, nella medesima occasione, una personale teoria del romanzo fondata su una altrettanto personale interpretazione delle opere di Richardson e Fielding, citate a modello di un genere narrativo in cui l’esplorazione di ogni possibile vizio umano corrisponda, in qualche sorta, a ciò che Aristotele considerava la prerogativa della poesia rispetto alla Storia: raccontare non quanto accadde ma ciò che sarebbe potuto accadere.
Richardson e Fielding ci hanno insegnato che lo studio approfondito del cuore umano deve essere l’unica fonte d’ispirazione del romanziere, le cui opere ci mostreranno l’uomo non solo per ciò che è, per come appare (questo è il dovere dello storico), ma per come potrebbe essere, per come devono renderlo l’influenza del vizio e lo sconvolgimento delle passioni. Bisogna dunque conoscere e utilizzare tutti i vizi, tutte le passioni, se si vuole praticare il genere del romanzo.
La tradizione letteraria è per Sade, lettore voracissimo, di una cultura insaziabile, un osso che va spolpato, per poi sputarlo in faccia al pubblico. E la reazione del pubblico all’epoca si espresse per voce di Alexandre-Louis de Villeterque, critico di una certa fama, il quale, in un articolo pubblicato sul «Journal des lettres, des sciences et de littérature», si scagliò contro la portata trasgressiva dei Crimini dell’amore, denunciando in particolare la pericolosità dei principi estetici contenuti nell’Idea sui romanzi. Villeterque suggeriva inoltre la coerenza di quegli stessi principi col dettato osceno della Nuova Justine, opera di cui Sade aveva sconfessato con indignazione la paternità proprio alla fine del preambolo ai Crimini dell’amore.
La risposta del Marchese non si fece attendere. Un foglio clandestino circolò sotto il titolo L’autore dei Crimini dell’amore a Villeterque. In questo scritto di circostanza, dotato di un’invidiabile virulenza polemica, Sade tentava di smentire le accuse del critico con le armi dell’ironia, della satira e dell’invettiva. Ma il danno era fatto: la pretesa vocazione edificante dei Crimini dell’amore era stata sbugiardata, mentre la paternità sadiana della Nuova Justine riceveva un ulteriore avallo. Qualche mese più tardi, il 6 marzo 1801, Sade è arrestato dalla polizia nei locali del suo editore, Nicolas Massé. La polizia requisisce, in particolare, una copia della Nuova Justine con correzioni autografe dell’autore. Come tante altre volte nel corso della sua vita, il Marchese è sbattuto in prigione. Dopo due anni di detenzione nel carcere di Sainte-Pélagie verrà trasferito nel manicomio di Charenton, dove resterà sino alla fine dei suoi giorni.
I tre testi dei Crimini dell’amore che abbiamo raccolto in questo volume – Eugénie de Franval, Florville e Courval, Dorgeville – sono legati da un possente motivo ispiratore: l’incesto. Onnipresente nell’opera sadiana e, più in generale, diffusissimo nel romanzo francese del Settecento, l’incesto è qui univoco vettore dell’azione narrativa. Per suo tramite, i nodi dell’intreccio si allacciano e si sciolgono con illuministica ironia, restituendo l’immagine di un mondo delle passioni chiuso, ridotto a pulsioni primitive e affetti primari. Non è dunque l’incesto di per sé a rendere degni di un duraturo e perturbante interesse questi tre crimini dell’amore, ma la maniera in cui esso dirige ogni linea di sviluppo diegetico, facendo convergere le peripezie dei personaggi in una scena originaria desti- nata a ripetersi eternamente.
All’origine, com’è ovvio, il mito di Edipo, con il suo corredo di sconvolgenti agnizioni. Dorgeville, nell’epilogo del racconto eponimo, apprende di essersi sposato con una sorella di cui non ignorava l’esistenza ma che, per i casi e gli incidenti della vita, sempre copiosi e spietati nei Crimini dell’amore, non aveva mai avuto la possibilità di conoscere prima. Per la stessa ironia propria di una fatalità ormai secolarizzata, la cui arte combinatoria diventa una grammatica narrativa del fantasma, la trovatella Florville si rende conto, alla fine delle sue disavventure, di avere concepito con suo fratello un figlio dal quale, diciassette anni dopo, era stata violenta- ta, prima di ucciderlo e sposarsi con il proprio padre.
La mania sadiana per la sovrapposizione dei crimini amorosi («Eccomi al tempo stesso incestuosa, adultera e sodomita», esclama nella Filosofia nel boudoir una giovane intenta allo stupro con godemichet della madre) troverebbe in Florville e Courval una quasi accettabile espressione narrativa, priva di esplicite rappresentazioni dell’atto sessuale e puntellata da richiami autoriali all’ordine morale, se nella stessa raccolta non spiccasse un testo interpretabile come un’apologia dell’incesto. Eugénie de Franval è il resoconto di un’educazione paterna che, perseguita all’insegna di rigorosi principi illuministici, culmina in una passione furibonda tra genitore e figlia, consumata come protesta contro i vincoli sociali e religiosi. La legittimità dell’incesto viene discussa in dialoghi che sono un di- stillato della migliore tradizione libertina: relatività di costumi e credenze, difficoltà di delimitare il dominio della natura, imperio delle pulsioni sulle norme, del desiderio sulla legge; questi solo alcuni degli spunti che, in Eugénie de Franval, Sade raccoglie da oltre due secoli di riflessione dissidente.
Forse più di ogni altra materia speculativa, l’incesto mobilita, in effetti, risorse profonde e tendenze radicali del pensiero eterodosso, con esiti concettuali la cui portata eccede ampiamente i confini storici del movimento libertino. Quando Giulio Cesare Vanini, autore considerato da Sade come un maestro in materia di ateismo, scrive nel De Admirandis naturae arcanis (1616) che «il matrimonio tra persone dello stesso sangue è proibito a fini di salvaguardia della cosa pubblica, poiché esse, accoppiandosi, godrebbero di tali e tanti piaceri da non occuparsi più di nient’altro», non fa che porre sul tono del paradosso licenzioso una questione di cui, secoli dopo, saranno seriamente indagati i risvolti psichici (Freud), sociologici (Durkheim) e antropologici (Lévi-Strauss). La valenza antisociale dell’incesto, in quanto ostacolo alla fusione di gruppi separati di individui, trova nell’immaginario di Sade un naturale terreno di proliferazione. Se nelle Centoventi giornate di Sodoma la promiscuità incestuosa è al cuore di una microsocietà autarchica, secondo un disegno di separazione totale dal mondo (la chiusura che renderebbe possibile l’insorgere del sistema sadiano, secondo Roland Barthes), in Eugénie de Franval essa rimane soggetta alla pressione di leggi, costumi e credenze, ma non per questo cessa di minacciare i fondamenti della comunità. Non a caso, l’evento che scatena il precipitare tragico della vicenda è l’opposizione irremovibile del padre a ogni ipotesi di matrimonio per la figlia: ancor più dell’atto in sé, sono i suoi effetti socialmente aberranti a provocare lo scandalo dell’incesto.
Per quanto priva di tratti pornografici, la mimesi di un simile fenomeno rischia di travalicare, all’epoca di Sade, ma non solo, i limiti di una pubblica accettabilità. L’autore dei Crimini dell’amore avrebbe potuto trovare un argomento di difesa nel saggio Sui costumi e la difficoltà di modificare le leggi, dove, tra innumerevoli esempi dell’arbitrio di usi e credenze, Montaigne, altro nume tutelare dei pensatori libertini, cita quello dei popoli «presso i quali è legittimo accoppiarsi coi propri figli e con le proprie figlie», per poi suggerire, rifacendosi all’autorità delle Leggi di Platone, come il principale rimedio agli «amori snaturati» sia che «l’opinione pubblica li condanni e che i poeti ne raccontino l’orrore. Rimedio grazie al quale le più belle fra le ragazze non susciteranno più l’amore dei loro padri, né i più belli fra i ragazzi quello delle loro sorelle». E, di fatto, nell’Idea sui romanzi, così come all’inizio o in conclusione di molti racconti dei Crimini dell’amore, è proprio a questo principio che Sade si richiama: le sue narrazioni mostrerebbero il vizio solo per denunciarlo, la rappresentazione degli effetti nocivi della perversità sarebbe il modo migliore per combatterla, non si può sconfiggere il male senza conoscerlo ecc. Ma, nel frattempo, questo genere di pretese moralizzatrici era divenuto l’immancabile armamentario prudenziale degli autori libertini, perdendo così ogni credibilità, come dimostrato dalla reazione di Villeterque. Eppure…
Eppure, anche se non nel senso da lui strategicamente rivendicato, una certa esigenza morale di Sade va presa sul serio: la volontà di servirsi della propria arte narrativa per disvelare le aporie di una coscienza mutilata. È ciò che dimostra, in particolare, la maniera in cui nei Crimini dell’amore sono concepiti i personaggi che incarnano la virtù. Lungi dal corrispondere a una tipologia satirica della bigotteria, le loro prese di posizione sono capaci di abbracciare idee proprie del libertinismo stesso, assumendo un ruolo di non facile decifrazione nel sistema di valori messo in gioco dal racconto. Così Clervil, il direttore spirituale della suocera di Franval, tenta di combattere l’incesto con argomenti scevri di ogni connotazione religiosa, ispirati alla sola opportunità di adeguarsi alle usanze e alle credenze del Paese in cui si è nati, secondo quanto pensava lo stesso Montaigne.
Similmente, il virtuoso Dorgeville, vittima designata di una sorella incestuosa, parricida e fratricida, non esita a scagliarsi contro la dominazione maschile, rivendicando per le donne il diritto di liberarsi da un chimerico sentimento dell’onore, in conformità a un topos libertino le cui origini, di nuovo, risalgono a Montaigne (Su alcuni versi di Virgilio). Ancora, l’irreprensibile signor de Saint-Prât, padre putativo per Florville, cerca di distogliere la sua protetta da ogni cedimento peccaminoso appellandosi soltanto ai principi di una morale naturale, razionalmente fondata. Passando poi a un diverso genere di ambiguità, più psicologica che morale, cosa pensare di un personaggio come il probo Courval, la cui attrazione per Florville sembra crescere mano a mano che lei gli racconta le sue disavventure? O dell’integerrima madre di Eugénie, sempre pronta a perdonare il marito per l’incesto consumato con la figlia, pur di riuscire a riconquistarlo?
L’abilità di Sade nel tracciare il chiaroscuro che lascia intravedere, senza mai rivelarlo del tutto, il foro interiore di questi personaggi, fu evidenziata a suo tempo da Pierre Klossowski, lettore squisitamente sensibile all’equivocità dei testi qui raccolti. Volendo azzardare una soluzione all’enigma dei Crimini dell’amore, si potrebbe pensare che, avendo scelto, per opportunismo, di rispettare i codici di una comunicazione letteraria sottomessa agli imperativi della censura, Sade si sia ritrovato nella necessità di smussare gli angoli e sfumare i contorni della propria tetragona ispirazione sovversiva, pervenendo a esiti estetici inaspettati, in qualche sorta involontari. Sarebbe una risposta non priva di verità, ma senza dubbio semplicistica. Più verosimile è che l’ammiratore entusiasta di Prévost, Voltaire e Rousseau, il detrattore furioso di Crébillon figlio, Dorat e Restif de la Bretonne, l’emulo forse invidioso di Choderlos de Laclos – le cui Relazioni pericolose saranno uno dei modelli di Aline e Valcour – abbia voluto, scrivendo testi non destinati alla diffusione clandestina, cimentarsi con la grande narrativa francese della sua epoca, continuando a dar prova, seppure in un registro di espressione letteraria per lui inabituale, della propria capacità di demistificare le credenze e denunciare i costumi di una società al tramonto.
Sade, in poche parole, si propone coi Crimini dell’amore come un grande scrittore moralista, nell’accezione che il termine ancora aveva alla fine del Settecento: un indagatore ostinato dei vizi celati sotto il velo delle virtù, delle debolezze travestite da convincimenti, delle prevaricazioni soggiacenti alle leggi; un esaminatore impietoso delle ambiguità e irresoluzioni della coscienza; uno scrutatore instancabile del fondo pulsionale oscuro della natura umana, pronto a concedere diritto di asilo nella propria opera a tutto quanto è bandito dai regimi di discorso dominanti.
Quale più alta ambizione morale per uno scrittore?
Pubblichiamo l’introduzione di Filippo D’Angelo a I crimini dell’amore, raccolta di testi del Marchese De Sade che ha curato per L’orma editore. Da minima&moralia