Abbiamo visto “ I due volti di gennaio “ regia di Hossein Amini.
Patricia Highsmith è stata una scrittrice di gran talento di romanzi gialli, prima che arrivasse la moda del genere e una serie di romanzi e anche di film se non inutili sicuramente approssimativi e modesti. Il Cinema ha fatto incetta dei suoi romanzi a partire dal maestro Hitchcock con L’altro uomo del 1951 fino allo splendido L’Amico Americano di Win Wenders. Successivamente registi bravi hanno realizzato dalla Highsmith film anche passabili ma nessuno è stato memorabile o all’altezza, come lo sfarzoso Il talento di Mr Ripley di Anthony Minghella ( remake del buon Delitto in pieno sole di René Clement ) o Il gioco di Ripley della decaduta Liliana Cavani; poi negli ultimi anni i modesti Il grido della civetta di Jamie Thraves, Deep Water di Mike Nichols. Il dubbio che ci viene è, la Highsmith è un’autrice troppo legata al suo tempo o sono i registi di oggi a non essere all’altezza ? Restiamo in attesa dei prossimi film annunciati Carol di Todd Haynes con la splendida Cate Blanchett e The Blunderer di Andy Goddard, annunciati in uscita per il 2015.
In questi giorni nelle sale esce I due volti di gennaio, dello sceneggiatore iraniano Amini ( suoi gli script di Shanghai e di Drive ), alla sua opera prima come regista. Anche questo film – elegante nella ricostruzione, con un buon cast e una regia di buona fattura – non può che essere collocato tra quei film non del tutto riusciti. Tratto dall’omonimo romanzo del 1964 della Highsmith e giiudicato dalla critica uno dei libri più oscuri della scrittrice americana ( fu pubblicato nove anni dopo il suo più grande successo, Il talento di Mr. Ripley, e non fu accolto bene; si racconta che la Highsmith ricevette una lettera di rifiuto dal suo editore che le diceva ” è una storia in grado di gestire due personaggi nevrotici, ma non tre ” ). Ma se pur fosse stata questa la difficoltà oggettiva drammaturgica per la realizzazione di questa pellicola possiamo dire che Amini non è riuscito nemmeno a rendere al meglio le nevrosi di due di essi. Eppure c’erano tutti i prerequisiti per rendere questi tre avventurieri dai caratteri diversi ma dallo stesso modo di intendere la vita dei topos del genere. Amini forse troppo affascinato dall’intreccio e schiacciato dal confronto con qualche suo collega del passato ( Hitchcock ? Potremmo azzardare anche l’Antonioni de L’Avventura ) si è lasciato condizionare dai thriller americani e francesi degli anni sessanta perdendo di autenticità, dando per scontato alcune profondità psicologiche, senza tuttavia approfondirle, trattando l’oscurità dei personaggi come fossero solo delle normalità criminali. Eppure c’erano tante chiavi da perlustrare in modo più interessante, il rapporto padre-figlio, quello delle radici, l’idea della fuga dal passato che li ha visti scacciare, il rapporto tra maschi ( e per la Highsmith c’era anche l’evidente intenzione di parlare di omossssualità latente ) con una donna al centro del contendere, il rapporto tra realtà e bugia, la voglia di sopravvivere nonostante tutto. Forse c’era troppa carne a cuocere per lasciare ad un debuttante con talento di regista ma non di autore un’opera così piena e oscura allo stesso tempo. Eppure questo romanzo è stato già portato sullo schermo nel 1986 dai registi tedeschi Wolfgang Storch e Gabriela Zerhai e l’opera risultava fiacca e superficiale quindi un buon viatico per non cadere in errori simili.
Siamo nel 1962 ad Atene, una ricca coppia di turisti americani, il maturo Chester MacFarland ( Viggo Mortensen ) e la giovane moglie Colette ( Kirsten Dunst ) stanno facendo un viaggio per l’Europa, ancora un paio di giorni e partiranno per Roma. Conoscono al Partenone una guida turistica americana, Rydal ( Oscar Isaac ), un giovane che sembra essersi rifuggiato lì per scappare dalla figura del padre e da un ambiente intellettual-borghese. Oltre che guida turistica, è abile con le lingue e a spennare connazionali che lo pagano per farsi portare in giro. Ma anche Chester ha un suo lato oscuro e un segreto che si materializza quasi subito con l’arrivo nella stanza del Gran Hotel di un detective privato americano che gli chiede con la pistola punata la restituzione di parecchi soldi persi da investitori malavitosi, scoppia una colluttazione, l’investigatore sbatte la testa e muore. Chester vuole portare il corpo dell’uomo nella sua camera e nel corridoio incontra Rydal che è tornato per restituire un braccialetto che Colette ha dimenticato in taxi, ma soprattutto per rivederla. Chester si fa aiutare dal giovane poi con la moglie e il nuovo amico va via dall’albergo dimenticando i passaporti alla reception. Devono comprare dei nuovi passaporti per fuggire all’estero e aspettare alcuni giorni per la consegna e allora per evitare di restare ad Atene ed essere arrestati vanno a Creta in attesa dei documenti. Da questo momento inizia una difficile ed equivoca convivenza a tre…
Hossein Amini come abbiamo scritto affronta l’opera della Highsmith con troppo rispetto scolaresco e senza avere quelle capacità autoriali per rendere una storia complessa, oscura e forse minore. Realizza un film che tratteggia soltanto le profondità dell’animo umano e le sue varianti, anche quando correttamente ci mostra l’accidentalità del delitto e l’apparente preoccupazione senza pentimento del protagonista non fa che raccontare in modo convenzionale e orizzontale il solo desiderio di farcela al di là di ogni eventuale problema morale. I due uomini rappresentano le facce di una stessa medaglia, due imbroglioni che ad un certo punto si contendono la donna che a sua volta vuole far finta di essere ingenua e vorrebbe solo cambiare uomo ma non vita. Giochi psicologici tratteggiati con attenzione alle sfumature ma senza andare al nocciolo del lato oscuro. Insomma niente di nuovo, anche quando le premesse lo consentirebbero.