“Democracy sucks”, la democrazia fa schifo, è stato il commento scherzoso del componente della giuria Will Smith nella conferenza stampa di ieri sera a Cannes, quando ha rivelato che il suo film preferito era Jupiter’s moon (La luna di Giove) del regista ungherese Kornél Mundruzcó, uscito a mani vuote.
In realtà la democrazia non ha sfigurato nel verdetto della giuria presieduta da Pedro Almodóvar, perché il film che ha vinto la Palma d’oro – The square di Ruben Östlund – è sicuramente più bello, denso, poliedrico, di Jupiter’s moon. Ma in una giuria del genere (ho esperienza in materia) la democrazia consiste nella mediazione tra una serie di soggettività, con decisioni finali che rischiano di non essere condivise in pieno da nessuno. Quest’anno, a Cannes, il premio ex aequo per la sceneggiatura, a The killing of a sacred deer di Yorgos Lanthimos e You were never really here di Lynne Ramsay, è stato interpretato da molti come un segno di una certa impasse tra due o più blocchi.
Le classifiche compilate da testate come il britannico Screen International o il mensile danese Ekko dimostrano che il consenso, anche tra i cosiddetti esperti di cinema, è una cosa rara.
Dunque, nella piena consapevolezza di fare il despota, ecco un mio palmarès personale, in forma semplicemente di film da vedere a tutti i costi, senza una divisione in categoria per la regia, la recitazione eccetera. Premetto che a mio parere non è stata una brutta edizione, come alcuni sostengono: solo che le aspettative della vigilia erano esagerate. Soprattutto per quanto riguarda i film di alcuni autori affermati, primi tra tutti Michael Haneke e François Ozon.
La mia Palma d’oro
Nelyubov, di Andrej Zvyagintsev (a Cannes 2017 ha ricevuto il premio della giuria)
Chi fa il dj raramente decide di mettere il brano più bello all’inizio della festa. Cannes invece l’ha fatto, programmando Nelyubov del regista russo Zvyagintsev (quello di Il ritorno e Leviathan) come primo film in concorso. Il titolo era tradotto in inglese come Loveless – a volere fare una battuta, si potrebbe chiamarlo “Dalla Russia senza amore”.
Nelyubov è una di quelle rare opere d’arte che riesce a essere sia storia sia metafora, senza diluire né il realismo della parte narrativa né la potenza della parte simbolica (è un trucco piuttosto difficile).
La parte drammatica dell’equazione narra una scomparsa. Un giorno il figlio dodicenne di una coppia di moscoviti agiati ma non ricchi, che si trovano nelle fasi finali di un divorzio amaro e crudele, esce di casa per andare a scuola e non ci arriva mai. I genitori, abituati a lasciare il ragazzo ad arrangiarsi da solo, si accorgono del fatto solo quando sono passate più di 24 ore (ognuno di loro ha passato la notte di mezzo con il rispettivo amante). Chiamano la polizia, che lancia un’indagine pro forma ma consiglia alla coppia di rivolgersi a un gruppo di volontari specializzati nel ritrovamento di bambini.
Dunque, la ricerca di un bambino scomparso: materiale forse per un thriller, un poliziesco. Non nelle mani di Zvyagintsev però, che già con Leviathan ci ha spiazzato, facendo prevedere il dramma di un uomo piccolo ma coraggioso che riesce a sfidare un sistema corrotto, per poi servire l’esatto opposto: un uomo piccolo ma coraggioso schiacciato come una mosca da un sistema corrotto.
Una parabola russa
Le storie di persone scomparse giocano sulle nostre paure della dissoluzione dell’identità personale (leggasi “morte”), ma sono anche storie di fantasmi, perché nell’assenza di un corpo, diventano degli spettri tenuti in vita dalla speranza. L’effetto è ancora più forte quando si tratta di un bambino (pensiamo solo alla storia angosciante della piccola Madeleine McCann, che dieci anni dopo la sua scomparsa in Portogallo non ha allentato la sua presa sulla psiche britannica).
Da questo spettro, Nelyubov tira fuori una parabola sulla Russia di oggi, ma lo fa senza calcare la mano, senza mai perdere di vista la storia di due genitori senza qualità, lei estetista intrappolata nel primo matrimonio dalla gravidanza, lui già con un’amante più giovane, incinta anche lei naturalmente (il marito, ironicamente, è un funzionario in qualche ente di ispirazione religiosa che sembra un ministero; un collega gli dice che se vuole tenere il lavoro non deve far sapere a nessuno che sta divorziando; gli racconta di un collega in una situazione simile che ha affittato una moglie finta e un figlio finto da portare a una festa aziendale).
Questi due mostri molto umani sono i cinici rappresentanti di una nuova Russia che ha cacciato di casa l’innocenza e l’amore? Zvyangitsev non è così dogmatico. Lavora con le parole e le immagini, lasciando a noi le interpretazioni.
Il mio premio ex aequeo (vedete anche The Square sotto) per la scena più bella dell’intero festival va, in parte, a quella in cui si vede una schiera di volontari vestiti con i giubbotti ad alta visibilità che camminano a distanza di dieci metri l’uno dall’altro in un parco trascurato nella periferia urbana, all’imbrunire, alla ricerca del ragazzo scomparso. Il capo gli ordina di procedere allineati. Rappresentano la società civile russa che cerca di procedere contro la tirannia di Putin? Ma allora perché sono così culo e camicia con la polizia? In Nelyubov non ci sono risposte facili, solo uno sguardo insieme spietato e poetico su una società svuotata di valori.
Cinque altri film di Cannes 2017 da non perdere
- Good time, di Benny & Josh Safdie (nessun premio a Cannes 2017). Per me, dopo Nebyulov, era il film più bello in concorso, ma è uscito a mani vuote dalla serata della premiazione. Con Robert Pattinson, mai così convincente, nel ruolo di un criminale sfigato con un fratello ritardato a carico, è un film che ripropone, senza plagiarlo, un filone poliziesco di matrice sociale degli anni settanta (primo fra tutti Quel pomeriggio di un giorno da cani). Adrenalinico, con risvolti comici, racconta con slancio da nouvelle vague una notte folle a Brooklyn tra personaggi costretti ai margini.
- The killing of a sacred deer, di Yorgos Lanthimos (migliore sceneggiatura ex aequo a Cannes 2017). Il regista di The lobster si riunisce con Colin Farrell e gli affianca una Nicole Kidman tornata in piena forma in una storia che mescola la tragedia greca (in primis il sacrifico di Ifigenia) al thriller sovrannaturale. È un film gelido, angosciante, che racconta di un chirurgo che è costretto dal figlio di un paziente morto durante un suo intervento a sacrificare una persona della sua famiglia per saldare il debito. Un preciso controllo formale sfocia nel manierismo e nel Verfremdungseffekt brechtiano soprattutto nei dialoghi innaturali, a volte surreali, come era già successo in The lobster. Ma questo formalismo non attenua per niente la forza drammatica del film.
- The square, di Ruben Östlund (Palma d’oro Cannes 2017). Quello dello svedese Ruben Östlund (regista del bel Force majeure) non era certo il film più disciplinato in concorso al livello di sceneggiatura e scelte di regia, ma sarebbe difficile non riconoscere che era una buona scelta di compromesso di una giuria spaccata, perché questo è un film che sprizza idee provocatorie sulle bolle sociali e culturali nelle quali viviamo. L’arte contemporanea, il marketing “alternativo” di prodotti culturali e la mancanza di empatia nella società moderna sono alcuni tra i bersagli di un film che contiene, verso la fine, l’altra scena più bella vista a Cannes quest’anno, insieme a quella già citata in Nelyubov: quella in cui un performance artist fa il gorilla, letteralmente, durante una cena di benefattori di un museo.
- 120 battements par minute, di Robin Campillo (Grand prix a Cannes 2017). Almodóvar ha pianto ieri sera durante la conferenza stampa conclusiva della giuria quando ha citato questo film vitale, emozionale e impegnato del regista francese Robin Campillo (se non l’avete mai visto, cercate anche il suo ultimo, Eastern boys). 120 battiti al minuto è ambientato tra un gruppo di attivisti parigini durante i primi anni dell’epidemia di aids, quando la disinformazione governativa e i ritardi di un’industria farmaceutica dedita al guadagno economico hanno spinto molti all’azione diretta. Pur con qualche lungaggine, è una pellicola che celebra lo spirito vitale, l’erotismo, l’amicizia e la cultura di un movimento reso più urgente dal fatto che molti dei suoi attivisti erano condannati a morte dalla malattia.
- Jeune femme, di Léonor Serraille (Camera d’Or a Cannes 2017). Un salto fuori del concorso nella sezione Un certain regard per segnalare un film che ha ottenuto il premio più meritato: il Camera d’Or per la migliore opera prima, che prende in considerazione anche i film passati nelle due sezioni non “ufficiali” del festival, la Quinzaine e la Semaine de la critique. Il film in concorso di Sofia Coppola (premio per la miglior regia) e di Lynne Ramsay (premio sceneggiatura ex aequo) hanno meritato i loro riconoscimenti, ma la vera bomba femminile e femminista del festival era questo dirompente, vivace ritratto di una giovane donna un po’ goffa e un po’ carente di autostima che riesce a rifarsi una vita dopo una separazione traumatica. Nel ruolo principale, Laetitia Dosch è una rivelazione, e non guasta che anche il cast tecnico, dal direttore della fotografia ai responsabili di montaggio, scenografia e colonna sonora, sia quasi tutto composto da donne.