Questa nuova versione del libro di Giobbe (ne ricordiamo un’altra ugualmente esemplare, quella che ne dette Woody Allen in Broadway Danny Rose, forse il suo film migliore e il più sincero, e un confronto tra le due moderne versioni sarebbe utile) ci sembra importante per molti aspetti. Viene dopo una mezza sciocchezza, il remake di un brutto film tratto da un mediocre romanzo, Il Grinta, e dimostra che i Coen se ne sono resi conto e che sono tornati a essere tra i pochissimi registi che ancora operano “dentro il sistema” del cinema ufficiale riuscendo a non farsene schiacciare e castrare. C’è nel loro A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis, ispirato in parte alle memorie di un cantante folk), una indubitabile maestria formale, quella di chi sa scrivere (pensare!) e che sa tradurre quel che ha pensato e scritto in immagini e ritmo, dimostrando la fedeltà degli autori a un modo di far cinema che non appartiene più al presente hollywoodiano dei film pensati per intontire e propagandare il non-pensiero (anche quando parlano di massimi problemi) e tanto meno a quelli dei servili registi che si prendono ancora visibilmente per “autori” e si credono autonomi nelle loro scelte solo perché gli danno i soldi per realizzarle (e vengono presi per tali da una critica scritta da ebeti per ebeti, anello di una catena di trasmissione sempre più inutile ai padroni del mercato, se non nella sua assimilazione alla pubblicità). A proposito di Davis è uno dei migliori film dei Coen e fa pensare ai loro più ardui, meno evidenti nella loro morale come Barton Fink e A serious man.
Oso anche dire che A proposito di Davis è uno di rari capolavori di questi anni, anche se è dimesso nell’apparenza – nella fluidità di una regia che rifugge dalle bravate e si mette, umilmente adeguandosi alla sua andante semplicità e ripetitività, a servizio della storia: una regia apparentemente dimessa, come dimessa è la storia di Davis. Ma chi è questa nuova incarnazione di Giobbe? è un giovane che aspira al successo come cantautore, e sembra peraltro di vero talento (formidabile l’interpretazione di Oscar Isaac, in commovente adesione fisica al personaggio), è un giovane gallese-italiano di cui ignoriamo se è anche tutto o in parte ebreo, e agli autori come a noi sembra importare poco anche se è da tradizione ebraica la lettura che della sua vicenda danno. Viene dalla provincia e vive al Greenwich Village di New York, e siamo nel 1961 – un anno importante, di disgelo ma anche di tensioni ancora forti tra i due blocchi che, sotto Kennedy, porteranno presto all’avventura imperialista del Vietnam, ma il 1961 è anche l’anno di un film che era tutto un Greenwich Village vivace amorale spensierato, Colazione da Tiffany di Truman Capote/Blake Edwards/Audrey Hepburn, da cui i Coen mutuano una figurina centrale del film, il gatto, o meglio, qui, i gatti perennemente in fuga, che per i Coen sembrano essere l’incarnazione di un fato ostile e nello stesso tempo ingenuo, incosciente. Ma è ingenuo, è incolpevole, il fato, o chi vi presiede?
Nella sfiga di Davis, perennemente sconfitto nel breve e decisivo tempo in cui si svolge la storia a cui assistiamo, il suo tentativo di sfondare, le sue perenni disgrazie puntellate da incontri con personaggi normalmente assurdi, o appena un po’ più assurdi del normale, non c’entrano né la sua mancanza di talento né un suo deficit di vitalità combattiva. è che non si fanno soldi con questa roba, gli dicono agenti e impresari, eppure alla fine del film c’è un tale (nei titoli di coda lo chiamano “Young Bob”) che parte dalla stessa situazione di Llewyn ma che sfonderà e come! Anno 1961, i tempi they are changing anche se non per Llewyn… Il gioco della sorte (o l’imperturbabile cattiveria di un Dio che odia le sue creature o se ne frega al massimo grado) vogliono che se uno vince, migliaia anzi milioni siano quelli che perdono, ed è appunto un perdente il nostro caro Llewyn, un loser come non ne vedevamo da tempo nel cinema americano degli abominevoli Depp e Pitt iper-vincenti, un loser neanche hemingwayano. Come può tener fronte alla sorte, “cadendo in piedi”, un cantautore sconfitto, senza né guerra né west, e né gangster né sbirro, senza confronto tra bene e male ma nella pappa triste di una folla solitaria mediocre per definizione, di una massa bruta condannata all’accettazione o all’autodistruzione? è questa una storia che si ripete e di cui gli Usa, con il loro protestantesimo piegato agli interessi degli oligarchi, sono da sempre maestri. La circolarità della vicenda di Llewyn Davis non fa che confermarlo, una circolarità da eterno ritorno, da condanna della condizione umana, ma che è l’eterna presenza del potere dei forti sui deboli, con la correzione – non per le società, solo per gli individui – della cecità della dea Fortuna e dell’anarchia del capitale, in assenza di una prospettiva di riscatto diversa da quella del successo – l’illusione che frega gli sciocchi senza talento ma anche gli intelligenti con talento come Davis, e come “Young Bob”.
Non alza la voce, il film dei Coen, come non la alza il loro Davis. Non c’è ribellione forte in Davis, ancora meno di quanta ce ne fosse in Giobbe. Nel ’61 la rivolta covava, incubata dai giovani e aperta a quegli adulti che seppero profittare dell’occasione da loro offerta, del ritorno a un conflitto che fu anche sociale, etnico, economico e non solo generazionale. E che vide perdente una generazione ma anche il mondo – poiché è da quel fallimento che è cominciata la decadenza in cui viviamo, spalancata oggi su abissi del tutto inediti. Di quella rivolta “Young Bob” fu per un tempo una delle voci, ma è la voce dei falliti quella che interessa ai Coen, mentre Bob si è affannosamente districato tra la morale capitalista (protestante) del successo e dei soldi e una dubitante coscienza ebraica, di chi la storia di Giobbe sembra conoscerla bene. Ma Giobbe (che nella Bibbia è peraltro un non-ebreo, un uomo senza una precisa identità culturale) è un uomo simpatico e generoso, cosa che non è Davis, e conserva nonostante tutto la fede in un Dio di provvidenza e di giustizia, anche se i suoi voleri sono imperscrutabili e magari odiosi, mentre nella storia di Davis (e nella nostra, del mondo) Dio o non c’è o è il gatto in fuga, dentro una storia che non ha ragione, non ha spiegazione.