Abbiamo visto “ I gatti persiani “ regia di Bahman Ghobadi.
Bahman Ghobadi è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico iraniano di etnia curda, nato quaranta anni fa in una città al confine con l’Iraq. E’ stato aiuto regista di Abbas Kiarostami per “ Il film Il vento ci porterà via “e attore per Samira Makhmalbaf per il film ” Lavagne “. Ha esordito alla regia nel 2000 con “ Il tempo dei cavalli ubriachi “ con cui ha vinto la Camera d’Oro per la migliore Opera prima al Festival di Cannes. I film successivi sono stati “ Marooned in Iraq “, “ Turtles Can Fly “ e “Half Moon “. Nel 2009 ha girato in clandestinità, in poco più di due settimane, “ I gatti persiani “ vincendo il premio speciale della giuria del Certain Regard, sempre al Festival di Cannes.
“ I Gatti Persiani “ un’opera quasi documentaristica sul mondo semi clandestino dei giovani musicisti nel Paese che ha vietato la musica. Ma in Iran è vietato anche portare fuori cani e gatti, anche se in casa la popolazione ha spesso gatti persiani che ama moltissimo. E il regista sembra paragonare i giovani protagonisti senza libertà e costretti a nascondersi per suonare la loro musica a questi animali preziosi.
La storia inizia con Nader, una specie di organizzatore di concerti, procacciatore di passaporti e visti, press agent di gruppi musicali e di tanto altro che viene fermato dalla polizia e interrogato per dei cd e una bottiglia di alcool che gli hanno sequestrato. Ha una gran parlantina e se la cava con una piccola condanna al carcere, una forte penale e nemmeno una frustata. Subito dopo vediamo e ascoltiamo uno dei cantati più conosciuti in tutto l’Iran: Hichkas, un rapper che canta le ingiustizie e gli squilibri della società della capitale iraniana.
Poi ci sono Negar e Askhan, due giovani musicisti, appena usciti di prigione per aver suonato musica occidentale proibita in Iran; forse vogliono formare un gruppo musicale moderno per andare a suonare a Londra ma lui sembra un po’ scoraggiato poichè l’ultimo disco non ha avuto una distribuzione. E’ l’incontro con Nader, che conosce tutti ed ha energie illimitate, li sprona e gli dà la carica giusta per tentare di nuovo: per questo iniziano a setacciare il mondo underground della Teheran di oggi in cerca di altri musicisti. Nader li porta anche da un amico anziano che fa il falsificatore di passaporti e di visti. In dieci giorni avranno ciò che gli serve. Cercano allora di organizzare un concerto a Teheran per finanziare l’acquisto dei passaporti allo scopo di emigrare a Londra. Ma mettere su un gruppo rock è complicato e più difficile di quanto possano immaginare, la maggior parte dei musicisti che incontrano hanno tutti avuto numerosi problemi con la polizia del regime e non hanno voglia di rischiare ulteriormente. Preferiscono suonare la musica clandestinamente nelle cantine, sui tetti dei palazzi, nei cantieri edili, e la formidabile energia che producono gli basta per sostituire la voglia di libertà e il rifiuto del regime asfissiante che in tutti i modi blocca la loro creatività. Il regista ci mostra la città, il movimento continuo, ed anche inutile, di questi giovani ripresi in modo sincopato, per scene brevi, frantumate e nervose che la musica accompagna e riempie come in una serie di clips. Osserviamo l’effervescente mondo underground di Teheran, quello di tutti gli stili musicali: hard-rock, blues, rap o world-music.
Sembra comunque che il progetto per gli amici vada per il meglio ma d’un tratto tutto precipita, il vecchio falsificatore di passaporti viene arrestato, Nader sembra crollare dopo l’ennesimo fallimento e scompare, Negar e Askhan ancora inconsapevoli della sfortuna vanno a cercare l’amico, Askhan lo trova completamente ubriaco e fatto in una festa clandestina mentre Negar aspetta per strada. Giunge la polizia, c’è una retata, la tragedia è nell’aria…
Il film è a metà tra documentario, fiction e video-clip: comincia con toni realisti, per finire in una drammatizzazione simbolica, un primo piano di Negar filmata per la prima volta a testa scoperta ma senza più vita. Tutti il film è molto parlato, con un doppiaggio a volte fastidioso, le sequenze sono frammentarie ma anche lente, forse perché la musica quasi costante e ritmate non ha un supporto coerente di immagini, che sono quasi rubate dai bassifondi di Teheran.
Ghobadi ha spiegato il motivo per cui ha realizzato “ I gatti persiani “: nel mio film ho voluto mostrare una briciola della cultura underground iraniana, poiché essa non è soltanto musica, ma anche arte, poesia, letteratura: c’è una grandissima produzione artistica tenuta nascosta che aspetta soltanto di poter uscire fuori un giorno. Ho tenuto i diritti del film in Iran per me e ho permesso che fosse distribuito gratuitamente per le strade, in questo modo tantissimi giovani hanno potuto vedere qual è la situazione nel nostro paese e ne sono rimasti molto turbati, e come loro tantissime altre persone che sto incontrando in questi mesi in giro per il mondo, che mi stringono la mano e mi ringraziano per avergli mostrato questa situazione”.