Nel settembre del 1960, grazie a un lascito ereditario, Leonard Cohen comprò una casa sull’isola greca di Hydra per 1500 dollari. Sull’isola era giunto qualche mese prima con l’intenzione di dedicarsi alla scrittura, confidando in un clima più mite rispetto al natio Canada e in un cielo meno avverso rispetto alla Londra dov’era sbarcato da poco. Cohen aveva appena compiuto ventisei anni ma era già autore di due raccolte poetiche: Let us compare mythologies, pubblicata nel 1956, e The Spice-Box of Earth, che l’editore di Toronto McLelland & Stewart avrebbe stampato di lì a poco.

Fra gli anni ’50 e gli anni ’60 l’isola di Hydra era diventata rifugio di artisti provenienti da ogni dove. Vi si potevano incontrare degli australiani (gli scrittori George Johnston e Charmian Clift), degli inglesi (il pittore Anthony Kingsmill), degli scandinavi (lo scrittore norvegese Axel Jensen e il poeta svedese Göran Tunström), degli israeliani (il giornalista Amos Elon) e persino un contingente di svizzeri estranei all’arte ma attratti dallo stile di vita mediterraneo (il banchiere Henri Bordier, l’uomo d’affari Maury Cohen e Alexis Bolens, già mercenario in Katanga e coltivatore di limoni in Sud Africa, un bon viveur che amava il poker e allestire sontuose feste in collina). Il bel mondo dell’epoca finì col fare tappa sull’isola: Sophia Loren e Brigitte Bardot, Jules Dassin e Jackie Kennedy, Allen Ginsberg e Henry Miller (il quale, nel suo resoconto di viaggio in Grecia, Il colosso di Marussi, colpito dalla bellezza dell’isola, scrisse della “selvaggia e nuda perfezione di Hydra”, e dei suoi abitanti scrisse che “raccontare le gesta degli uomini di Hydra sarebbe scrivere un libro su una stirpe di folli; tracciare la parola AUDACIA attraverso il firmamento a lettere di fuoco”). All’arrivo di Leonard Cohen l’isola non s’era ancora dotata di una rete fognaria, i telefoni erano una rarità e poche case erano munite di corrente elettrica. In una lettera alla sorella, richiamandosi al romanzo di Daphne du Maurier, Cohen sottolineò che di notte si aggirava per casa alla luce delle candele “come la governante di Rebecca”.

Cohen sull’isola viveva solo. Una sera notò una coppia passeggiare mano nella mano nel porto di Hydra. Scoprì che si trattava dello scrittore norvegese Axel Jensen e della moglie Marianne Ihlen. Cohen osservò la coppia con una certa invidia, fantasticando sulla felicità a due in un posto del genere. Un posto del genere, in verità, più che la fedeltà coniugale incoraggiava la mobilità di coppia. Ogni anno, al cambio di stagione, la comunità artistica di Hydra non sfoderava soltanto capi più leggeri, ma si riassestava anche sul piano sentimentale. “L’isola nutriva l’arte e distruggeva le relazioni”, scrisse Ira B. Nadel, il biografo ufficiale di Leonard Cohen (o, per dirla con Cohen, il biografo benevolmente tollerato da Leonard Cohen). Axel Jensen, marito di Marianne e padre del piccolo Axel Joachim, s’era invaghito della pittrice americana Patricia Amlin, e di lì a poco se ne sarebbe partito in barca a vela alla volta del Pireo, abbandonando moglie e figlio su Hydra.

Della storia d’amore fra Leonard Cohen e Marianne Ihlen si è molto detto e molto si è scritto. C’è beninteso quella canzone – So long, Marianne – in cui Cohen con maestria provò a fissare i risvolti psicologici della loro relazione (You held on to me like I was a crucifix / As we went kneeling through the dark; ti aggrappasti a me come a un crocifisso / mentre in ginocchio attraversavamo il buio; e ancora: I’m standing on a ledge and your fine spider web / Is fastening my ankle to a stone; Sto su un precipizio e la tua sottile ragnatela assicura la mia caviglia alla pietra), ci sono le lettere andate di recente all’asta da Christie’s (in una di queste, spedita da Montreal, Cohen scrive: “mi sovviene la sera in cui passeggiammo lungo Rue des Ecoles. Appoggiasti la testa al mio braccio, e ti stringesti forte a me chiudendo gli occhi, lasciandomi l’incombenza di vedere per entrambi. Nulla mi ha mai commosso come quell’atto di fiducia”), c’è il bel libro della giornalista norvegese Kari Hesthamar, So long Marianne. Ei kjærleikshistorie, tradotto anche in lingua inglese, mentre da poco è nelle sale americane un documentario di Nick Broomfield, Marianne & Leonard: Words of love, presentato in anteprima al Sundance Festival nel gennaio scorso.

A Marianne Leonard Cohen dedicò la sua terza raccolta poetica, Flowers for Hitler, edita da McLelland & Stewart nel 1964. Fu per lui amante e musa, finì ritratta sul retro di copertina del suo secondo disco, Songs from a room, seduta alla scrivania nello studio di Leonard a Hydra, cinta soltanto da un asciugamano davanti alla macchina per scrivere, ispirò canzoni e poesie (oltre alla citata So long, Marianne, anche Hey, that’s no way to say goodbye, che si apriva su questo sensuale quadro domestico ai tempi di Hydra: I loved you in the morning, our kisses deep and warm / Your hair upon the pillow like a sleepy golden storm; Ti ho amata di mattino, i nostri baci profondi e caldi / I tuoi capelli sul cuscino, come un’assonnata tempesta d’oro), fu amica e confidente quando Cohen si provò titubante alla canzone, compagna di viaggio quando attraversarono l’Europa in macchina dalla Grecia alla Norvegia, affettuosa assistente che ogni mattina, a Hydra, prima che Leonard si mettesse al lavoro, collocava una gardenia di fronte alla macchina per scrivere. You are the woman / who released me, confidò Cohen anni dopo in una poesia inedita intitolata The Poetry Place: sei la donna che mi ha liberato.

La relazione intermittente fra Leonard Cohen e Marianne Ihlen durò all’incirca sette anni, dall’autunno del 1960 al 1967, l’anno in cui in California andò in scena l’estate dell’amore. Una curiosa coincidenza, a ben vedere, quasi un passaggio di testimone: l’amore da spiaggia privata scoppiato su Hydra nel 1960 quando Cohen era già un poeta affermato ma non ancora un cantante (il suo primo disco, Songs of Leonard Cohen, fu pubblicato proprio nel 1967), finì quando a San Francisco la comunità hippie di Haight-Ashbury si avventurò per parchi e appartamenti sfitti cantando di amore libero e di pace universale. Anni dopo, quando Kari Hesthamar intervistò Leonard Cohen per il libro sulla storia d’amore fra lui e Marianne, Cohen tenne a sottolineare la fragilità di quella relazione. Come ogni giovane scrittore, ammise Cohen, avevo fame di esperienze. Volevo molte donne, conoscere paesi diversi, sperimentare climi diversi. Non appena mi stancavo di qualcosa, passavo ad altro. Se qualcosa non mi convinceva, mollavo tutto, fosse una donna, una poesia, o un paese. Finché ho capito che niente funziona mai come vorresti. Ma mi ci è voluta una vita per capirlo, e per accettarlo (The troubles followed me / From bed to bed – i guai mi seguivano di letto in letto, troviamo in una poesia contenuta nella raccolta postuma di Cohen, The Flame, edita lo scorso anno da McLelland & Stewart).

 

In quella stessa intervista rilasciata a Kari Hesthamar, Cohen rilevò anche come tutte le relazioni nate sull’isola di Hydra finirono col perdersi. All’epoca nessuno di noi ne era consapevole, disse Cohen, ma quelle relazioni non erano in grado di reggere il peso che la vita lontano dall’isola ci avrebbe riservato. Non importa quali fossero le premesse, se ideali, sessuali oppure romantiche, nessuna di quelle storie sarebbe sopravvissuta alle sfide che la quotidianità ci avrebbe imposto. Oggi le custodiamo in noi, le onoriamo e riconosciamo che ci nutrirono, ma allora eravamo giovani, e sentivamo la necessità di rifiutare le regole che ci erano state imposte. Tutti i nostri errori furono errori importanti. Tutti i nostri tradimenti furono tradimenti importanti. Tutto ciò che facevamo era pervaso di una sfolgorante rilevanza. Ma questa, concluse Cohen, era la gioventù. Giudizio severo, quello di Cohen, senza sconti, ma con l’attenuante, appunto, dell’ingenuità giovanile. L’isola di Hydra come una sorta di avamposto o di monito, a posteriori, per l’avventura degli hippie che sarebbe sbocciata di lì a poco, nei mesi in cui le strade di Leonard e Marianne si stavano già separando.

Marianne Ilhen ha confessato di aver sognato Leonard Cohen per quarant’anni dopo la fine della loro relazione. Sempre nella raccolta postuma The Flame, Leonard Cohen a un certo punto scrive: True love is what happens between two people / who no longer need to know each other (il vero amore è ciò che accade fra due persone / che non hanno più necessità di conoscersi). Nei giorni scorsi, ascoltando Shepherd in a Sheepskin Vest, il nuovo disco di Bill Callahan, il cantautore che per tono e ombrosità oggi rimanda forse in modo più evidente a Leonard Cohen, mi sono imbattuto in questi versi: True love is not magic / It’s certainty / And what comes after certainty / A world of mystery (il vero amore non è magia, ma certezza, e ciò che arriva dopo la certezza, un mondo di mistero). In un’altra raccolta di Leonard Cohen, Stranger Music: Selected Poems and Songs (McLellan & Stewart, 1993), troviamo una poesia scritta sull’isola di Hydra nel 1985, quasi vent’anni dopo la fine della storia con Marianne. La poesia s’intitola Days of kindness, i giorni della gentilezza, e Cohen fra le altre cose scrive: “Quel che ho amato della mia vecchia vita / Non l’ho dimenticato / È la mia spina dorsale / Marianne e il bambino / I giorni della gentilezza / Risale lungo la spina dorsale / E si manifesta sotto forma di lacrime / Prego che questa memoria / Persista pure in loro / Le persone preziose a cui rinunciai / Per educarmi al mondo”.

 

Nel 2016 un caro amico di Marianne Ihlen, Jan Christian Mollestad, contattò via e-mail Leonard Cohen comunicandogli che Marianne era in fin di vita. Leonard rispose, sempre via e-mail, con un messaggio che lo stesso Mollestad riferì nel corso di un programma radiofonico del servizio pubblico canadese. Nel giro di poche ore le parole riportate da Mollestad in radio fecero il giro del mondo, suscitando un’immensa eco. Queste le parole: “Bene Marianne, eccoci dunque diventati molto vecchi, i nostri corpi ci stanno abbandonando, e credo che presto ti seguirò. Sappi che ti sono così vicino che se allunghi la mano, puoi raggiungere la mia. Sai che ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, anche se è inutile che ti dica queste cose, perché le sai fin troppo bene. Ora voglio solo augurarti buon viaggio. Arrivederci mia vecchia amica, amore senza fine, ci vediamo in fondo alla strada”. Le parole riferite da Jan Christian Mollestad in antenna (qui la possibilità di riascoltare l’intervista) non corrispondono però a quanto effettivamente scritto a Marianne da Leonard Cohen. Nel 2018 lo storico inglese Simon Sebag Montefiore ha dato alle stampe un’antologia di lettere intitolata Written in History. Letters that Changed the World, edita da Weidenfeld & Nicolson, dove, accanto a lettere di Mandela, Stalin, o Michelangelo, riporta anche il messaggio originale che Cohen scrisse a Marianne, messaggio riprodotto con il consenso dei legali di Cohen. Il messaggio originale di Cohen recitava così: “Carissima Marianne, sono appena dietro di te, così vicino da poterti prendere per mano. Questo vecchio corpo si è arreso, proprio come il tuo, e l’avviso di sfratto arriverà da un giorno all’altro. Non ho mai dimenticato il tuo amore e la tua bellezza. Ma questo già lo sai. Non ho altro da aggiungere. Fai buon viaggio, amica mia. Ci vediamo in fondo alla strada. Amore e gratitudine. Leonard”. Mollestad aveva cioè riassunto con parole sue, o meglio, parafrasato, il messaggio ricevuto da Cohen, messaggio che nell’originale risulta decisamente più asciutto e meno enfatico rispetto alla versione che fece il giro del mondo e che alcuni, oggi, sull’esempio del figlio di Cohen, Adam, interpolano al testo della canzone interpretando So long, Marianne (qui l’articolo di Tanya Dalzieli e Paul Genoni che fa luce sulla vicenda).

 

Marianne Ihlen morì il 28 luglio del 2016 e Leonard Cohen la seguì poco dopo, il 7 novembre di quello stesso anno. Quando s’era imbattuta in Leonard la prima volta sull’isola di Hydra, Marianne era rimasta colpita dal suo sguardo e dalla sua gentilezza. Ai suoi occhi Cohen era “il canadese dai capelli scuri, la coppola, le scarpe da tennis e lo sguardo intenso”, ma furono soprattutto le buone maniere a conquistarla. Leonard Cohen era un uomo d’altri tempi, di quelli che si levano il cappello non appena una donna entra in un ascensore. La loro unione non ebbe niente a che spartire con le rocambolesche storie d’amore del rock. Quelle sarebbero arrivate dopo, anche per Cohen. Questa sbocciò e si consumò prima che Cohen diventasse il Leonard Cohen che conosciamo. Fu la storia fra un poeta e la sua musa, non quella fra un cantante di rock e una groupie. Ci sono due scene, o due immagini, cui Leonard Cohen confessò di tornare spesso. La prima è domestica, nella casa di Hydra, e richiama la canzone Hey, that’s no way to say goodbye citata poc’anzi. Un’immagine che può essere riassunta così: lui è seduto sulle scale e sta vegliando Marianne che dorme, i capelli biondi scompigliati sul cuscino alla luce delle candele e delle lampade a olio. Per Cohen quell’immagine esplicita la prima esclusiva versione del suo destino, una poesia minore, troppo pura e inutile per evaporare dalla mente. La seconda scena invece si svolge ad Atene. È mattina, dopo aver fatto colazione in albergo, lui e Marianne sono su un taxi diretti al porto, dove li aspetta un battello che li ricondurrà a Hydra. Sono i primi tempi della loro relazione, autunno del 1960 o giù di lì. Nel ricordo di Cohen entrambi siedono sul sedile posteriore del taxi, lui sta fumando una sigaretta greca e pensa: ho una vita mia, sono un adulto, sto con questa donna bellissima, non abbiamo soldi ma stiamo tornando a Hydra. Cohen sostenne di aver tentato di ricreare il sentimento che provò allora, su quel sedile di taxi, un’infinità di volte, senza mai riuscirci. Un ricordo da niente, in apparenza. Ti senti adulto, stai fumando e sei su un taxi accanto alla donna che ami, il tuo corpo è abbronzato e stai per salire su un battello che ti riporterà a casa. Nient’altro. Eppure quel sentimento persiste più di altri nella sua non riproducibilità. Scherzi di gioventù. O, per dirla con Cohen: Greece is a good place / to look at the moon, isn’t it? / You can read by moonlight / You can read on the terrace / You can see a face / as you saw it when you were young (La Grecia è un buon posto per guardare la luna, non vi pare? / Puoi leggere al chiaro di luna / Puoi leggere sulla terrazza / Puoi rivedere un volto / così come ti apparve quando eri giovane).

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