Con tutti i suoi paradossi e le sue ambiguità, la rivoluzione zapatista ha portato alla superficie l’urgenza di liberare le energie creative non solo dei popoli indigeni, ma anche dei molti mondi negati dalla società in cui viviamo.
Apparsa il primo gennaio 1994, poco dopo la caduta del blocco sovietico e nel momento culminante del neoliberismo, la ribellione indigena del Messico annuncia l’inizio di una nuova epoca di conflitti sociali. Circostanze singolari avevano spinto gli zapatisti a non ripercorrere le strade del passato: la fine della guerra fredda, la globalizzazione, la prossimità degli Stati Uniti e, al tempo stesso, dell’America Centrale, dove le recenti esperienze insurrezionali avevano lasciato aperte ferite dolorose. Essi avevano deciso di ribellarsi non per esercitare la violenza risentita dei perdenti, ma per raccontare a tutti i popoli l’assurdità della loro condizione di uomini e donne cui si impone di apparecchiare senza posa il banchetto della modernità, nel momento stesso in cui si interdice loro l’accesso alle vivande.
Se in un primo tempo misero sottosopra la dodicesima economia mondiale, il fiore all’occhiello della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, ben presto divennero il sintomo di una nuova sensibilità, il punto di riferimento non dei nostalgici del passato, bensì dei nostalgici del futuro. Bastarono poche, brillanti azioni di guerra – una guerra preparata dieci anni e durata dodici giorni – per radere al suolo i castelli di carta del neoliberismo e mostrare, ancora una volta, il re nudo.
Per il governo messicano, sarebbe stato relativamente facile annientarli militarmente, però, contrariamente a tutte le previsioni, massicce mobilitazioni in Messico e nel mondo intero, resero impraticabile la via del massacro. Si giunse ad una tregua ed i maya ribelli riconquistarono la parola autentica, in una società dominata dalla menzogna.
Contro il razzismo fecero sapere che lottavano per “un mondo che contiene molti mondi” e contro la mafia del potere, proclamarono “tutto per tutti, niente per noi soli”. Non parevano interessati a fare proseliti, né proclamavano ideologie; disillusi rispetto alle correnti politiche fondate sull’affermazione di un ideale, di una scienza o di un programma, si presentavano come qualcosa di lucidamente diverso e non solo successivo rispetto alle guerriglie dell’America Latina. Infatti, oltre a criticare i partiti tradizionali, essi rifiutavano l’idea di avanguardia, armata o pacifica. Il potere, dicevano, non è un oggetto da prendere, ma una relazione sociale da costruire.
Il messaggio che arrivava dalla giungla era chiaro: oggi non si tratta più di dirigere e neppure di essere piloti invisibili; l’importante è creare situazioni di rottura, aprire il cammino a una socialità differente, stimolare incontri, favorire l’autonomia dei soggetti. Si apriva così la possibilità di cominciare da capo e la giungla Lacandona si convertì rapidamente in una specie di grande laboratorio sociale, dove si pensavano, si dicevano e si facevano cose rilevanti. Uomini e donne provenienti dai quattro angoli del globo cominciarono ad andare e venire dal sud-est messicano per ascoltare, conversare e capire. E nacque l’idea degli incontri intercontinentali “per l’umanità e contro il neoliberismo”, (Chiapas, estate 1996; Spagna, estate 1997), che oggi possiamo considerare gli antecedenti importanti del movimento contro la globalizzazione neoliberista e degli indignados che gridano il loro “Basta” occultandosi il volto con la maschera di Anonymous.
Vi parteciparono migliaia di persone provenienti da decine di paesi e dalle più disparate galassie umane: gruppi radicali, residui dei partiti politici di sinistra, movimenti di liberazione, sindacati, ong, cattolici, centri sociali, gay, anarchici, femministe, ecologisti, reduci delle rivoluzioni sudamericane e persino intellettuali di prestigio, senza dimenticare qualche discepolo del presidente Mao, del Che e del vecchio Trockij. Altri ancora – forse i più – erano semplicemente donne e uomini desiderosi di rompere l’accerchiamento spirituale che si vive nelle metropoli del mondo globalizzato. Ognuno avvertiva che la ribellione degli indigeni del Chiapas lo aveva in qualche modo interpellato e quegli incontri offrirono a tutti la possibilità di esprimersi liberamente e di rimettersi in gioco. Questo, mi sembra, era l’importante, anche se, già allora, non furono pochi a sollevare dubbi sul futuro di una tale, improbabile mescolanza umana.
Sempre appassionanti e paradossali, le iniziative zapatiste – i dialoghi di pace, gli incontri nazionali, intercontinentali ed “intergalattici”, il Frente Zapatista de Liberación Nacional (FZLN), il Congreso Nacional Indígena (CNI)… – erano elaborate grazie all’innegabile apporto che il subcomandante Marcos (oggi Galeano, in memoria di José Luis Solís López, alias Galeano, un militante dell’EZLN assassinato il 2 maggio 2014 a La Realidad) plasmava in discorsi, interviste, racconti e nelle Dichiarazioni della Selva Lacandona. Massimo dirigente militare, egli era “subcomandante” perché la leadership del movimento spettava alle comunità ribelli. Tuttavia, dopo l’insurrezione di gennaio, Marcos divenne anche il loro principale portavoce, per via della grande abilità che mostrava nell’uso dello spagnolo che i maya parlano poco.
Tradotti in mezzo mondo, i testi del Sup ebbero un ruolo decisivo non solo nella diffusione del neozapatismo, ma anche nella nascita dei nuovi movimenti sociali successivi al crollo del muro di Berlino. Centinaia di migliaia di persone seguivano con trepidazione le avventure di Durito, il noto scarafaggio donchisciottesco, e le parabole del Vecchio Antonio, simbolo dell’antica sapienza maya. Marcos riprendeva qui una vecchia tradizione rivoluzionaria, inaugurata in Messico dall’anarchico Ricardo Flores Magón nel Messico prerivoluzionario: l’uso della letteratura a scopo didattico e di agitazione.
A Marcos spetta il merito storico di aver scritto testi epici come De qué nos van a perdonar (18 gennaio 1994) che rappresenta per gli indigeni messicani l’equivalente di I have a dream di Martin Luther King. Sorse così un poeta, oltre che un dirigente politico; uno stratega del rovesciamento che non separa la poesia dalla rivoluzione. Mettendo in primo piano il contributo dei popoli indigeni e chiarendo che la globalizzazione produce miseria e distruzione mentre, allo stesso tempo, crea nuove possibilità di ascolto e interazione, i testi di Marcos aiutarono a riprendere il filo conduttore della critica sociale.
Tuttavia, quella che pareva una vittoria indiscutibile, mostrò ben presto gravi limiti. È possibile vincere la battaglia della parola “autentica” sul terreno dell’avversario, l’universo contraffatto e menzognero dei media? L’esperienza dice di no, però Marcos accettò fino in fondo la funzione di portavoce che gli avevano conferito le comunità e che la televisione, sempre alla ricerca di nuovi stereotipi, non tardò a riconoscergli. Immerso in quel ruolo, incominciò ad assumere attitudini autoritarie e dispotiche che si allontanavano sempre più dal discorso libertario che lui stesso aveva contribuito a creare.
Le rivoluzioni sociali creano istituzioni proprie che, invariabilmente, si contrappongono a quelle del vecchio mondo. In Chiapas, ciò ha dato luogo alla fondazione dei comuni autonomi, veri e propri spazi di potere alternativo contro il sistema sociale basato sulla dittatura dell’economia e dello Stato. È qui che risiede il contributo più importante degli zapatisti, anche se l’autonomia non è certo un’invenzione dell’EZLN (non appare, ad esempio, nella Prima Dichiarazione della Selva Lacandona), ma una vecchia rivendicazione del movimento indio messicano e continentale. L’originalità degli zapatisti sta nell’averla messa in pratica ridandole vigore e forza.
Il 16 febbraio 1996, furono firmati gli Accordi di San Andrés Larráinzar, così chiamati per il villaggio tzotzil nei pressi di San Cristobal dove si celebrarono. Frutto di un prolungato dibattito nel quale intervennero gli esponenti delle cinquantasei etnie messicane, oltre ad intellettuali e attivisti delle più svariate tendenze, il nucleo degli accordi verteva proprio sull’autonomia: autonomia culturale, autonomia comunale e autonomia territoriale. Per la prima volta in cinquecento anni, agli indigeni veniva riconosciuto – almeno sulla carta – il diritto di amministrare la giustizia, eleggere direttamente le loro autorità, accedere al controllo delle risorse naturali e dei mezzi di comunicazione.
L’autonomia zapatista era – ed è – una pratica apertamente antistatale che il potere non può tollerare. Solo così si spiega la guerra di bassa intensità scatenata dai vari governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni. In un primo momento, il presidente Zedillo (1994-2000) permise la firma degli accordi, però poi non li rispettò e consentì la creazione di gruppi paramilitari che presto commisero crimini efferati, come il terribile massacro di Acteal, dove morirono 45 indigeni tzotziles, fra i quali vi erano bambini e donne incinte (22 dicembre 1997). L’EZLN non cadde nella provocazione e non riprese le ostilità militari, tuttavia, si ritirò dal tavolo delle trattative prendendo al tempo stesso la decisione di ridurre i rapporti esterni e rinforzare i meccanismi di autodifesa.
Nel 2000, la vittoria di Vicente Fox del Partido Acción Nacional (PAN, di destra) alle elezioni del 2000 significò la fine del regime del partito unico. Il Partido Revolucionario InstitucionaI, PRI, che con diversi nomi aveva mantenuto il potere ininterrottamente dagli anni Venti, perse la presidenza, in parte anche grazie al severo giudizio dei messicani sull’ambigua politica del governo nei confronti degli zapatisti. Finiva così quella che Mario Vargas Llosa aveva definito la “dittatura perfetta” e alcuni scorsero la possibilità di riavviare il processo di pace. Fu una speranza fugace. Dopo lo strepitoso successo della Marcha del color de la tierra che giunse a Città del Messico nel marzo 2001, Fox si unì al PRI e al Partido de la Revolución Democrática (PRD, che si autodefinisce di sinistra) per votare una legge bidone che, nella pratica, sanciva l’annullamento degli Accordi di San Andrés.
Con l’aiuto della solidarietà internazionale l’EZLN ripiegò nuovamente nel Chiapas, concentrando i propri sforzi nella creazione di cooperative, strutture di autogoverno, sistemi di salute e di educazione alternativa. In tal modo, oltre a progredire dal punto di vista materiale, rinforzarono il nucleo centrale del progetto di contropotere centrato sull’autonomia, la democrazia diretta ed il muto appoggio. Nel 2003, dopo una lunga riflessione interna, le comunità zapatiste decisero di raggrupparsi secondo nuove linee territoriali, separare definitivamente le strutture militari da quelle civili, perfezionare i meccanismi della rotazione delle cariche e ristrutturare i rapporti con la solidarietà internazionale. Istituirono allora degli organismi di coordinamento, chiamati Juntas de Buen Gobierno e sostituirono i cinque Aguascalientes (spazi di incontro con la società civile creati nel 1994) con altrettanti Caracoles che perdurano come solidi bastioni dell’autonomia e della resistenza indigena.
Il 19 giugno 2005, Marcos dichiarò lo stato d’allerta nei territori zapatisti interrompendo le consuete visite ai Caracoles, dei gruppi solidali e sospendendo la cooperazione internazionale. Il grave gesto sorprese le reti della solidarietà internazionale e gli stessi militanti del Frente. L’ultimo stato d’allerta risaliva al massacro di Acteal e molti temevano una nuova offensiva contro le comunità indigene. La direzione dell’EZLN precisò subito che si limitava a prendere misure difensive e che avrebbe rispettato il cessate il fuoco del 12 gennaio 1994 ratificato dagli Accordi di San Andrés. Cos’era accaduto? Nulla di particolarmente grave, questa volta, salvo che, dopo un lungo periodo di silenzio, Marcos si disponeva a lanciare una nuova serie di comunicati che, in gran parte, riguardavano le elezioni presidenziali del 2006.
Poco dopo, arrivò infatti la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, un documento di ampio respiro in cui la direzione dell’EZLN denunciava nuovamente la decomposizione della classe politica messicana, riaffermava le radici indie del neozapatismo e ripercorreva le vicende alterne di quasi dodici anni di lotte. Esaurito il dialogo con il governo e bruciato il rapporto con la sinistra storica, bisognava adesso guardare “in basso e a sinistra”, unirsi ai lavoratori urbani e rurali, così come alla galassia di gruppi e movimenti marginali. Seguiva una veemente rivendicazione del Che Guevara, un saluto ai popoli latinoamericani, alla rivoluzione cubana, all’Europa sociale, e ai “fratelli d’Asia, Africa e Oceania”. Il tutto con un linguaggio che ricordava le radici marxiste-leniste dell’EZLN.
Contemporaneamente, l’EZLN lanciava la Otra campaña, un’iniziativa da intraprendere insieme con le organizzazioni della sinistra antagonista, i popoli indigeni, le organizzazioni sociali, i collettivi antagonisti e le Ong, oltre a donne, uomini, anziani e bambini che vi aderissero a titolo individuale (benché su invito degli zapatisti). Erano imminenti le elezioni presidenziali e la proposta centrale, sottrarsi all’ingannevole abbraccio del PRD e costruire un polo di lotta anticapitalista e antipartito oltre i bastioni del Chiapas, era allettante. Il subcomandante aveva perfettamente ragione quando affermava che i grandi problemi nazionali non potevano risolversi nell’ambito istituzionale e che un regime autenticamente democratico sarebbe scaturito solo da una profonda rivoluzione sociale.
Marcos concentrò gli attacchi contro Andrés Manuel López Obrador (AMLO) – un riformatore che raccoglieva le simpatie di molte persone “in basso e a sinistra” –, il che non fu una buona idea perché già ci stavano pensando i partiti di destra e la televisione che lo presentavano come un “grave pericolo per la nazione”. Il fatto è che, come in Spagna nel 1936, vi erano i buoni motivi per non votare, ma ve ne erano anche per votare, visto che, con tutti i suoi difetti, AMLO non era certo un repressore e avrebbe dato un respiro momentaneo ai movimenti sociali e particolarmente agli zapatisti. L’importante era lasciare a tutti la libertà di scegliere senza farne una questione di principio per non creare divisioni.
Marcos – adesso chiamato “Delegato Zero” – intraprese una campagna parallela a quella dei candidati presidenziali che aveva l’obiettivo di collocare nuovamente le rivendicazioni zapatiste al centro del dibattito politico. Il lungo viaggio attraverso il sud-est mostrò che nel Messico profondo persistevano l’abbandono e la terribile miseria dei popoli indigeni, nonostante la sbandierata transizione al “primo mondo” ed alla democrazia. Il contatto con la gente in “basso e a sinistra”, si circoscrisse però principalmente ai soliti gruppetti marxisti-leninisti i quali, più che inventare nuove forme di fare politica, riproducevano all’infinito le sciagure di quella vecchia. Alcuni inalberavano addirittura i ritratti di Stalin, come a significare la negazione di tutto ciò che l’EZLN era stato fino a quel momento.
La carovana giunse a Città del Messico a fine aprile fra aspre polemiche suscitate dalla presenza di una scorta militare, allo scopo di “proteggere” i partecipanti da eventuali attentati. Si interruppe tuttavia dopo i fatti di Atenco, un sobborgo della capitale che il 3 e il 4 maggio fu teatro di violentissimi scontri fra la polizia e militanti del Frente de los Pueblos en Defensa de la Tierra che si opponevano alla costruzione de un aeroporto sulle loro terre comunali. A fine giugno, appariva chiaro che i risultati dell’iniziativa zapatista erano modesti: la contraddizione tra il discorso libertario del Delegato Zero e la sua pratica verticale rendeva difficile trasmettere il messaggio libertario delle comunità in resistenza oltre i ristretti circoli militanti. In realtà, la nuova strategia – centrata sul reclutamento e la cooptazione più che sul dialogo fraterno – sembrava riprendere i vecchi schemi della guerra popolare prolungata di stampo maoista.
Il 2 luglio 2006, giorno delle elezioni, AMLO, il candidato della “sinistra” ottenne la maggioranza, però fu proclamato vincitore il candidato della destra, Felipe Calderón. Sabato 8, mezzo milione di persone invase il centro di Città del Messico per protestare contro la frode e una settimana dopo la cifra era triplicata. Cominciava un grande movimento di massa che nei mesi successivi avrebbe occupato lo scenario principale delle lotte sociali in Messico. Commettendo un grave errore, gli zapatisti si astennero dal parteciparvi concentrandosi, senza successo, nella campagna per la liberazione dei prigionieri di Atenco (il loro leader, Ignacio del Valle, fu liberato solo nel 2010). In dicembre 2008, si celebrò a Città del Messico il primo di una serie di festival chiamati La digna rabia che non riuscirono a ricreare l’atmosfera elettrizzante della tappa precedente. In seguito, gli scritti di Marcos si fecero più rari, dando l’impressione che le comunità ribelli avessero deciso di gestire direttamente i rapporti con il mondo esterno, decisione che parve saggia a molti, compreso l’autore di queste righe.
Il 2012, anno elettorale, fu teatro di una nuova e altrettanto clamorosa frode ai danni di López Obrador. Il Messico, come l’Italia della prima repubblica era una democrazia bloccata e, dopo 12 anni di governi del PAN, tornava al potere il vecchio PRI con la presidenza di Enrique Peña Nieto. A Città del Messico e nel resto del paese, vi furono grandi manifestazioni incitate dal vigoroso movimento studentesco chiamato YoSoy#132, però gli zapatisti si mantennero muti. È vero che non ripeterono gli errori del 2006 – fare campagna contro il candidato dell’opposizione –, però pochi compresero le ragioni di quel silenzio che si faceva sempre più assordante. Da parte sua, Marcos lanciò una nuova serie di comunicati, dove annunciava “il crollo del vostro mondo” e la “rinascita del nostro”. In un paese straziato dalla miseria e da un’assurda guerra contro il narcotraffico che ha fatto decine di migliaia di morti (la cifra esatta non si saprà mai), il messaggio era poco credibile, ma denotava la volontà degli zapatisti di continuare ad essere protagonisti sullo scenario del mondo politico contemporaneo.
A partire dal governo Peña Nieto, la situazione del Messico è precipitata spaventosamente. Le vittime della sporca guerra (ufficialmente circa 50 mila, più del doppio secondo stime indipendenti), i femminicidi, la severa crisi economica, gli scandali di corruzione, la mercificazione dell’educazione (Peña dice di volerla… quotare in borsa!), il saccheggio delle risorse naturali (gli idrocarburi in primo luogo, pero anche acqua, biodiversità, e la ricchezza minerale…) e, soprattutto, la strage degli studenti di Ayotzinapa a Iguala, nel Guerrero (26 settembre 2014: sei morti, 43 desaparecidos ed un numero non precisato di feriti), stanno mostrando la fragilità di un regime la cui credibilità si fondava in gran parte sui volti telegenici del presidente e di sua moglie, l’attrice Angelica Rivera. Di fronte a ciò, gli zapatisti hanno attivato varie iniziative di appoggio ai genitori dei desaparecidos, aprendo così una nuova tappa della loro storia, una tappa più attenta agli sviluppi della società messicana.
A oltre vent’anni da quel fatidico primo gennaio, il bilancio della ribellione resta, in gran parte, positivo malgrado gli innegabili errori commessi dalla dirigenza dell’EZLN. In primo luogo, gli zapatisti hanno messo sul tavolo della discussione la questione indigena. Grazie a loro, il Messico è cambiato: non solo hanno denunciato le inaudite condizioni di emarginazione nelle quali vivono i popoli originari, ma hanno anche posto l’accento sul contributo che possono dare ai grandi problemi del mondo attuale, specialmente nell’ambito dell’ecologia e della ricostruzione sociale. Se essere indio oggi significa qualcosa di molto differente all’epoca anteriore al ‘94, il merito è soprattutto degli zapatisti. Ma vi è di più. Essi hanno impresso una nuova forza alla lotta per le autonomie indigene; hanno forgiato rapporti umani basati sulla cooperazione, la gratuità e il mutuo appoggio e, cosa non minore, nei territori da loro controllati, sono riusciti a neutralizzare le politiche sociali controinsurrezionali del governo messicano.
È vero anche che, nonostante numerosi tentativi, non sono riusciti a costruire un movimento della portata di quello boliviano o dell’ecuadoriano e neppure un polo antagonista paragonabile a quello dei Sem terra in Brasile, però continuano ad essere un esempio di resistenza e di lotta nel mondo intero. Grazie agli zapatisti, il movimento indigeno continentale si è rinnovato profondamente e i comuni autonomi che sono sorti in differenti regioni del Messico – e che tuttora persistono – hanno tratto ispirazione dalla loro esperienza.
Oggi gli zapatisti si mantengono, in primo luogo, come contropotere locale e, nonostante due decenni di militarizzazione e guerra civile, continuano ad essere un importante laboratorio di critica sociale che merita le simpatie e la solidarietà di quanti tengono in considerazione i destini nel mondo. Come nel passato, resistono. Un loro anonimo esponente ha dichiarato recentemente: “la resistenza è il luogo dove noi facciamo quello che vogliamo, senza chiedere il permesso a nessuno. Per questo diciamo che vi sono molte resistenze. Noi non abbiamo un orario per la resistenza e nemmeno un calendario definito. La resistenza non ha fine perché, possono ucciderci, ma la nostra parola rimane. La parola è immortale”.
Alcuni muoiono di malattie curabili come la piccola, grande comandanta Ramona; altri sono torturati e incarcerati, come Alberto Patishtan – maestro di scuola che si è fatto tredici anni di galera, falsamente accusato di omicidio – però la Selva Lacandona non è più solo un luogo di sofferenza e abbandono. Con i tutti i suoi paradossi e le sue ambiguità, la rivoluzione zapatista ha portato alla superficie l’urgenza di liberare le energie creative non solo dei popoli indigeni, ma anche dei molti mondi negati dalla società in cui viviamo. Ha messo in moto il primo assalto organizzato e cosciente contro l’ordine neoliberista e i suoi epigoni. Ha creato incontri, rapporti, legami, opportunità. Non è poco.