E c’erano un Inverno di Millet e un piccolo paesaggio di Corot, bellissimi che nessuna riproduzione manco lontanamente rende l’idea. E poi quest’altro Corot, bello, che ho capito dove Doisneau ha preso il cane della famosa fotografia: uguali, anche la taglia e il colore. E se non l’ha preso ma solo trovato, è lo stesso. Il nesso, la memoria, c’è in chi guarda. Il tempo va indietro e torna avanti. Funziona così. In me, almeno.
E poi c’era l’autoritratto di Degas mentre saluta con il cappello a cilindro e soprattutto il piccolo, splendido Ritratto di Henri Michel-Lévy nel suo studio, del 1879. Che gran pittore è Degas! Un suo minuscolo desolato autoritratto da vecchio, della collezione di Emil Buehrle se ricordo bene, è uno dei miei preferiti in assoluto. Questo del suo amico Henry è quasi dello stesso livello. Il pittore è appoggiato al muro, o meglio: a una tela appesa al muro, con la testa leggermente reclinata, lo sguardo, si direbbe, torvo, più che concentrato o severo, accentuato dal fatto che metà del viso è in ombra per effetto della direzione della luce, che viene da destra in alto. Indossa una camicia candida che dà maggior risalto alla pelle scura del volto, ha le mani in tasca e le gambe incrociate, in una postura modernissima; non so se era assolutamente inedita in pittura, ma, per quanto limitata sia la mia esperienza, io non ricordo di averne viste di anteriori uguali. Ai suoi piedi invisibili, seduta sul pavimento, una figura femminile con un lungo abito rosa, un nastro rosso al collo e un cappello giallo che non definirei elegante.
È certamente è un manichino; ma in un promo momento la vedo come una modella, un manichino pigmalionizzato, e così lo leggo. La collocazione in basso allora forse allude anche alla differenza di condizione (spesso le modelle integravano i guadagni con altre prestazioni, in studio e fuori), ma lo sguardo perso e la postura scomposta lasciano pochi dubbi sulla sua lucidità (perlomeno quella di quel momento) e integrità: interpretazione indotta anche dal fatto che i tratti del suo viso siano molto meno accurati di quelli del pittore. Ma questo, così come una certa impressione dell’articolazione dei volumi corporei pur ammorbiditi dagli abiti, in contrasto con la continuità fluida del corpo del pittore, in particolare l’inclinazione della testa, dal collo come spezzato, che assomiglia a quella del Fantoccio di Goya del 1791-92, che certamente Degas conosceva (ma anche se così non fosse, non importa: qui pure importa che lo ricordi io), la identificherebbe senza ulteriori dubbi come manichino.
Sì; però io continuo guardarla come se fosse la modella. Il suo braccio sinistro, interrotto dalla cornice prima della mano, è piegato in modo da echeggiare in parallelo la postura di una delle figure del quadro sopra di lei: un uomo sdraiato prono con la testa voltata in alto verso due signore con ombrellino (l’esatto contrario di quella del pittore, che peraltro la figurina richiama). L’altro braccio invece termina all’interno di una piega o tasca dell’abito, ma la prima impressione (che rimane più forte anche dopo la correzione di lettura) data dalla grande composita macchia rosa e marrone è quella di una mano assolutamente informe, come una grossa spatola: di qualcosa di incompiuto e che al contempo sembra alludere a uno degli aspetti della tecnica usata nel quadro e in genere del lavoro più tardo di Degas, dal mestiere che condivide con il suo modello (quello vero: l’amico Henri).
Questo fattore è messo in ulteriore evidenza dalla grande scatola dei colori, con all’interno una tavolozza e dei pennelli, accentuata dal primissimo piano, e poi dalla firma del pittore più sotto, in basso a sinistra. C’è tutto. Da qualche parte ci dovrei essere anch’io.