“Mann Tracht, Un Gott Lacht”, dice un proverbio yiddish, “Dio sorride dei progetti dell’uomo”. Più di Dio – che di questi tempi s’immagina impegnato in faccende più serie – a sorridere dev’essere Covid-19, proprio quello che il Presidente da mesi nega, denigra, sminuisce. Si è preso la rivincita più ironica che mente possa immaginare.
Le implicazioni politiche sono enormi. Il tweet del Presidente che giovedì notte annunciava il contagio ha scritto la parola fine alla campagna elettorale un mese prima dell’Election Day. I comizi sono annullati e così tutti gli incontri e le interviste che prevedevano la sua presenza. L’intero entourage è stato spedito in quarantena e così la First Lady.
Da qui, ci si inoltra nella tempesta delle possibilità. Rimandare le elezioni, in teoria possibile, nella pratica non si può. I tempi sono stretti, il procedimento complesso, una convergenza politica improbabile e a complicare la situazione, da settimane si vota per posta in molti stati. Più che sul rinvio, il sistema si fonda però sulla sostituzione dei candidati, spiega Brian Kalt, professore di Legge alla Michigan State University.
I meccanismi sanciti dalla Costituzione sono chiari ma le aree di incertezza non mancano. Il partito può designare un sostituto per il candidato che muore o si ritira per malattia – può essere il vicepresidente designato ma non è obbligatorio. Se il malato rifiuta di uscire dalla corsa elettorale la questione però si complica, soprattutto se vince le elezioni.
Un presidente incapacitato può trasferire in via temporanea i poteri al vice. In alternativa, quest’ultimo può avocarli a sé di concerto con il gabinetto dei ministri. Se il presidente rifiuta e rimanda la questione al Congresso, il passo successivo è però la crisi. In caso di morte dopo le elezioni, la sequenza è invece cristallina: al presidente subentra il vicepresidente e in caso venga a mancare anche il vice tocca al portavoce della Camera. Per scenari ancora più catastrofici, basta passare su Netflix e affidarsi a Designated Survivor – dove a sopravvivere è uno solo.
Non dev’essere di gran conforto giacere in un letto d’ospedale a 74 anni, il respiro in affanno e il sangue gonfio di sieri medicinali, mentre il mondo discute i dettagli della tua prossima dipartita. Soprattutto non dev’esserlo per il campione dei maschi alfa d’America, il lottatore spregiudicato, sprezzante delle donne e dei perdenti – in ordine sparso: i caduti in guerra, i morti per Covid 19, George Floyd e Breonna Taylor, i poveri, la gente che paga le tasse che lui taglia agli amici miliardari mentre deduce i 70 mila dollari necessari ad acconciarsi i capelli in vaporose nuvole arancio.
Invece. Eccoci qui, noi perdenti, a contemplare increduli la sua disfatta. Il corpo massiccio del capo restituito alla mortalità, squassato dalla febbre, dai catarri, dalla paura. Un corpo come il nostro, a cui tutto il potere e il denaro del mondo non possono regalare la promessa della salute. Usargli il garbo della compassione è però come prodursi in un doppio tuffo carpiato – ci riescono in pochi. Le sue responsabilità sono immense e dire che l’è tirata addosso è una gentilezza.
Questo è il Presidente che contro ogni evidenza ha negato la pandemia, irriso le mascherine e i lockdown e mai ha confortato l’immenso lutto del paese. È il Presidente che nel primo e per fortuna ultimo dibattito presidenziale – il più grottesco che l’America ricordi – ha rifiutato di condannare il suprematismo bianco, delegittimato il processo democratico, vellicato gli istinti più bassi ed evocato senza pudore il colpo di stato.
Eppure non riesco a unirmi al coro di sghignazzi che sui social accompagna la notizia del suo contagio. Non mi viene da augurargli il male né alcuno dei rimedi che nei mesi ha decantato – l’idrossiclorochina, i raggi Uv, la candeggina. Vedo solo un uomo al capolinea di una corsa disastrosa. Non è un soprassalto di moralità e il perdono non c’entra. È più un riflesso di natura letteraria.
Sto rileggendo Il falò della vanità (1987) di Tom Wolfe e nella drammatica parabola di Sherman McCoy, il trader di strepitoso successo che l’arroganza e il disprezzo delle regole precipitano nel disastro vedo affiorare i semi della tragedia in corso.
In questi giorni i commentatori hanno tirato in ballo l’hybris e la nemesis. Trump non è però Icaro schiantato nei flutti per aver osato volare verso il sole, non è Ulisse naufrago dopo il canto divino delle Sirene. Non ha quel tratto eroico o quel trasporto generoso. Le sue sono sfide meschine, egoismi, calcoli di opportunismo. La Torre di Babele si slanciava al cielo per carpire i segreti di Dio, la Tower Trump innalza solo la superbia del suo costruttore. Trump è Sherman McCoy trent’anni dopo.
Il falò delle vanità compone un ritratto inquietante dell’era reaganiana e degli anni ruggenti di Wall Street quando immense fortune nascevano e morivano nel giro di poche ore e, per dirla con Gordon Gekko, l’avidità era una cosa buona. Per il grande romanzo americano degli anni Duemila i libri non servono – accade sotto i nostri occhi, rifratto dal fiume dei video e dei social media.
È il miliardario di Manhattan, roso dall’ambizione, che scala le vette del potere finché la Storia lo rivela al mondo nella sua fragilità. Siamo noi, le vite stravolte dalla nuova normalità, smarriti nel presente e orfani di futuro. È un paese al collasso che prova a rialzare la testa – l’impero capitalista in agonia e i primi vagiti di una nuova democrazia, l’alba possibile del cambiamento.
Intanto, da giorni stuoli di giornalisti, fact checkers e visual investigators dissezionano ogni sussulto della Casa Bianca e le paranoie del complotto impazzano. Perché chi ci garantisce che è davvero malato? Chi può giurare sulla veridicità dei rapporti prodotti dai suoi medici e dall’entourage? Hanno mentito in passato, potrebbero farlo di nuovo. E se fosse tutta una montatura per recuperare terreno e popolarità? L’opportunità di un radicale restyling d’immagine? Di fatto i primi video dall’ospedale già lo mostrano umano e presidenziale come mai si è visto in precedenza.
È uno sfolgorio abbagliante di verità fasulle, fatti alternativi, opinioni spacciate al migliore offerente – il crepuscolo perfetto per il regno di Trump, sempre che il crepuscolo sia già arrivato. Alla fine non resta che attendere il prossimo colpo di scena. Nella migliore tradizione dei feuilleton ottocenteschi, prima di diventare un best seller Il falò delle vanità era uscito a puntate su Rolling Stone. Una puntata ogni quindici giorni, il modo migliore per tenere vivo l’appetito del pubblico.
Ma questo è il tempo dei social e dello streaming, nessuno aspetta due settimane. Le notizie invecchiano appena ti volti e le puntate sono un relitto archeologico insieme alle sigle d’apertura e ai titoli di coda. E allora, cosa succede domani? Mancano tre settimane alle elezioni. Questa è l’America e tutto può ancora succedere. Qualcuno giura che, una volta guarito, il Presidente si trasformerà nel più fervido paladino di tutte le misure che ha dileggiato, dalle mascherine alle chiusure. “Mann Tracht, Un Gott Lacht”. Quel giorno perfino Dio si concederebbe un quieto ineffabile sorriso.