Alle opere considerate nella prima rassegna, adesso infatti si aggiungono, in particolare, i tre film che di certo rimarranno nella rosa delle opere più interessanti in Concorso, vale a dire Ema, di Pablo Larraín, che forse è il lavoro più vicino al Leone d’Oro, Martin Eden, di Pietro Marcello, e Eduardo De Filippo. Il sindaco del rione Sanità (questo è il titolo completo), di Mario Martone.
Pensando a un pubblico di lettori composto non solo da chi si trova al Festival, ma anche da chi, in attesa di vedere i film in sala, volesse capire cosa ci racconta dell’immaginario e della cultura contemporanea il cinema di Venezia76, vorrei parlare di questi tre film fissando alcuni aspetti che li tengono in dialogo e ne costituiscono la qualità, fino al punto di poterci far usare, senza per questo trascurare le forti differenze, la comune espressione di cinema “rotto”, vale a dire un cinema che trasforma, nervosamente, il desiderio di frantumarsi e uscire da sé stesso, nella condizione creativa necessaria e vitale per convincerci dell’autenticità della verità che forma e racconta.
Sia Ema che Martin Eden che Il Sindaco del rione Sanità, infatti, sono opere belle e originali che usano intenzionalmente linguaggi provenienti da arti diverse (la danza per Larrain, il teatro per Martone, la poesia e il cinema d’archivio per Marcello; e la musica in tutti e tre), senza trattare questi linguaggi altri come trovate sceniche di contorno, ma usandoli come elementi formali e drammaturgici attraverso cui dare vita a corpi filmici e visuali porosi e multiformi che reinventano, proprio grazie a questa impurità e a questa compresenza, nuove capacità di rivedere e rinominare il mondo.
Si tratterà allora di creare effetti di contrappunto e distanza, costruiti per via di anacronismi, o procedimenti di straniamento linguistico e visuale, come succede nel film di Martone, che porta il teatro dentro il cinema per costruire un diverso sguardo sulla tanto consumata napoletanità. Eduardo De Filippo, di cui il nome entra nel titolo stesso del film, non vale, dunque, come l’autore di un testo riadattato, ma come la “funzione De Filippo”, che il cinema di Martone riattiva e attualizza. Con la conseguenza, per esempio, di riprendere il repertorio più “mitico” della cultura partenopea non per spettacolarizzarlo, come è accaduto soprattutto nelle ultime stagioni della serie tv Gomorra, ma per restituirgli sostanza. Il Sindaco del rione Sanità non fa rivivere degli stereotipi ma degli archetipi. Il dialetto stretto napoletano, il bilinguismo, il sistema arcaico di valori secondo il quale si comportano i personaggi della commedia di De Filippo non formano un copione folkloristico di Napoli, o quantomeno non si fermano a esso, perché creano nuova attenzione, distanza, senso della prospettiva. Narrazione, insomma. Come quando, all’inizio del film, in casa di Don Antonio Barracano, mentre il dottor Fabio Della Ragione, in pigiama, si accinge a rimuovere una pallottola dalla gamba del malavitoso Palummiello, sia il ferito che gli altri due guappi, ‘o Nait e Catiello, raccontano l’accaduto scoppiando intanto continuamente a ridere, in maniera imprevista, incongrua, e dunque umoristica, e creando così, linguisticamente e teatralmente, un effetto di presa di distanza dalla scena, anziché di identificazione empatica. Del resto il mondo con cui dialoga il riadattamento di Martone è anche quello della cultura notturna, spettrale, barocca, quello di certe tele di Salvator Rosa; è la cultura tenebrosa, e complessa, che fa assomigliare il protagonista, quando entra in scena, a una delle figure più teatrali e ambivalenti della cultura napoletana: il “munaciello”:
Tra l’altro, nel film di Martone come anche in quello di Larrain o Marcello, la compresenza di linguaggi diversi, oltre a creare distanza e sfasamenti temporali, funziona al tempo stesso come occasione per ripensare il rapporto tra messa in scena e mondo reale al di fuori di soluzioni riparatorie. È un cinema rotto, infatti, che non ripara, ma buca e va avanti per contrappunti e cuciture a vista. In tal senso, un altro elemento che ritorna è la presenza di protagonisti sfuggenti, per così dire: come Martin Eden, ma pure come Don Salvatore, il Sindaco del Rione Sanità, che non è banalmente un capocamorra, e nemmeno una maschera, ma, come già aveva voluto De Filippo, un’incarnazione controversa, che contiene, paradossalmente, anche una promessa utopistica di fuoriuscita dalla guerra fatale tra bande.
Martin Eden, invece, è una creatura di soglia perché, come già raccontava il romanzo (uscito in volume nel 1909, tre anni prima della tragedia del Titanic), il mito dell’individualismo ottocentesco (il giovane spiantato che a forza di sacrifici riesce a percorrere e superare una parabola di formazione che lo porterà al successo pubblico e privato) si è inabissato. E con esso anche l’illusione di una singola biografia emblematica come paradigma bastevole – in questo senso Martin Eden, tanto il libro che il film, dialogano con la contemporaneità in maniera tanto più attuale di altre storie del presente, sia letterarie sia cinematografiche. Trasferendo a Napoli, nel primo dopoguerra, la vicenda di Martin, marinaio che cerca di emanciparsi studiando e diventando uno scrittore, il film costruisce sul volto di Marinelli una sorta di progressivo destino di morte. Scene d’archivio di manifestazioni operaie di inizio secolo, bambini che ballano nei vicoli, mentre intanto, assieme a personaggi abbigliati secondo la moda di primo Novecento si intravedono delle macchine o dei lavandini degli anni Settanta.
Martin Eden è un’opera tanto originale e coraggiosa quanto difficile; soprattutto nella seconda parte, anche meno risolta, perché il lavoro continuo di messa a contrasto, per via di montaggio alternato o di inserzioni di stili che stridono tra di sé, di forme e intenzioni diverse, – alle immagini girate su pellicola si alternano immagini d’archivio o finte immagini d’archivio – tutto questo complesso lavoro di riprese e stratificazioni, verso il finale, rischia di sfuggire di mano e può sfiorare i bordi della maniera fredda.
Ema di Larraín, in questo senso, è un film altrettanto complicato, e perfino bizzarro e straniante, tanto sul piano dell’uso di linguaggi diversi (la danza, la musica) usati per fare cinema, quanto sul piano della costruzione di un personaggio inafferrabile, fisicamente e emotivamente:
Ema è una sperimentazione continua di codici, di forme e di relazioni. Forse, finora almeno, è il film che più di tutti ha cercato il confronto con un immaginario interamente appartenente al ventunesimo secolo. Questo effetto di massima entrata a contatto con il contemporaneo passa dai dialoghi, dalla costruzione dei personaggi, dagli spazi, dalla messa in scena di situazioni visuali (il semaforo in fiamme all’inizio del film; l’altalena e le giostre in fiamme, verso la fine); e dall’uso della danza come codice. Tutto ciò che ha una forma, una regola, dei confini, in Ema è rotto o mandato in fiamme – letteralmente, visto che la protagonista – Mariana Di Girolamo, che potrebbe conquistarsi una meritata Coppa Volpi – è un’incendiaria; ed è pure una ballerina di danza contemporanea, che distrugge tutto: la possibilità di una vita di coppia “regolare”, la possibilità di una maternità “regolare”. Il suo corpo, messo a danzare reggaeton per le strade, esprime un’energia fisica vitale e divorante che attira a sé, come un magnete, in un’euforia di onnipotenza, tutti gli altri personaggi della storia. Ma ne riparleremo ancora, dopo che saranno stati assegnati i Leoni.