Abbiamo visto “ Il fondamentalista riluttante “ regia di Mira Nair.
Mira Nair è una regista indiana che dopo il suo primo film “ Salaam Bombay “, film evento del 1988, è andata a vivere a New York. Da allora ha realizzato una serie di filmoni in parte incompiuti, in parte fermi nel mezzo del guado per troppo voler raccontare. Da “ Mississipi Masala “ una storia d’amore e delle sue difficoltà tra un giovanotto afroamericano del Sud degli Usa e una ragazza indiana, nata a Kampala in Uganda e poi esule politica nel Mississippi; a “ Matrimonio indiano “, la storia di un matrimonio combinato tra due ricchissime famiglie indiane, quella della sposa rimasta in India e l’altra emigrata negli Usa. E nel 2006 ha girato “ Il destino nel nome “, in cui Ashima e Ashoke, due giovani del Bengala si sposano con un altro matrimonio combinato, si trasferiscono negli Stati Uniti, ma la vita fredda e grigia di New York li fa essere nostalgici dei colori e del modo di vivere caldo di Kolkata ( Calcutta ). Temi forti e con molte variabili politicamente corrette ( razzismo, intolleranza, immigrazione, conflitti interculturali, rapporti familiari e di coppia, trasformazioni culturali ) che però la Nair riveste di una fotografia glamour, con una regia ‘ perfetta ‘ ma terribilmente poco efficace, coni un calligrafismo che sfiora la vanità e così l’inessenzialità dei tanti problemi veri. A voler essere un po’ rozzi, si potrebbe scrivere che con questa forma i contenuti possono essere collocati nel “ Ma chi se ne frega… “. Prevale in fondo una ricerca formale patinata e priva di sentimenti che rendono i protagonisti dei suoi film neanche lontamamente empatici. Peccato perché il talento c’è ma diventa fine a se stesso, algido e lontano, sembra quasi che le si possa dire: per cortesia, lasciaci seguire i personaggi e fatti un po’ da parte con la regia.
Anche per questo film “ Il fondamentalista riluttante “ le pecche della Nair si mostrano tutte. Una buona storia ma complicata in tutte le sue sfaccettature esistenziali, culturali e storiche ( tratta dal romanzo omonimo di Mohsin Hamid e divenuto un best seller internazionale ), diretta con sapienza, ma che risulta poco empatica, incongruente nello scontro tra due esseri doppi e in cui il dramma dell’11 Settembre e le sue conseguenze sembrano quasi da cartolina.
La storia inizia a Lahore nel Punjab pakistano, un giovane professore Changez Khan incontra in un ristorante del suk ( terribilmente ricostruito in studio ) il giornalista americano Bobby, autore di tre saggi liberal sulla fede islamica; ma solo apparentemente il secondo vuole intervistare il primo e il pachistano riluttante sa bene che non è altro che un gioco del gatto col topo, unico dubbio è chi è l’uno e chi è l’altro. Il realtà Changez ( un bravo Riz Ahmed, attore e rapper britannico di origini pakistane ), giovane professore universitario, forse sa dove si trova prigioniero un suo collega americano sequestrato dai fondamentalisti, mentre Bobby Lincon ( un roccioso e poco empatico Isaac Liev Schreiber ) è un giornalista che vive in Pakistan, parla l’urdu e collabora con la Cia. In questo ristorante, seduti ad un tavolo, nel gioco delle parti, Khan ‘ accetta ‘ di farsi intervistare dal giornalista e gli racconta la sua vita iniziata negli Stati Uniti a 18 anni e diventato ben presto un professionista rampante nel campo della finanza, pupillo del capo del più grosso studio newyorchese e, in questa upper class, Changez sembra riuscire ed affermarsi in tutto anche nell’amore con l’artista fotografica Erica ( una frastornata e convincente Kate Hudson ). Tutto procede alla grande per il fondamentalista riluttante ma come nelle vite di molti arriva l’11 settembre 2001 che cambia di colpo le prospettive e non solo sue. La sua vita comincia a cambiare, viene visto anche dagli amici come un islamico e non più come una persona. E quindi alla fine, tra dubbi e sofferenze, preferisce ritornare a casa.
Con questo racconto dettagliato, Changez cerca di convincere Bobby che le sue idee non vanno d’accordo con nessun fondamentalisimo né islamico né occidentale. E così facendo spera di convincerlo a fare da intermediario con la Cia e di non finire in carcere o di vedere la sua famiglia perseguitata. Ma ormai i nodi sono al pettine e non c’è più tempo per la comprensione e il rispetto reciproco…
Solo in parte la storia si sviluppa nel confronto-scontro tra Changez e Bobby, su come entrambi sono cambiati e insoddisfatti, quasi costretti ad accettare vite determinate dalla Storia ( anche se centrale il loro stare l’uno di fronte all’altro in un ristorante non sembra la parte più convincente della drammaturgia ), lo sviluppo importante è sui soliti ‘ temi ‘ della Nair: intolleranza, razzismo, la violenza del capitalismo sfrenato, le difficoltà interculturali, elaborazione del lutto e delle perdite, e in più le crepe che possono nascere anche dai sentimenti più belli e destinate a far crollare un’integrazione possibile. E in fondo anche una certa stupidità che prende coraggio dalle ingiustizie per creare altra ingiustizia e maggiore violenza.
Da segnalare tra gli attori un convincente Kiefer Sutherland in un ruolo assai diverso dai soliti e Om Puri ( il padre ).