Abbiamo visto Il gioiellino regia di Andrea Molaioli.
Molaioli è uno dei registi emergenti italiani degli ultimi anni, ha seguito una buona trafila per diventare un regista con talento, ha fatto da assistente e poi da aiuto regista a Nanni Moretti, Mimmo Calopresti, Daniele Lucchetti, Carlo Mazzacurati. Poi a quarant’anni ha realizzato il suo primo film La ragazza del lago (2007), ispirato al romanzo Lo sguardo di uno sconosciuto della scrittrice norvegese Karin Fossum. Un buon film di genere con venature stilistiche alla Durrenmatt. Con quel film ha ottenuto ben dieci premi David di Donatello. E forse con questa affermazione gli è stato dato una esagerata sopravvalutazione, oggi è alla sua seconda prova di regia ma, nonostante le buone intenzioni e la voglia di raccontare l’ipocrisia di una certa provincia e del solito capitalismo italiano che alle difficoltà risponde con l’illegalità e la truffa, non riesce che a produrre un film frammentario, un po’ a singhiozzo, in cui dopo i primi dieci minuti in cui viene “detto tutto” (sulla provincia, sul capitalismo italiano, sul modo di vedere di un capitalista antiquato e su un ragioniere scorbutico e algido) non c’è altro che una moltiplicazione dell’assunto iniziale, con un andamento orizzontale senza sussulti, quasi solo una prova d’attori dei bravi Remo Girone e Toni Servillo (per quanto riguarda Servillo, speriamo di sbagliare, ma rischia di fare sempre bene lo stesso personaggio con l’unica differenza del cambio di parrucchino e dei vestito che indossa) mentre quasi tutti gli altri personaggi sono abbozzati, senza spessore, delle figurine di contorno. Come poco raccontato è il suo rapporto con i politici (basta un passaggio in aereo personale? O un po’ di ragazzette che li allietano? O un consiglio in un chiostro da parte del politico?). Siamo sicuri che De Mita o Andreotti erano molto di più di quello che appare nel personaggio interpretato da Carpentieri. E poi complessivamente il signor Rastelli appare più una vittima della situazione che non un criminale economico, c’è da parte degli sceneggiatori quasi un indulgere su questa “brava persona” che in fondo vuole solo lavorare e rendere il suo “gioiellino” più importante possibile. Insomma, Molaioli prende una storia “politica”, dagli esiti disastrosi per migliaia di risparmiatori italiani e la vede sostanzialmente attraverso il lato psicologico dei due protagonisti. Per quanto riguarda invece lo stile, quello che risultava un approccio originale nel primo film in questo, ripetendolo, diviene un difetto drammaturgico.
La storia è quella del signor Callisto Tanzi, uomo di provincia di successo, proprietario della Parmalat, uno che ha fatto un buco da quindici miliardi di euro, che ha rubato ai suoi dipendenti presenti e passati: uno dei soliti imprenditori italiani, con stile diverso, ma con la stessa abilità delinquenziale dei vari Cragnotti, Ferruzzi e affini.
Il film cambia i nomi dei protagonisti, sposta in Piemonte la storia e inizia con l’industriale Rastelli che fa l’elogio della provincia e dei suoi valori, poi in una frattura temporale l’arrivo della finanza negli uffici della Leda, gli uomini trovano computer fracassati, fogli tritati e scavano anche nel terreno della villa della nipote dell’imprenditore. Ma è tutto così breve e introduttivo che scivola via senza lasciare traccia. Si torna indietro nel tempo, a quando il signor Rastelli (un bravissimo Remo Girone) è al massimo del successo grazie a latte, merendine e biscotti, ma è anche privo di liquidità ed è sempre alla ricerca di danaro fresco. Elogia il made in Italy, si circonda di prelati e politici, corrompe chi deve corrompere, frequenta la chiesa e fa gestire al figlio la squadra di calcio della sua città. Un tempo si sarebbe detto, un uomo tutto lavoro, casa e chiesa. Rastelli ha un rapporto simbiotico con il suo ragioniere, Botta (un sempre bravo Servillo),un uomo solitario, completamente afasico negli affetti, che lavora tutto il giorno, con un carattere scorbutico e “selvaggio”; è lui che gestisce le finanze del gruppo, è abile nelle battaglie finanziarie che l’azienda intraprende, riesce a gestire i bilanci e a trovare denaro liquido. Nella sua vita non c’è altro che il lavoro, gli unici passatempi sono “sveltine” con una collega pratica e annoiata e il piacere di bere un bicchiere di vino. Ma nonostante il superlavoro e l’abilità le cose per l’azienda vanno sempre peggio, Botta deve fare i salti mortali per trovare liquidità e negli anni accumula debiti su debiti ma per sua fortuna per molto tempo nessuno vuole vedere o approfondire, nemmeno le banche. E quando sarebbe necessario rinnovarsi, cambiare strategia e seguire i consigli della giovane nipote di Rastelli laureata in economia, cinica e pratica, Botta non prende posizioni pur condividendo, un po’ perché ha una fiducia totale – quasi divina – del suo capo che ha sempre trovato una soluzione ai problemi e un po’ perché conosce il carattere del suo boss che resta un provinciale e restio a capire i cambiamenti. Ed è l’inizio della fine, Botta inventa allora falsi bilanci, danaro liquido inesistente alle Cayman e altre cosucce. Ma oramai il destino è stabilito e finiranno tutti dentro tranne Rastelli che scappa in Russia con la moglie.
Anche se la storia si concentra con precisione, ma senza entrare nei tecnicismi, su una corporation affogata dai debiti e poi costretta alla bancarotta, il racconto ci appare un po’ troppo distaccato, freddo, quasi fuori fuoco, come è la fotografia del bravissimo Luca Bigazzi (di cui però noi non condividiamo in questo caso). Ci dispiace non parlare bene del film, ma con tali potenti premesse ci sembra che la montagna abbia partorito un topolino.
Da segnalare – lo abbiamo già scritto – la prova maiuscola di Remo Girone mentre da Servillo forse oramai ci aspettiamo troppo. E il montaggio asciutto e giustamente sottotraccia.