Abbiamo visto “ Il giovane favoloso “ regia di Mario Martone.
Affrontare un biopic è sempre complesso e il risultato è spesso incompleto e insoddisfacente. Scegliere uno dei pilastri della letteratura italiana, letterato immenso ma dal carattere e dalla vita complicata, in più rinchiuso oramai in quell’immaginario collettivo da istruzione-culturale da supermercato come è diventata la scuola italiana che ha reso il poeta-filosofo-pensatore, un santino un po’ freak un po’ troppo intellettual-malinconico ( in fondo noioso e passato ), diventa un progetto tra il pretenzioso e il superficiale. Mario Martone ( un regista veltroniano-morettiano, in un’epoca in cui Veltroni fa matrimoni e Moretti ha riscoperto la sua giovinezza a sessantanni ) impiega sette anni per realizzare questo film dagli indubbi meriti, con immagini belle, sfavillanti e carnascialesche ( il periodo napoletano ) ma che in fondo narrativamente realizza in modo ‘ ottocentesco ‘ un film sulla modernità del più innovativo dei poeti che abbiamo. Certo cerca di attualizzarlo con una colonna sonora a tratti giovanile ( come Sofia Coppola con Marie Antoinette; in questo caso è curata dal musicista tedesco Sascha Ring in arte Apparat ), usa in alcuni passaggi un didascalismo creativo frutto di questi anni, realizza una prima parte sulla falsa riga di Amadeus di Milos Forman ( nel rapporto nevrotico-affettivo con il padre ), mentre la parte napoletana, la più splendente e affascinante, sembra una via di mezzo tra La pelle di Malaparte ( e del film della Cavani ) e un’opera lirica di Rossini in cui la personalità della città sembra prendere il sopravvento sulla felicità infantile del bambino ( il gusto dei gelati e dolci di un diabetico, la carnalità di un popolo primordiale ) e il pessimismo di un Poeta, uomo sopraffatto dalla natura in tutti i sensi. E’ evidente che Martone ( come per il precedente Noi credevamo ) prende solo ‘ spunto ‘ dalla vita di Leopardi per raccontarci la rabbia furiosa che lui stesso prova dentro di sé per questo tipo di società attuale e della sua deriva. Sembra identificarsi col poeta quando gli fa dire “ Odio questa vostra vile prudenza “, oppure ” Il mio cervello non concepisce masse felici fatte da individui infelici ” ( insomma simile al Mazzini di Noi credevamo, in cui il rivoluzionario repubblicano alla fine del film ipotizza a Stato Unitario nato della necessità di riprendere con le bombe la lotta ). E l’intelligenza onnisciente del poeta gli permette di dire ” Il mio organismo è talmente debole da non riuscire a sviluppare una malattia forte che lo uccida, quindi vivo “, quasi come se volesse fare un raffronto con l’Italia di oggi. Il film difficile se non impossibile nella sua complessità segue il poeta e le sue fragilità rabbiose ma tiene troppo sullo sfondo gli altri, il rapporto con la sorella Paolina ad esempio ( con cui aveva una relazione epistolare intensa ) ed anche il rapporto con Ranieri resta incompleto e quasi dato per dato senza voler approfondire le psicologie tra i due ( l’uno è un avventuriero generico, l’altro un uomo fragile che si appoggia alla forza e all’irruenza del primo ): quasi fossero tutti solo una gallerie di volti che passano in continuazione davanti agli occhi del Poeta e poco più. Come se ci fosse in fondo solo lui e gli altri non fossero che il prodotto di una storia. Il protagonista ( un sempre ottimo Elio Germano ) per impersonarlo ha fatto un lavoro di immedesimazione intenso e profondo, peccato però che il suo viso ( come make up ) risulti sempre uguale e poco sofferto a differenza del corpo martoriato e questo lo si nota anche perché la macchina da presa gli sta spesso addosso e quasi l’analizza nelle pieghe del vissuto. Ed anche se efficace, il citare alcune poesie completamente in off facendo vedere da cosa sono nate rende la fruizione un po’ faticosa se non tediosa ( lo diciamo sapendo che non è facile portare la poesia al cinema ).
Martone riprende la sua ricerca contro lo stato delle cose, fa di Leopardi un ribelle, come lo è stato Caccioppoli in Morte di un matematico napoletano, come, per certi versi, lo è stata Amalia ne L’amore molesto, e la compagnia teatrale nei Teatri di guerra, come i tre ragazzi del sud e non solo loro de Noi credevamo. Leopardi ci viene raccontato come un ribelle così avanti con i tempi che gli altri fanno fatica a comprenderlo, un uomo talmente moderno che la data di nascita è solo una casualità e dove passato e futuro si coniugano senza contraddizioni. Leopardi parla a tutti coloro che non accettano la gabbia del pensiero omologato, che rifiutano la gabbia delle illusioni e l’ipocrisia della famiglia, della politica, della società e perché no, della cultura. E naturalmente facendo così si rende la vita ancora più complicata e contro di pasoliniana memoria.
Il film inzia con Leopardi bambino che corre con i due fratellini nel giardino di casa ( dietro una siepe ) e il giovane Giacomo cerca sin da allora di lanciare uno sguardo oltre. La vita sua e dei fratelli e noiosa sino al tedio e alla malinconia, passano i giorni a leggere e studiare nella biblioteca paterna e per il poeta è ancora più feroce il tutto perché suo padre ha investito in lui tutte le aspettative di uomo coltissimo ma nascosto nel guscio della provincia e quindi privo di confronto con il mondo vero. Il conte Monaldo è così pieno di aspettative per questo figlio coltissimo che diviene quasi un carceriere feroce e intollerante e Giacomo pur amando il genitore ne sente tutta la claustrofobia morale e politica. E nei corridoi della casa, tra libri e sudate carte Giacomo si ammala nel fisico e l’unica speranza possibile è quella della fuga anche mitizzata. Con un salto temporale, Giacomo si ritrova adulto a Firenze dove conosce la bella Fanny che ama senza essere ricambiato e anzi dovrà accettare che lei diventerà l’amante del suo amico Ranieri e a questo si aggiunge che l’ambiente intellettuale fiorentino non è certo alla sua altezza politica e visionaria e quindi lo emarginerà con i soliti luoghi comuni. La terza parte e conclusiva ( la più bella ma anche quella che prende il sopravvento sul poeta ) è a Napoli, dove il poeta si trasforma in un freak vulnerabile e malinconico in mezzo a intellettuali modesti e a freak sociali viscerali e trasgressivi. Fino a giungere a Torre del Greco dove il Vesuvio si risveglia e Leopardi scrive il suo penultimo poemetto La Ginestra.