Un mese fa cominciavano in Venezuela manifestazioni studentesche che sono diventate ben presto manifestazioni politiche  di un cartello di partiti che aveva presentato, Enrique Capriles (già perdente contro Chávez) alle elezioni presidenziali del 2013, poco tempo dopo la morte del Presidente, in una sfida contro Maduro che immaginavano facile ma che lo ha visto di nuovo perdente. In quei primi momenti di febbraio in cui si chiedeva con manifestazioni violente l’uscita di scena del presidente eletto, Capriles si è mostrato incerto e debole. Ne ha preso il posto Leopoldo López, sindaco dell’importante distretto di Caracas, Chacao, e leader del partito Voluntad Popular, che si è a tal punto distinto nei disturbi di piazza da essere incriminato dalla giustizia alla quale si è consegnato dopo qualche giorno di latitanza, mentre i disturbi continuano ancora oggi in quel paese che si è misurato con un importante esperimento politico sia in campo nazionale che regionale e che per questo non ha mai avuto vita facile nonostante le diciotto vittorie elettorali su diciannove convocazioni. E’ indubbiamente vero che nelle presidenziali del 2013, Maduro ha vinto con un margine molto piccolo (1), ma le elezioni territoriali di dicembre hanno ampliato quel margine. E’ vero anche che il paese attraversa un momento di difficoltà ma la rivolta degli “studenti” ha avuto fin dall’inizio lo scopo dichiarato di cacciare Nicolás Maduro nonostante il fatto che, visto che la costituzione venezuelana prevede la revoca del mandato a metà nell’incarico, la società civile avrebbe potuto far ricorso a questo strumento per ottenere il suo scopo.
In Italia la grande stampa, da sempre per niente appassionata dell’ esperimento “chavista”, ha sostenuto le ragioni dei manifestanti, ha criminalizzato il governo ma, presa dall’urgenza delle vicende ucraine, a noi molto più vicine, non ha infierito più di tanto. Chi invece si è distinto per faziosità è stato il grande quotidiano di Madrid e uno dei più grandi d’Europa, El País, che, nella sua edizione digitale America, negli ultimi giorni ha schierato veri e propri pezzi da novanta della destra latinoamericana per dare addosso al governo del Presidente Maduro; il 9 marzo scorso, oltre a un articolo di Paulina Games, Patria, socialismo o muerte, hanno scritto Moisés Naim, ex ministro dello Sviluppo nel Governo di Carlos Andrés Pérez e attualmente dirigente della NED (National Endowment for Democracy (2)). E come se non bastasse, c’è anche l’editoriale di Mario Vargas Llosa la cui militanza politica nella grande destra americana è nota. Nei giorni precedenti avevano espresso la propria opinione anti chavista il politologo neoliberista messicano Enrique Krause e il salvadoreño Joaquín Villalobos, ex alto dirigente guerrigliero dell’ERP (Esercito Rivoluzionario del Popolo) che ha poi cambiato radicalmente le sue idee politiche. Insieme a questi opinionisti di prima classe, El Paìs schiera contro il governo del Venezuela i suoi corrispondenti in America Latina che sparano a zero. Per loro Leonardo López è un combattente della società civile, dimenticando la sua partecipazione durante il golpe contro Chávez del 2002, quando aveva fatto irruzione nella casa del ministro degli Interni e della Giustizia, Ramón Rodríguez Chacín, di sua moglie e dei sui figli di sei e nove anni e li aveva esposti alla rabbia popolare, arrestando il ministro ormai ridotto in cattive condizioni, invece il Presidente dell’Assemblea Nazionale Diosdado Cabello viene definito come ex golpista, ricordando la sua partecipazione insieme a Chávez al fallito tentativo degli anni novanta.
La OEA cede ante Venezuela con una resolución benevolente è il titolo di un articolo di Eva Saíz in cui da per un atto benevolo, non si sa motivato da cosa, la decisione dell’OEA di non mettere sotto accusa il governo del Venezuela; naturalmente la decisione è stata presa con tre volti contrari: Stati Uniti, Panama e Canada. Lo stesso giornale che martella sulla pesante scure che si abbatterebbe sui mezzi di comunicazione del paese dando per fatto un monopolio informativo di regime, non ricorda che durante le manifestazioni una televisione di stato è stata posta sotto assedio per sei giorni, nè fa sapere ai lettori che il Venezuela, come quasi tutti i paesi latinoamericani, ha una presenza di mezzi di informazione privati assolutamente maggioritaria. Il giornale si mostra meno sensibile quando scrive : Il Messico assesta un colpo storico al Gruppo Televisa e a Carlos Slim, e la giornalista Inés Santa Eulalia racconta che quel gruppo esercita un dominio sul mercato per cui adesso gli vengono imposte misure per favorire la concorrenza. Quel che gli sembra bene per il Messico non è tollerato per il Venezuela (ma neanche per l’Ecuador o per l’Argentina) paese nel quale lo Stato non dovrebbe avere canali di informazione.
Ma il tasto su cui battono le schiere di El País è la “cubanizzazione” del Venezuela descritta come causa del malcontento sociale e come minaccia tangibile, per questo l’ambasciata è stata oggetto di atti ostili, i medici cubani minacciati e molte attrezzature distrutte.
Senza paura del ridicolo, Enrique Krauze ha scritto: “Affrontare il Governo di Maduro significa affrontare la grottesca influenza di Cuba sul Venezuela.[…] Anche se la Rivoluzione cubana ha perso la sua aura mitica, la democrazia e il liberalismo non si sono potuti radicare in modo definitivo nella cultura politica dell’America Latina […] L’appoggio al chavismo è, in fondo, un derivato del prestigio calante, ma stranamente vivo della Rivoluzione cubana.” Quanto al leader emergente López, ecco come ce lo descrive Krauze: “In Messico la stampa di sinistra –con un grande ascendente fra i giovani – appoggia senza se e senza ma Maduro. In questi ambienti, Leopoldo López appare come l’istigatore dell’insurrezione e non ciò che è: un leader disarmato e adesso sottoposto a un processo illegale basato su accuse false e fabbricate”.
Curiosa la visione che questo analista ha della gioventù (e della sinistra) latinoamericana!
Moisés Naim, dimenticando di aver avuto le mani in pasta nel suo paese durante il governo di Carlos Andrés Pérez morto in Florida dove si era rifugiato per sfuggire a un processo per malversazione, abbozza un lugubre scenario per il mondo i cui burattinai sarebbero Putin, Erdogan, Bachar el Assad e il povero Maduro che a mille miglia dagli scenari in cui si muovono gli altri presidenti “canaglie”, cerca di portare avanti l’esperimento di una società inclusiva che pensi anche ai più diseredati.
Villalobos, dall’alto della sua esperienza guerrigliera, modera leggermente i toni e dà consigli che si possono riassumere nell’auspicio di abbandonare ogni pretesa di un socialismo del secolo XXI.
Vargas Llosa, con la sua penna magistrale, invoca La libertà nelle strade ed elogia l’eroismo e la forza dei manifestanti per combattere il pericolo che vede in quel paese: “Il Venezuela è molto più vicino a una dittatura come quella cubana di quanto lo siano, oggigiorno, paesi come il Messico, il Cile o il Perù”. Non ricordo di avergli sentito prendere le parti degli studenti cileni durante le loro prolungate proteste, nè sulla violenza che insanguina un Messico sempre più somigliante a un narcostato, né sulla miseria e sulla discriminazione di una larga fascia di abitanti del suo Perù, meno bianchi e meno acculturati di lui. Forse per una forma di pudore, il premio Nobel non ha citato la Colombia, partner di ferro della politica degli Stati Uniti in America Latina: nella tornata elettorale di domenica 9 marzo, su 32 milioni di aventi diritto al voto, sono andati alle urne solo 14 milioni. Il presidente della delegazione di monitoraggio della OEA si è mostrato preoccupato del fenomeno: “La Colombia si trova, sia nelle elezioni parlamentari che nelle presidenziali, in quel gruppo di paesi in cui l’astensione è più alta, insieme a El Salvador, il Guatemala e il Chile”. Ma per i giornalisti di El País, anche i percorsi elettorali non sono sufficienti a garantire un processo democratico. Cristina Marcano, dopo aver affermato (per chi ancora non lo avesse capito), che “il Presidente è un burattino di Cuba”, ha sentenziato che “con febbraio se ne è andato quel poco che restava di democrazia, al di là del puro esercizio elettorale” ed ha concluso, elogiando il rifiuto a dialogare dei protagonisti delle proteste, con un frase lapidaria: “le rivoluzioni [degli studenti] non dialogano, si impongono!”.


(1) – Atilio Borón ci ricorda che nelle presidenziali degli Stati Uniti del 1960 “John F. Kennedy vinse per una differenza dello 0,1%: 49,7 contro 49,6 di Richard Nixon. E che durante quelle del 2000, George W. Bush con 47,9% ha perso contro Al Gore che aveva ottenuto un 48,4. Ma il fratello di Bush, John Ellis (a) “Jeb”, all’epoca governatore dello stato della Florida, inventò uno scandaloso arzigogolo legale che ha permesso a George W. di imporsi nello stato (dove era stato sconfitto da Gore) prendendosi così i voti elettorali della Florida, per cui ha ottenuto la maggioranza nel collegio elettorale che lo ha consacrato presidente”.

(2) – Secondo il New York Time la NED è stata creata “per portare a termine pubblicamente quello che ha fatto surrettiziamente la CIA (Central Intelligence Agency) durante decenni. Spende 30 milioni di dollari l’anno per appoggiare partiti politici, sindacati, movimenti dissidenti e mezzi d’informazione in decine di paesi” (V. alla voce NED in Wikipedia).

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