Tra il 1995 e il 2005, Garzanti ha pubblicato tre romanzi di Abdulrazak Gurnah. La casa editrice, prima che ci arrivassimo Gianandrea Piccioli e io, aveva pubblicato tra l’altro I figli della mezzanotte di Salman Rushdie (1984) e i romanzi di Michael Ondaatje, ma anche Io venditore di elefanti (1990), in cui Pap Khouma racconta il suo approdo dal Senegal alla Francia all’Italia (di recente Pap ha tradotto la Divina Commedia in wolof…).

Nel 1994 Paradise era stato selezionato per il Booker Prize e per il Whitbread Prize; in Inghilterra Gurnah aveva un ottimo agente, oltre a insegnare letteratura inglese e postcoloniale all’Università del Kent. A ispirare la sua narrativa c’erano un’esperienza e una motivazione autobiografiche: anche lui aveva un passato da rifugiato, come decine e decine di milioni di esseri umani in tutto il pianeta. A vent’anni era stato costretto ad abbandonare la natia Zanzibar, dove era nato nel 1948, quando la minoranza mussulmana aveva iniziato a essere perseguitata dal governo della Tanzania. E questo ha dato necessità, verità e spessore alla sua scrittura.

Insomma, Gurnah era un autore apprezzato per la notevole qualità letteraria e affrontava temi che la casa editrice aveva già esplorato con successo: il passaggio cruciale della decolonizzazione e le sue conseguenze, le migrazioni in un mondo globalizzato, il rapporto tra la memoria e l’identità. Meglio di me lo hanno spiegato nella motivazione del Premio Nobel, che gli è stato assegnato “per la sua intransigente e profonda analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel golfo tra culture e continenti”.

Così Garzanti ha pubblicato tre suoi romanzi – Paradiso (1995, traduzione di Laura Noulian), Sulla riva del mare (2002, traduzione di Alberto Cristofori) e Il disertore (2005, traduzione di Laura Noulian) – legati alla terra di origine dello scrittore, ma che si allargano nel tempo verso il passato e nello spazio, sia nelle diverse Afriche sia in Occidente.

Paradiso è ambientato in Kenya, all’inizio della Prima Guerra Mondiale, quando sul continente si stringe la morsa coloniale. Protagonista è il giovane Yusuf: per pagarsi i debiti, il padre l’ha venduto come schiavo a un ricco mercante, “zio Aziz”. Questo romanzo di formazione è il viaggio di Yusuf e Aziz nel “cuore di tenebra” di un continente dai mille conflitti, anche religiosi.

 

Il disertore è centrato su una storia d’amore. Martin Pearce, viaggiatore, studioso e scrittore, cade sfinito ai piedi del giovane Hassanali, che lo salva portandolo nella casa dell’unico bianco della città. Quando Pearce va a casa di Hassanali per ringrazialo, resta affascinato da sua sorella Rehana, dando inizio a una vicenda destinata a durare diverse generazioni.

 

 

Sulla riva del mare si apre con l’arrivo da Zanzibar all’aeroporto di Londra-Gatwick di Shaaban, un profugo senza documenti e senza denaro. Con sé porta solo una scatoletta che contiene una scheggia del profumatissimo oud, che naturalmente gli viene subito sequestrata. È un romanzo corale, che racconta il nostro mondo visto con gli occhi dell’Altro, appoggiandosi su un’ironia sempre velata di malinconia, quella di chi è stato strappato dalle proprie radici.

Gurnah racconta di paradisi perduti e desiderati, di incontri tra persone che arrivano da mondi diversi. Le loro identità in trasformazione, le loro memorie fluttuanti, aprono squarci lirici in storie che hanno forza epica. Nella sua scrittura (in inglese) ci sono la tradizione del racconto orale, ma anche la conoscenza della cultura occidentale: ironicamente, gli “esploratori” africani (e non solo) di Sulla riva del mare conoscono la lettura britannica meglio degli “indigeni” inglesi.

L’autore veniva da un’area letterariamente poco frequentata (oggi come negli anni Novanta), che non incuriosiva e non incuriosisce nemmeno i recensori. L’Italia non ha mai fatto i conti con il proprio passato coloniale, nonostante gli studi di Angelo Del Boca, come ci hanno fatto capire Daniele Timpano ed Elvira Frosini con il loro spettacolo Acqua di colonia (Cuepress, 2016), e una scrittrice-attivista come Igiaba Scego con i suoi libri e la sua militanza: figurarsi l’interesse per il passato coloniale degli altri… I rifugiati sono oggetto di un’interminabile e insensata battaglia politica, rinchiusi in centri di detenzione troppo spesso al di sotto della dignità umana, ingabbiati dai media nel cliché del pericoloso nullafacente a spese dei contribuenti: difficilmente potevano essere presi in considerazione come protagonisti di romanzi carichi di emozioni, affetti, sogni…

Forse Garzanti è arrivata in anticipo ai romanzi di Gurnah, o forse sto solo cercando una giustificazione autoassolutoria per un successo mancato. L’editoria è piena di storie come questa, di libri arrivati troppo presto, o troppo tardi… Non è solo un problema italiano: Alexandra Pringle, l’editor che lo seguiva per Bloomsbury, ha commentato così la notizia del Nobel al “Guardian”: “È uno dei maggiori scrittori africani, e quasi nessuno si era accorto di lui e questo mi distruggeva. Ho fatto un podcast la settimana scorsa e l’ho citato tra le grandi personalità ingiustamente ignorate”.

Oggi i romanzi di Gurnah sembrano fin troppo attuali, anche da noi. C’è stata l’onda di #blacklivesmatter. I segnali del passato colonialista sono diventati oggetto di attacchi iconoclasti, le statue vengono abbattute e gettate a mare. Forse qualcuno sta iniziando a capire che i rifugiati possono essere anche una ricchezza e che in ogni caso la decisione di consentire la circolazione del denaro e delle merci impedendo quella degli esseri umani non ha alcun fondamento logico e men che meno umano. E si ricomincia a cantare l’elogio dei muri per fermare l’Invasione, appena fuori dal giardino incantato della letteratura. Per questo sono davvero felice che grazie al Premio Nobel e grazie all’attenzione dei suoi giurati anche ai temi etici, i romanzi di Gurnah, così ironici, cosi struggenti, così saggi, possano ricominciare a circolare e trovare altri lettori.

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