PARIS;FRANCE - MAY 16: Author Bruce Chatwin poses on the 16th of May 1984 while promoting his book in Paris,France. (Photo by Ulf Andersen/Getty Images)

Accadde durante l’inverno di dodici anni fa, in un elegante hotel disperso tra le montagne dell’Engadina. Mi giunse, dopo aver attraversato le rotte del caso, una copia sgualcita di Anatomia dell’irrequietezza. Ne ricordo ancora la copertina: una tonalità simile al malva tanto amato da Nabokov, un rettangolo da cui dardeggiava lo sguardo di un giovane Wodaabe nigeriano.

L’effetto fu immediato, sconvolgente: prendere quel libro e sfogliarne qualche pagina fu come avvicinarsi ai fili dell’alta tensione. Tra le mani avevo quello che, da subito, il mio istinto aveva eletto a breviario, folgorante e indimenticabile livre de chevet. Mi immersi devotamente nella lettura, tra furiose tormente di neve, nell’accecante candore che ricopriva le orme dei camminatori.

Adesso, a più di un decennio di distanza, riconosco che quelle pagine, fitte di lampeggiamenti, mi hanno rivelato squarci di mondo e paesaggi interiori. Leggevo di deserti equatoriali, foreste imbiancate, altopiani siberiani, e mi sembrava di assorbire l’enigmatico mistero e la mercuriale energia degli aforismi di Eraclito.
Ghiannis Ritsos
Lo Scandagliatore

Libro postumo e inclassificabile apparso nel 1996, Anatomia dell’irrequietezza ci restituisce un mosaico frammentario che racconta di deserti, di orizzonti e di spazi sterminati. Non è un manifesto, né un diario di viaggio. È piuttosto una bussola impazzita, uno specchio infranto che riflette il mondo in mille schegge scintillanti. Meravigliosa dissonanza del visibile.

Il libro si apre con un grido silenzioso: Horreur du domicile, l’orrore della casa. L’aveva evocato per primo un poeta parigino, urbano elogiatore della vita randagia: Charles Baudelaire. È il rifiuto del radicamento, del peso delle pareti e delle abitudini che imbrigliano il passo e spengono la luce negli occhi. Per Chatwin, l’uomo non è fatto per stare fermo. “L’impulso a varcare lunghe distanze è inscritto nel nostro sistema nervoso”, scrive. E così, fin dall’infanzia, camminare diventa il suo verbo sacro, il nomadismo la sua religione, il viaggio la sua preghiera.

Viene da pensare a un altro grande viatore della letteratura, Arthur Rimbaud, alle albe alcionie davanti alle fortezze, ai sanguinosi tramonti africani, ai tumultuosi mercati carovanieri e alle notti rischiarate da lune eburnee.

I luoghi evocati da Chatwin sono come creature pulsanti di vita. C’è la Patagonia, aspra e silenziosa come una promessa non mantenuta, e c’è il Sudan, dove il cielo pesa sul viaggiatore come un tamburo teso. E poi Londra, Edimburgo Francoforte e Vienna, dove per contrappasso e antinomia siderale l’esistenza si ricompone nelle pose ingessate della cosiddetta civiltà.

Meglio andare altrove, là dove l’atto stesso dello scrivere sposta i confini e la geografia diversa diventa orogenesi creativa: per esempio in una medievale torre di segnalazione in Toscana, su una collina lambita dal mar Egeo ospite di Patrick Leigh Fermor, o accanto allo scorrere di un fiume in Galles, terra che risuona dei versi immortali di Thomas.

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La seconda sezione del libro, sobriamente chiamata dai curatori “Racconti”, raccoglie quattro scritti disseminati in un arco di tempo lungo due decenni. Uno in particolare mi sembra indimenticabile, Latte, diamante solitario, una storia di iniziazione tratta verosimilmente dai taccuini africani di Chatwin. Un giovane americano, di cui non si hanno ulteriori informazioni se non la sua verginità, si trova in un luogo imprecisato dell’Africa, alla ricerca di un contatto autentico e senza compromessi con l’informe e ardente materia della vita. Chiede ricovero presso una pensione, più simile in verità a un bordello. Qui, la governante Madame Gerda, splendido personaggio a metà tra una Madonna caravaggesca e la shakesperiana Nutrice di Giulietta, gli propone un convegno amoroso con una misteriosa e bellissima ragazza africana. Al risveglio della coppia, l’indomani mattina, Chatwin ci regala questo meraviglioso passaggio:

“Ma la mattina fu diverso. Da quella mattina non avrebbe mai dimenticato la luce bianca e le tendine gonfiate dal vento, mai smesso di essere grato per i seni tesi, la bocca dura data generosamente, le braccia forti, le unghie che gli rigavano di rosso la schiena, le piante dei piedi che gli raschiavano le cosce; ancora e ancora, due corpi fluttuanti e poi grevi lungo la linea ineguale in cui il bruno incontrava il bianco; e dopo, mentre tutt’e due erano stanchi, il sorriso divertito di lei e le dita che gli frugavano delicatamente i capelli. La lasciò e attraversò la terrazza. Madame Gerda voltò la faccia al muro. Madame Annie sferruzzava una maglietta rosa. Guardò da sopra gli occhiali e sorrise. «Cammini perfino in un altro modo» gli disse.”

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Il terzo capito del libro si intitola “L’alternativa nomade” e riunisce tre testi che dovevano formare il nucleo di un’opera che Chatwin aveva sempre immaginato e rincorso, ma che non scrisse mai: una summa sulla storia del nomadismo. Mi viene in mente il compimento di un’altra opera della vita, questa però realizzata: il meraviglioso Massa e Potere di Canetti.

Il nomade di Chatwin non è un semplice viaggiatore, ma un funambolo che si muove su una corda tesa tra il caos e l’armonia. È colui che attraversa la vita senza lasciarsi possedere dalle cose, sfiorando appena la superficie del mondo, come il vento sulla sabbia. C’è in lui una grazia istintiva, una leggerezza che non è superficialità, ma capacità di accettare la perpetua mutevolezza di ogni istante.

Per Chatwin, il nomadismo è un ritorno alle origini, a quel tempo primordiale in cui l’uomo camminava per necessità, seguendo il ritmo delle stagioni e il battito del proprio cuore. “L’uomo, umanizzandosi, aveva acquisito insieme alle gambe diritte e al passo aitante un istinto migratorio”, scrive. Ma la civiltà ha soffocato questo impulso, confinandoci in città e case che ci proteggono quanto ci imprigionano. Il sedentario si circonda di mura per sentirsi al sicuro; il nomade le abbatte, trovando nel vuoto il suo centro. Ritorna Rimbaud: “Je dus voyager, distraire les enchantements assemblés dans mon cerveau”.

Il nomadismo non è solo una condizione fisica: è uno stato dell’anima. È la capacità di guardare il mondo con occhi nuovi e limpidi, di accettare l’incertezza come compagna, di vivere ogni incontro e ogni paesaggio come una rivelazione, sfuggendo da ogni illusorio approdo di verità.
Bruce Chatwin, l’esteta irrequieto (…e gli incontri con Malraux, Jünger, Klaus Kinski, Nadežda Mandel’stam)
Libri

Scrivere per Chatwin è viaggiare con la parola, tracciare mappe di un territorio invisibile che si svela solo a chi osa attraversarlo. La sua scrittura non è lineare, ma rapsodica, come sentieri che si perdono nella foschia. Ogni frase è una scia di impronte che il vento si affretta a cancellare.

Nel libro si avverte la tensione tra il desiderio di raccontare e la consapevolezza che ogni racconto è un tradimento. Chatwin lo confessa apertamente: “Alla fine, il manoscritto divenne così impubblicabile che lo abbandonai”. Ma l’abbandono non è fallimento: è un altro modo di proseguire il viaggio. Anatomia dell’irrequietezza vive proprio di questa frammentarietà, di questa capacità di lasciare spazio al non detto.

E poi ci sono le persone: figure evanescenti che attraversano le pagine come miraggi. L’hadendoa sudanese, con la spada e il vasetto di grasso di capra, sembra uscito da un’epopea remota; gli uomini di Taoudeni, che scambiano oro per sale, evocano un mondo di commerci arcaici e di brutalità sublimata; i mitici abitanti di Timbuctù, con le donne enormi che dondolano per la città nei boubous di cotone indaco chiaro, appartengono a un tempo e a uno spazio diversi.

Sono trascurabili, invece, secondo il modesto parere di chi scrive, i ritratti degli scrittori al centro degli ultimi due capitoli del libro: Stevenson, esploratore australe; Thesiger, cantore delle dune di sabbia; e Curzio Malaparte, definito “uno stranissimo scrittore” con vezzi da dandy e autore di libri poco riusciti. Un giudizio, quest’ultimo, particolarmente tagliente e difficile da perdonare.

Leggere Anatomia dell’irrequietezza significa accettare di perdersi: tra i deserti e le foreste, tra le città e le vite appena sfiorate, nella frattura insanabile tra il desiderio di fermarsi e l’impulso irrefrenabile a partire. È un libro che non chiude cerchi, ma spalanca orizzonti; che non dà risposte, ma moltiplica le domande. Perché in fondo, come insegna Chatwin, ogni viaggio – anche quello tra le pagine – non è mai una destinazione, ma un’infinita, folgorante deviazione. Con buona pace di Kavafis, Itaca può attendere ancora.

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