I wanna lay beneath these sheets and never turn blue
I wanna hold you, hold you tight but never touch
I want some pure, pure white; hey, we can nod all night
ìWe can do it without thinking too much
Jim Carroll Band, «Wicked Gravity»
Tutto quello che c’è da dire e da sapere su Jim Carroll sta in un rapido elenco di parole: pallacanestro, poesia, rock’n’roll, eroina. L’ordine non è importante, le parole sono quelle. Racchiudono in sé grazia e vulnerabilità, potenza e resa. Così per la durata di una vita, nel caso di Jim Carroll costellata di episodi memorabili e mai lontanamente facile.
La vanità è una grande qualità
Vedere giocare Jim a pallacanestro è un sistema infallibile per capirne l’opera. Jim Carroll giocava con vanità. A un certo punto della sua vita disse: «La vanità è una grande qualità nel rock. È come quando giocavo a pallacanestro: non è importante segnare due punti ma essere figo mentre lo stai facendo, è una possibilità per trascendere te stesso».
Da ragazzino Jim Carroll amava la poesia. «Volevo diventare un poeta», dirà da adulto. Sarebbe diventato «un pessimo marchettaro», e un grande poeta. Il suo primo libro di poesie se lo autoproduce a sedici anni e mezzo. Si chiama Organic Trains, diciassette pagine in tutto. All’inizio lascia che circoli senza che nessuno sappia nulla dell’autore. Dirà in seguito: «Non ne ho parlato con nessuno per il primo anno perché volevo che fosse il mio libro a parlare, così come voglio che quando gioco a pallacanestro sia il mio modo di giocare a parlare per me, e non io a parlare di lui». Per lui la poesia è come la pallacanestro. È evidente vedendolo giocare. È evidente leggendo le sue poesie. È evidente per chiunque abbia mai giocato a pallacanestro. O scritto una poesia.
Ai poeti beat di New York si sarebbe presentato un anno dopo l’uscita di Organic Trains. E loro vedendolo dissero: Figo, ci chiedevamo chi cazzo fossi. Del suo esordio dichiarò anni dopo lo stesso Jim Carroll: «Era solo un piccolo libro, ma mi convinsi che sarei stato un poeta».
A vent’anni pubblica il secondo libro di poesie. A ventitré, con il terzo, viene candidato al Pulitzer.
Quello che non mi uccide mi fa dormire
YouTube è un buon posto dove studiare Jim Carroll. Ci sono le canzoni, ci sono alcuni videoclip e filmati live, c’è qualche immagine, ci sono molti file audio con dentro interviste e poesie. C’è la pallacanestro e c’è l’eroina. C’è Jim Carroll che legge della perdita dell’innocenza raccontando del giorno in cui Kennedy venne assassinato, che era anche il giorno in cui il suo amico Billy a sei anni si masturbò per la prima volta. C’è Jim Carroll che cita Nietzsche dicendo: «Quello che non mi uccide mi fortifica». E poi stravolge la frase e ne dà la sua, di versione: «Quello che non mi uccide mi fa dormire fino alle tre e mezza del pomeriggio dopo».
Tra le poesie più belle ce n’è una che si chiama «Guardando il cortile della scuola». E il cortile della scuola non è quello dove giocava lui da bambino. Questo della poesia è un cortile frequentato da bambini sconosciuti che come intrattenimento non hanno trovato di meglio da fare che osservare meticolosamente l’occhio di vetro di una loro compagna. Lo tengono in mano, se lo passano, lo guardano con la lente d’ingrandimento, poi lo restituiscono alla bambina e si lavano le mani. Scrive Carroll: «Quando li vedo restituirlo e correre alla fontana per lavarsi accuratamente le mani e asciugarle sulle maniche delle camicie inamidate, mi rendo conto che l’occhio è vero. Vero come la noncuranza con cui ciascuno torna a dedicarsi ai propri giochi». Quella noncuranza. Nella vita Jim Carroll la troverà dappertutto.
Per il modo in cui vanno certe vite, alcuni di noi a tredici anni sono già definiti, sono quello che saranno. Jim Carroll a tredici anni era quello che sarebbe stato. Eroinomane, bello come il sole, un dio della pallacanestro. Scriveva. Era totalmente appassionato alla poesia.
Della storia della sua vita gli episodi più belli riguardano il modo in cui a sedici anni cercò di far conoscere al mondo (o meglio, agli altri poeti) le proprie poesie. Al poeta Ted Berrigan regalò una copia di Organic Trains scrivendo sulla quarta di copertina: «Mi risponda per favore, vorrei fargliene leggere altre». Di lui Berrigan anni dopo disse: «Non ho mai letto niente di simile. Potrei nominare Rimbaud ma non renderei giustizia all’americanità di Carroll».
Un giorno, sempre a quell’età, Jim Carroll si piazzò davanti al Moma aspettando che Frank O’Hara, il suo poeta preferito, uscisse. Poi lo seguì per strada e in metropolitana fino a casa. Lo seguì e basta. Appena O’Hara entrò in casa, se ne andò. Soddisfatto dell’apparente inutilità del proprio gesto. Jim Carroll era fatto così.
Di lui, e di Jim entra nel campo di basket, Jack Kerouac scrisse: «A tredici anni, Jim Carroll scrive meglio dell’89% dei romanzieri di oggi». Vai a capire perché 89 e non 80 né 90.
Lo studio di Miller e Rimbaud mi ha spinto verso il rock
Poeta prestato alla musica e non musicista prestato alla poesia, quando Jim Carroll iniziò a scrivere canzoni rock’n’roll sapeva che le sue muse erano Henry Miller e Arthur Rimbaud. Disse: «Lo studio di Miller e di Rimbaud, che in realtà è uno studio di Miller, è stato ciò che più di ogni altra cosa mi ha spinto verso il rock». Mise in piedi una band new wave punk rock e la chiamò The Jim Carroll Band.
Omonimo il primo disco, impeccabile infilata di gloriose canzoni punk tra cui splende fulgida, bella tra le belle, «People Who Died», nelle parole di Carroll, «non un tentativo di romanticizzare la morte ma solo un modo di celebrare queste persone». Le persone celebrate dalla canzone sono un’infilata di giovanissimi caduti per droga, morte violenta, malattia, troppa tristezza o semplice sfiga. Nella canzone vengono elencati uno dopo l’altro, insieme all’età che avevano quando sono morti e alle cause di morte. Se la metti alle feste ci puoi pure ballare sopra. Una canzone che trascende se stessa.
Ancora Carroll, parlando dei suoi musicisti: «Non volevo un look costruito, volevo che sembrassero benzinai alla stazione di servizio». Benzinai che folgoravano il pubblico cantando di ragazzini morti, con tutto il punk che sfangata la giovinezza andrebbe custodito in animo e cuore.
Jim Carroll musicista alla fine era diventato anche più bravo dell’inizio, e se ha fatto pochi dischi è stato in primo luogo per prendere distanza dalla musica che c’era in giro. Così in un’intervista del 1996: «Una volta ogni tre mesi penso che dovrei fare un altro disco, poi guardo mtv per cinque minuti e penso cazzo che schifo!!, e allora la voglia mi passa».
E poi il rock’n’roll per lui era importante, ma veniva dopo. Dopo la pallacanestro, dopo la poesia, dopo l’eroina. Il rock’n’roll era un modo per distrarsi dalla scrittura. Ringraziava il rock’n’roll ma poi prendeva le dovute distanze. Ancora Carroll: «La teoria che i reading si debbano fondere necessariamente con il rock’n’roll è una stronzata gigantesca. Non succederà mai, la gente ai reading vuole solo un accompagnamento di sottofondo. Lo so perché ho fatto entrambi e posso dire che avverto la diversa reazione del pubblico. Ma ci sono alcune somiglianze e ci sono dei trucchetti che si possono rubare al rock’n’roll. Scrivere una poesia e scrivere un testo per una canzone, tecnicamente, sono due cose molto diverse».
Non ti faresti di eroina se facesse cagare
Per capire la relazione di Jim Carroll con l’eroina bisogna leggere Jim entra nel campo di basket, diari tenuti dai dodici ai sedici anni e pubblicati in America nel 1978. Della sua adolescenza raccontano, appunto, la pallacanestro, la strada, il sesso, New York, l’eroina.
La cosa più bella di Jim entra nel campo di basket la disse lo stesso Carroll in un’intervista: «Pare sia anche uno dei libri più rubati. Me l’hanno detto i ragazzi di Barnes & Noble. Insieme ai libri di Bukowski, Burroughs e Kerouac».
La cosa più bella sull’eroina la disse sempre Carroll in un’altra intervista: «Siamo seri innanzitutto. Non ti faresti di eroina se facesse cagare». Poi, più critico: «Il problema è questo: dopo un po’ la droga diventa una scusa per non fare un cazzo». E infine, onesto: «In fatto di eroina sono sempre stato un rigoroso purista come quei fondamentalisti folk che scacciarono Dylan dal palco di Newport perché si era presentato con la chitarra elettrica. Non mi va di diluire la scarica nella sua essenza».
La cosa più bella del film tratto da Jim entra nel campo di basket, diretto da Scott Kalvert, è Leonardo DiCaprio. Somigliava talmente a Jim Carroll che quando quest’ultimo andò a vedere il film in sala per la prima volta insieme all’amico Lou Reed, si sentì dire da Reed: «In ogni gesto che fa questo ragazzo è uguale a te. Prende persino le cose dalla giacca come fai tu!»
Per il resto è un buon film rovinato da un fasullo finale di redenzione. Così lo stesso Jim: «Il finale del libro era meravigliosamente ambiguo, non sapevi se il protagonista stava andando a perdersi nella droga o sceglieva la poesia. L’hanno stravolto completamente, facendolo finire con l’immagine pomposa di questa persona che dopo un reading di poesie tutto gli va bene. Sembra un incontro del Sert!»
Dopo l’uscita del film Jim prese a essere invitato dalle scuole. Ma era DiCaprio redento e non Carroll tossico che presidi e insegnanti volevano, equivoco che generò una drammatica sequenza di situazioni ingestibili e che rese goffa la presenza di Jim Carroll ferendone la vanità. Ma a quel punto il nostro faticava già a trascendere se stesso. Scriverà nel 1987 nel secondo volume di diari, Forced Entries: The Downtown Diaries: 1971-1973: «Il fatto è che, per molti versi, non avevo intenzione di arrivare a quest’età». E poi: «Non morire giovane può essere un dilemma».
E’ la prefazione di Tiziana Lo Porto a Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll. Lunedì 2 giugno, Tiziano Lo Porto sarà ospite del festival La grande invasione di Ivrea per partecipare all’incontro A proposito di Jim Carroll insieme a Violetta Bellocchio – da minima&moralia