Ci sono foto che descrivono la realtà più di mille parole. Nel nostro immaginario Messico ’68 vuol dire il pugno alzato di Tommie Smith e John Carlos; le proteste di piazza Tienanmen le ricordiamo come l’orgoglio e il (vano) coraggio di un uomo dinanzi all’arroganza del potere; la fame per noi ha le sembianze scheletriche di una bambina sudanese, guardata a vista da un avvoltoio in attesa del pasto; la guerra in Vietnam è il pianto e la nudità di Phan Thi Kim Phuc.
La fotografia sancisce l’ineluttabilità dei fatti. È testimonianza e documento, anche in un’epoca in cui – tra selfie, socializzazione del privato e tirannia del ricordo – sovrabbondanza e velocità rischiano di depauperarne la forza.
La fotografia non è solo un inveramento. Diventa uno strumento prezioso quando riesce a raccontare una realtà diversa da quella ufficiale o mediaticamente più forte. In questo caso sarebbe più corretto parlare di svelamento o smascheramento. La maschera da gettare via è rappresentata dalle narrazioni tossiche, da quelle storie che acquistano tanta più credibilità quanto più sono superficiali, violente e “comode”.
La notte tra il 14 e il 15 ottobre esondazioni e frane hanno “martoriato” (così si è espresso il sindaco Fausto Pepe) la zona del Beneventano. Sui giornali se ne è parlato poco, nonostante la situazione – soprattutto nei piccoli comuni del Sannio – sia abbastanza critica. C’è sicuramente chi avrà visto l’istantanea del quartiere Ponticelli invaso dall’acqua. C’è poi un’altra immagine simbolo dell’alluvione: ritrae una quindicina di immigrati di colore con le pale in mano e i vestiti sporchi di fango.
Al di là delle facili strumentalizzazioni – sia in un verso sia nell’altro – questo scatto squarcia gli stereotipi sugli immigrati e rende imbarazzanti le usuali reazioni di astio o indifferenza nei loro confronti. Questo scatto è pieno delle storie di ragazzi che sono fuggiti dal Mali, dal Senegal, dalla Guinea, hanno attraversato il Mediterraneo sui barconi della morte e hanno raggiunto la “terra promessa”. Babou è arrivato nel 2014 dal Gambia e ancora attende l’esito della domanda di riconoscimento della protezione internazionale. Vive in un centro di accoglienza nella zona della stazione centrale di Benevento, un’area “popolare” dove stenti e difficoltà si accumulano in un gioco che non è a somma zero. La mattina del 15 ottobre Babou si è rimboccato le maniche e ha dato una mano a ripulire le strade, fianco a fianco con i suoi compagni e con gli abitanti del rione: “Abbiamo voluto renderci utili. Mi sembra una cosa naturale”.
Questo scatto è una speranza appena accennata, è una traccia da cui si sviluppa un possibile esperimento di integrazione. Qui lo strepitare dei populismi di destra si ammutolisce, i fatti soverchiano la parola omologata. “Ora sono nostri fratelli”, è la voce dei residenti raccolta da Roberto Russo sul Corriere del Mezzogiorno del 18 ottobre. Alla speranza – così labile, così fragile – si aggrappano questi ragazzi che vengono dall’Africa più profonda. La “normalità” è fatta di disagi e cattiva accoglienza. Come dimostra il caso della struttura in contrada Madonna della Salute (con due bagni per circa 100 migranti). È fatta di difficoltà. A integrarsi e a trovare lavoro. È fatta di tentativi. Di abbattere la paura degli italiani e allo stesso tempo di non chiudersi in se stessi, di non autoghettizzarsi. Babou e gli altri – lo raccontano, ma è facile accorgersene da soli – spesso ciondolano tutto il giorno, sconfitti dalla noia. Anche così si spiega la loro esigenza di darsi da fare nelle ore post-alluvione.
Questo scatto è solo un pezzo del racconto di solidarietà scritto dai migranti. Sono tante le storie che s’incrociano tra le vie dissestate della provincia beneventana. Come quella di Ali. Ha 19 anni, viene dall’Afghanistan e frequenta il terzo anno di un istituto professionale. Sta facendo esperienza in un’officina meccanica e spera di incontrare presto la donna giusta – “che sia italiana”, dice – per sposarsi. Anche Ali ha pulito le strade infangate. Se gli chiedi il motivo del suo gesto, scrolla le spalle e ti guarda sorpreso: “Qui hanno paura di noi, ma siamo tutti uomini. Dobbiamo aiutarci”.
E poi ci sono i migranti sparsi sul territorio della provincia. Là dove l’alluvione ha fatto più danni. A Dugenta, piccolo paese situato tra la valle telesina e quella caudina, il loro apporto è stato fondamentale. Tra i volontari c’è chi lo scorso maggio è sceso in strada in segno di protesta per le lungaggini burocratiche legate al riconoscimento dello status di rifugiato. Con buona pace degli agitatori xenofobi che leggono ogni manifestazione d’insofferenza da parte dei migranti come una testimonianza d’ingratitudine e di mancanza di rispetto nei confronti dei loro “benefattori”.
Insomma, questo scatto va visto e rivisto. Non è di quelli che inverano, ma di quelli che svelano. Spazza via l’odiosa dicotomia tra rifugiati di guerra e migranti economici. Decostruisce le narrazioni tossiche che, fondandosi sulla logica della paura e contrapponendo poveracci italiani e poveracci “altri”, creano un capro espiatorio su cui riversare rabbia e frustrazione.
È vero, ci siamo ormai abituati ad altre immagini. Il Mediterraneo popolato di cadaveri oppure una parte dell’Europa solcata da muri, frontiere, barriere. O ancora beceri fotomontaggi, facilmente rintracciabili nel mare magnum della Rete.
Soprattutto ci siamo abituati all’ideologia fascio-nazionalista e a programmacci televisivi che istigano continuamente all’odio razziale. La pagina Facebook di Matteo Salvini è lo specchio della capacità suasiva di narrazioni tossiche ben strutturate. La strategia del leader leghista si basa su un unico semplice principio: additare un colpevole, il più debole che ci sia. A seconda delle situazioni l’uomo nero è accolto in alberghi a quattro stelle, mangia a spese dei contribuenti, delinque, ruba il lavoro agli italiani.
In questa epopea della patria tradita gli ultimi si dividono in fazioni, le une contro le altre armate. E, come nella migliore tradizione, scompare la conflittualità profonda di questa società. Scompaiono le sofferenze, la povertà, gli stenti, le responsabilità storiche e politiche. Scompare la verità, come quando si afferma che i migranti si mettono in tasca 40 euro al giorno o come quando si sottolineano solo i crimini compiuti da extracomunitari, maghrebini, albanesi, rumeni, rom (c’è un sito che si chiama proprio tuttiicriminidegliimmigrati.com). Scompare una parte della realtà. Che può essere negativa, come nel caso dei lavoratori di colore (e non solo) sfruttati nelle campagne italiane. O positiva, come nel caso dei ragazzi che hanno imbracciato mazze e indossato stivali per dare una mano agli alluvionati. È solo un’immagine, certo. Ma vale molto più di mille parole.